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"Le pause della serie evolutiva" di Vincenzo Frungillo (con una nota su "La vita, le

In Le pause della serie evolutiva (Oèdipus, 2016) Vincenzo Frungillo affronta una molteplicità di tematiche, offrendo un libro ricco di rimandi e significati, in quello che già dal titolo si mostra come un viaggio, una dinamica intervallata da interruzioni irrazionali, che sembrano smentire la prevedibilità dell’avvenire, dove i vuoti si spalancano ai nostri occhi, come recita l’esergo in apertura di Osip Mandel’štam.


Una dinamica che, partendo da un approccio che appare scientifico e razionale, analizza lucidamente l’individuo al di fuori della sua funzione nella “serie evolutiva” della specie.


La “pausa” del titolo sembrerebbe proprio quella dell’uomo che si trova all’esterno di questo meccanismo delle “magnifiche sorti e progressive”, in uno stato di smarrimento, riflessione e riscoperta, nel momento in cui si spezza la relazione tra l’individuo e la sequela di organismi funzionali alla specie di appartenenza, soprattutto in un’epoca spersonalizzante come quella cui apparteniamo.


Da qui il confronto tra l’individuo e la sua funzione, ma anche tra l’io e tutto ciò che lo circoscrive, e, in particolar modo nella seconda parte del libro, il confronto con la storia, o meglio con alcuni personaggi storici, che diventano occasione di trasfigurazione dell’io lirico e di riflessione su alcun meccanismi umani, meno lontani di quanto sembrerebbero. Tra le diverse voci del libro, in particolare tra le diverse voci-personaggi presenti nella parte conclusiva, la distanza temporale è azzerata: esse sono accomunate dall’esperienza di una condizione nuova, in un tempo ucronico, alternativo.


La prima parte della raccolta si apre con la sezione Meccanica pesante, dove Frungillo già mostra un senso di disagio, ad esempio quando scrive “Resta il mancato utilizzo / d’ogni oggetto … si confonde la manopola dell’acqua calda / con la manopola dell’acqua fredda … Si resta da soli a fermare la morte / mentre la si guarda arrivare, / come una funzione del nostro atto vitale”.


In altri versi si manifesta il conflitto tra la funzione della parola e quella del silenzio, rectius, dei silenzi: “Bisognerebbe scrivere un galateo dei silenzi, / sottolineare che ce ne sono di diversi … Eppure la nostra natura è fatta di parole, / la nostra natura è tradire, spostare l’ombra, / risanare ogni volta l’assenza che ci forma”.


E il rapporto tra parola e silenzio, equilibrio tra due estremi che non possono mai prevalere l’uno sull’altro, si incarna nel “rumore di fondo come di cinghia / che esce dalla sua puleggia” nella macchina della specie, in un segnale che diventa “eco / per tutta la specie”, un avviso a non cedere all’isolamento, un invito a partecipare al meccanismo seriale, o almeno provarci.


“Bisogna tentare”, è l’invito chiaro, “anche se con gli anni / ci sentiamo sempre più soli e distanti”, e dunque agire e cercare un’azione positiva, nonostante lo smarrimento e la crepa esistenziale.


Anche se “non si afferra ciò che ci precede”, già in questa sezione appare il primo invito al confronto con la storia: “Si cerca la parola stretta nella storia / quando la società crolla / nel tutto si deve perché si può fare”.


Nella sezione Terre straniere, si amplifica il disagio dell’individuo, che si trova ad affrontare la morte, il distacco, la finitezza delle relazioni, che sembrano aumentare la distanza tra l’io e la specie, ma anche tra la parola e la sua aderenza alla realtà: “Dove porta, ora, la parola? / Non ha dato alcuna risposta”. Anche la serialità di alcuni gesti perde di significato, quando “Non serve lavare la biancheria, / se poi scende cenere / sulle case vuote”.


Di nuovo un riferimento alla storia: “Adesso c’è qualcosa che dura, / ora che la storia ritrova la sua natura”. Un collegamento che sembra poter dare nuovo significato, dopo la difficoltà dell’esistenza, della perdita delle persone care, dell’isolamento.


Si presenta un collegamento diretto con il passato storico quando “L’Italia risorge questa mattina dalla poesia / di un adolescente che finisce l’impresa / iniziata più d’un secolo prima; / resistere alla voce straniera, all’incondizionata resa” e soprattutto “perché un giorno non ci sarà confine tra chi assedia e chi si difende. / La preistoria ci comprende”. Qui, in particolare, con un intelligente ambivalenza, il passato più remoto diventa sia familiare che inclusivo, in un monito di appartenenza che sembra imprimere direzione.


Ne Il porto di Baia, appare il primo personaggio storico, Plinio il Vecchio, che testimonia l’eruzione del Vesuvio, “che distrusse Pompei ed Ercolano, lì dove erano conservati i papiri che contenevano la dottrina epicurea”, annota Frungillo in calce al testo; e come la natura incenerisce quei documenti, Memmio, il più affidato allievo di Lucrezio, prenderà talmente alla lettera i suoi insegnamenti da distruggere il giardino di Epicuro, “il giardino sterminato dalla tua giovane mano”, una mano che diventa più che mai espressione della natura delle cose. I rimandi e i richiami sono ricchi e interconnessi, come è intensa la relazione tra uomo e natura: Plinio il Vecchio “Volle diventare fossile, / pietra, calco della terra”, mentre il nipote, testimone dell’evento, “su una tavoletta di cera annotò la sparizione”.


La seconda parte del libro inizia con la sezione Lucrezio, che diventa possibilità di contatto con l’io narrante (presente in alcuni passaggi), con il presente e l’attualità della condizione umana, nella figura di questo secondo personaggio storico appartenente alla tradizione classica.


Si raffigura la condizione del dubbio, del bivio “mortale … la Y della decisione”, e con versi particolarmente ispirati si afferma: “Il sublime è la precisione. / Ma adesso, cosa avrò da dire … come rivelare il sublime, / l’iridescenza del clinamen? / Dopo aver visto la vista, / non mi resta che tacere”. E ancora: “Dio tace. Saperlo assente / è la prova vincente!”


La dinamica degli atomi della fisica epicurea diventa occasione di riflessione esistenziale e umana, e infine poetica: “essere poeta significa salire di schiena / al tempio della dea, la Venere etrusca”, che “ad ogni corpo affida la sua caduta” e, pertanto la sua parenclisi, che darà un senso, nella certezza dell’incontro e del contatto, a quella che altrimenti apparirebbe come una caduta verticale nel vuoto.


Attraverso le parole di Lucrezio al proprio discepolo, Memmio, lo si conferma: “anche se alla fine il vulcano mi darà ragione, / tutto intorno sarà solo cenere e distruzione, / io non voglio la fine d’Empedocle, / ma la vita degna d’Iperione. / Perché la regola è una, / ed unica è la fonte / guarda, Memmio, / il sole”. Non un esilio, dunque, ma un sì alla vita, in tutte le sue declinazioni.


Ancora: la sezione successiva, Stephan, vede protagonista i fanciulli Stephan e Nicolaus, che guidarono la crociata dei fanciulli, ricordata tristemente come iter stultorum.


L’ingenuità di questi innocenti, la loro fede così cieca e ingannevole, si scontra con l’esito crudele della loro impresa: la marea di fanciulli finirà per diventare merce di scambio nel mercato degli schiavi, nel trionfo della materiale crudeltà dell’uomo, che corrompe fatalmente il sogno dell’impresa dei fanciulli, cui nemmeno la memoria, che li battezza stolti, sembra offrire rispetto.


Un altro simbolo forte, attualissimo, in particolar modo nella nostra epoca di migrazioni e di scontri tra culture, un altro personaggio storico che diventa simbolo di riflessioni senza tempo, di un uomo inadatto e ferocemente paralizzato tra i meccanismi della legge del più forte, del più scaltro, nella “serie evolutiva”.


“Chi è pronto al sacrificio / o è un martire o è un assassino” e risuona l’apertura della parte prima del libro: “Per la legge naturale della specie, / solo chi conosce fino in fondo / la tenerezza dello stare al mondo / può vedere le barbarie, / e chi, per sua fortuna, / non conosce l’essenza della creature, / non può vedere la violenza, / può soltanto praticarla” .


E su tutta la sofferenza umana sembra primeggiare l’incoscienza di chi è parte di questo meccanismo indifferente: “li venderanno come carne fresca / come la risorsa più preziosa. … fissano il vuoto, scorre sangue / da un orecchio, non c’è soccorso, solo l’eco / e ancora questo pallido lamento”.


L’uomo fisso nella “pausa della serie evolutiva”, che comprende “la tenerezza dello stare al mondo” appare come un’eccezione nella catena di organismi che pratica la violenza senza comprenderla, travolto in un meccanismo di “sviluppo” che etichetta frettolosamente l’innocenza come stoltezza.


Nel percorso apparentemente lineare e scientifico della teoria evoluzionistica, che sembra quasi, nell’ottica di Frungillo, una teoria atta a giustificare la logica di predominio dei più forti e dei prevaricatori, le pause appaiono come un’interruzione di una logica meccanica e spietata, accettata dai più.


Tali pause, come dei vuoti nella Storia, ci dicono proprio questo, e si inseriscono perfettamente nell’insistere della relazione con i vuoti, affrontata in particolar modo, come visto, nella sezione Meccanica pesante.


È impossibile ignorare le eccezioni della logica evolutiva e le sue pause: se anche l’uomo provasse a soffermarsi solo sul frastuono superficiale, resterebbe in ogni caso nelle sue orecchie il rumore di fondo, come un monito ed un segnale.


Infine, nella sezione conclusiva, Epaminonda è l’ultimo paziente del lazzaretto di Spinalonga, ultimo simbolo che racchiude un punto di fuga e di riflessione conclusivo: “Terra, terra. / Nessuno risponde, / solo il fascio di luce che illumina forme. … E allora, cosa? / La domanda ci lega ad una parola / – cosa – la nostra sola risposta” .


Di nuovo il corto circuito tra domanda e risposta, tra parola e silenzio, mentre “s’arresta la linea del tempo, / la sua grana sottile si scioglie, m’accoglie” in una comunione tra passato, presente e futuro, che sembra donare una coerenza alla serie e a tutte le sue eccezioni.


E infine, la poesia di chiusa. Qui il confronto, netto, con la dimensione animale (cui l’uomo, in fondo, appartiene – altra verità racchiusa nel titolo) e in particolare, con la potente immagine della mosca: “Una mosca che annaspa sul vetro /porta in grembo il frutto del suo parto. / Se ne schiaccio il corpo, / si spandono, strisciando, … le sue larve sul pavimento … produce larve ciò che tocco, / solo se sto fermo imputridisce il mondo … Allora si rinnova la sua funzione, / mentre ringiovanisce la mia morte, / e la mosca che schiaccio / è già in sé tutte le sue larve”.


Qui la dinamica del vivere, la negazione dell’immobilismo e l’affermazione dell’azione positiva, del “bisogna tentare” si rinnova, e sembra riecheggiare la chiusa di una delle poesie della sezione Lucrezio, quando il maestro, rivolgendosi al discepolo che ha compiuto un gesto apparentemente folle, distruggendo il giardino di Epicuro, viene così ammonito: “Non sentirai le loro chiacchiere / crescerti nel petto, / come larve di mosca / invecchiare il mio aspetto”.


Un’immagine che, nonostante l’apparenza disumana e ripugnante, contiene in sé un invito ad abbracciare la vita, il suo rinnovarsi e la sua dinamica evolutiva, con tutte le sue imperfezioni, senza dare un ruolo preminente alla presenza umana, nel quadro d’insieme della realtà della natura.


In chiusura, mi piacerebbe tratteggiare un rapidissimo confronto con un’altra pubblicazione molto recente, che a parere di chi scrive ha qualche punto di contatto con il libro di Frungillo finora analizzato, ovvero La vita, le gesta e la tragica morte di Serlone d’Altavilla detto Sarro di Erminio Alberti (Samuele Editore, 2017).


Non analizzerò tutta la raccolta, anch’essa ricca di rimandi e di tematiche complesse, ma cercherò di evidenziare solo qualche relazione, sperando di non azzardare troppo nella mia personale lettura.

Anche nel libro di Alberti il confronto con un personaggio storico diventa occasione di riflessione sull’attualità e sulla prospettiva del presente e dell’avvenire, e punto di contatto con problematiche senza tempo.


L’episodio della battaglia di Cerami e le vicissitudini della Sicilia del 1063, nel conflitto tra culture contrastanti ed estranee, mostra, dietro il nostro protagonista, “il cielo che si squarcia, / si strappa come di carta / pesta, si mostra l’inganno” come un momento di rivelazione per chi sa coglierlo, mentre “intanto / la lotta imperversa, / risuona / il clangore del ferro” e, come in un’occasione di liberazione sprecata, la conclusione: “fatti fummo per morire in battaglia”.


E anche qui le tematiche sono occasione di riflessione attualissima: il tradimento di Ibrahim, uomo di fede (e dunque non smarrito dalla perdita di identità, di riferimenti territoriali ma anche metafisici), il cui tradimento “è cosa buona e giusta, / affinché prevalga una verità, una sola”, in un’epoca di incertezze e di disorientamento pericolosamente simile alla nostra; o ancora il senso di pace ingenerato dalla natura che “non è mai stasi, è sempre conflitto e scontro … giunge all’animo Pace, nonostante le mani vogliano / impugnare di nuovo la Spada”.


Anche in questi versi di Alberti l’uomo non può arrendersi all’immobilismo, e deve farsi parte attiva nella dinamica delle cose, della specie, per così dire.


E dopo la riflessione storica, il confronto netto con l’epoca del Kali Yuga: “giacché ha dato i suoi frutti / la grande omologazione”, si realizza la spersonalizzazione dell’uomo moderno, per cui “i titoli di banca saranno il loro pane” … “la lingua ad uso degli avi ormai / disfatta” … e nonostante ciò, nonostante “i tempi bui” … “Vivere, vogliamo vivere … tra i canti dei palazzi infestati / dalla storia e dall’erba vento”.


Di nuovo, la presenza esplicita della storia, valore che crea connessione e imprime direzione.


La poesia contemporanea, a quanto pare, può trovare linfa vitale in un confronto fruttuoso con la storia, i suoi episodi e i suoi protagonisti; e ciò può avvenire non solo attraverso le vicende più prossime, ma anche attraverso la vita degli emarginati, degli sconfitti, dei dimenticati tra le pieghe dei secoli.


Dalla riflessione che ne consegue è possibile tratteggiare un vero e proprio punto di contatto, capace di orientare, anche attraverso il linguaggio della poesia, nell’epoca della vertigine, dell’incoscienza e della deriva ideologica.

Mario Famularo

 
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