"Tutte le poesie" di Luigi Villa Freddi (Nomos, 2016) - di Mario Famularo
La pubblicazione di tutte le poesie di Luigi Villa Freddi (Nomos 2016) rappresenta il bilancio di un’intera vita in versi, il confronto con la poetica di un’esistenza attraverso il diverso rapporto con la parola nel trascorrere degli anni.
Non è un caso che il prefatore Massimo Scorsone asserisca che “si scrive sempre e soltanto uno stesso libro”, anche se il punto di vista dell’autore, la prospettiva e i dettagli su cui si è soffermato, nel corso delle diverse opere racchiuse in questo libro, anche a distanza di molti anni, non sono mai gli stessi – pur componendo un quadro di insieme coerente e sorprendentemente lucido.
Sempre la prefazione individua come tratti salienti di Villa Freddi “l’inquietudine”, un “disinganno lucidamente contemplato” e “scarsamente consolatorio”, una “discrezione ironica” dietro cui si nasconde una “precisione … in cui la disciplina si fa misura”.
Sono tutte osservazioni che sento di condividere, che appartengono al testo. Già dalla prima raccolta del nostro (“Variazioni sulla notte”, 1985) è immediatamente percepibile il punto di vista del Villa Freddi, di fronte a una notte che si fa metafora dell’inconoscibile, simbolo del mistero in cui l’uomo, con difficoltà, tenta di penetrare, ma che resta sfuggente e indecifrabile, stringendo l’uomo in una morsa esistenziale senza scampo, velenosa e mortale.
L’inquietudine di cui si è detto, presente in tutto il libro, è spesso conseguenza del dubbio lancinante, punto di vista privilegiato di Villa Freddi. Sin da quest’opera prima si può osservare la presenza costante di un chiaroscuro di contrasti (nella fattispecie tra “luce” ed “ombra”, tra “vita” e “morte”, tra “sogni” del futuro e “rimpianti” del passato, in ultima istanza tra consapevolezza razionale della precarietà umana e aspirazione metafisica, sostanzialmente disattesa) che l’autore tenta di comporre in una visione armonica, razionale, ma sempre irrequieta e in sommovimento.
Egli è “inghiottito dall’ombra” in una notte “fascinosa di specchi inquieti … di improvvise evasioni di luce”, che “mescola rimpianti e sogni in velenosi distillati”. Ancora: “t’inseguo fra lente ombre … nel groviglio di luci” (in un altro testo dirà nuovamente: “Segnatamente mescola sogni e rimpianti”); “l’acqua oscura e insidiosa” diventa opaco riflesso dell’inconoscibile, dove tutto, “presente e trascorso, / bene e male, / vita e morte …”, muta nel “mistero d’eterno sfumare”, quasi con velocità incontrollabile, nell’ “acqua senza moto apparente” che “trascina, perde, stordisce”.
Inizia a ricorrere (già nei versi citati, e lo farà in tutta la sua produzione) la parola specchio e di conseguenza i riflessi, ulteriore spettro di una realtà misteriosa e dubitabile, di fronte alla quale, con occhio scettico ma curiosità vivace, il Villa Freddi tenta di decifrare il mistero dell’esistenza: nella “eterna burla del chi siamo” la notte cosparge il suo territorio di “specchi minuziosi” … “È troppo per me il gioco degli specchi” … “disciolto nel sogno delle nebbie” …. tra “fumo e riflessi in corruschi bagliori”. Anche il fiume (e qui vediamo come l’acqua, già citata, diventa a sua volta uno specchio), nel testo “Ma non è più la stessa vita!”, dove si riflette sul passato perduto, non è più l’ “ampio specchio della mia infanzia”.
In questi testi notturni, poi, particolare è il tono, quasi di rimbaudiana memoria, che esaspera la miseria degli oggetti appartenenti alla notte e alle sue creature, in un contrasto tra la loro materialità deprecabile e la maestà del mistero notturno – di nuovo, in un tentativo di composizione tra realtà materica e possibilità (o impossibilità? Dal tono disincantato sembrerebbe più adeguato) metafisica.
È dunque una notte “di popolose bagasce … di fumo, di clamore, di puzzo”, in cui la “grande madre dall’ampio seno” (forse la notte stessa e ciò che rappresenta) si scioglie per le strade “come una vecchia prostituta”, l’intero cosmo “vomitando si contorce”, e la notte è “sordida e sola” tra apparizioni, “in incubi enormi / di corpi cosparsi di verruche, / di vario materiale escrementizio, / in potenti rigurgiti …”. Arriviamo alla chiusura della silloge: “C’è dunque ancora una speranza, / un’altra vita ancora?”, chiede l’autore confermando la dimensione del dubbio e la riflessione sul rapporto tra realtà e metafisica, tra vita e morte, tra ragione e possibilità di fede (la quale si direbbe esclusa, anche se ponderata e desiderata … ma ci torneremo infra). “Se non avremo cognizione / di quello che siamo stati … sono una cosa sola morte e vita, / vita e morte intimamente, fatalmente legate.”
Anche nel brano “Con un po’ d’ironia”, dove si valorizza il contatto umano e la serenità di un sodalizio intellettuale, si chiude, nonostante il tono brillante e quotidiano, con un “e poi in braccio a Morfeo, / a sognare cadute nel vuoto / e sterminate distese d’acqua.”
Ne “La spina velenosa” (2000) l’inquietudine si accentua: l’esperienza della vita diventa un’infezione, il vivere si fa dolore e irrequietudine; nell’ansia e nella perdurante disperazione del domani, si rinforza la consapevolezza di essere niente, e persino la parola incespica e si indebolisce, diventa insufficiente – fino al punto in cui persino gli oggetti, nella loro materialità, appaiono separati e privi di senso.
“In questa vita di insolvenze … troppo è il prezzo del dire … per ritorti sentieri e spine e rovi … si scambia con il soldo del dolore /l’eterea leggerezza della morte.” … “in questo volo che non ha domani” … “incespica la parola” e gli uomini sono solo un “insulso mucchio di niente”, dove non è possibile “dare un senso / a questi oggetti separati / eppure legati / all’uniforme flusso” … dove si vede un “ingranaggio che punisce” e l’unico riparo possibile, “nel respiro ampio del bosco” è cercare “di mettere al riparo le dita / dalla spina infetta della vita”.
L’esistenza, dalla metafora notturna, viene trasfigurata in quella di un bosco impervio, di rovi dalle spine infette e di “rami neri prorompenti”: comune è lo smarrimento, il dubbio, comune è l’impossibilità di mettere a fuoco lucidamente ciò che è al di là della notte, del bosco, del mistero, deformato dalla visione umana, incompleta e impotente di fronte all’inconoscibile. E si intravede anche come l’inquietudine del poeta, nel corso della sua esperienza di vita, si sia fatta malattia, sia stata vissuta anche nella carne, si sia fatta patologica: “Lei capisce dottoressa Toni / ho sbandato ancora al bivio … Non importa / Serenase poco poco / sette gocce (numero alchemico) / e ricacciamo la troppa luce fuori dalla porta. // Fottuti amici miei medicamenti / così troppo spesso si perpetra / l’omicidio lento di tanto ignobile esistenza.”
Si intravede anche quello che sarà il tema principale della raccolta più recente, L’unicorno bianco (2016), nella poesia “Deus Absconditus”, dove il dialogo con il divino, o con una sua rappresentazione immaginaria, diventa simbolo della ricerca di dio per la persona travagliata dal dubbio, in una visione agnostica, smarrita tra l’aspirazione alla fede e gli indizi razionali dell’assenza del divino: “di te mi dovrebbe parlare … una linea di luce … il fruscio dei pioppi … ma quello che mi svoglia /è questo sentore di morte a ogni passo … ansia che cresce a dismisura / così di cercarti non ho voglia … attendendo che l’annunciata Apocalisse / si trasformi in fatto.”
È nella sezione “Una lunga fedeltà”, e nei successivi “Appunti per un canzoniere” (2010) che si profila una possibilità di sopire l’inquietudine, nella visione della donna amata (il cui nomen omen, Vera, ricorre in molti testi e dediche), nella sua “dolcissima inesprimibile presenza” che riesce a “rischiarare un cuore fatto stanco”.
Non è certo un amore idealizzato: il Villa Freddi canta anche “i nostri contrasti … l’orgoglio che scavava la distanza”, ma pur sempre “medicamento” (si ricordi l’accenno di sopra agli psicofarmaci: la donna amata è anch’essa una forma di cura), “indefettibile presenza” e compagna preziosa per l’autore, “per troppo pianto segnato / dalla puntura velenosa della vita.”
Un conforto che appare incompleto, o meglio, non sufficiente a dimenticare la puntura, ma non per questo meno prezioso: restando nella metafora, è come se questo amore fosse il profumo di rosa che giustifica la spina dolorosa, o che, quantomeno, ne allevia il patimento e l’infezione estesa.
Ed è nella raccolta del 2010 che si approfondisce questo aspetto, con l’inserimento di alcuni topoi della poesia cavalleresca verso la donna amata (l’amore come frutto che matura, la donna circonfusa di luce e bagliori, la donna destinata dal fato) e in alcuni passaggi di mariniana memoria (“così che io mi taccio / di ogni forza privo / ma forte del mio amore fatto vivo.”). Anche se la donna è “troppo spesso … assenza che addolora … e cresce l’amore nella distanza … così che odio e benedico questa pianta”, Villa Freddi, nonostante uno scetticismo iniziale verso l’amore (“eri già mia quando lui mi ti predisse / e io con una alzata di spalle me ne andai”) vive “quietamente nel tuo seno / emblema dell’amore fatta donna”. Ed è significativo quel quietamente dopo tutta l’enfasi che è stata posta sull’inquietudine di fondo di questi testi (inquietudine mai nascosta, anzi più volte evidenziata dall’autore stesso): “tu che muti me / con luce radente … amata dolcissima presenza / troppo e per troppo tempo assente.”
Lo stesso scetticismo riservato all’amore, poi mutato in appassionata partecipazione (quando l’assenza si è fatta presenza), il nostro autore riserva alla ricerca del divino – anche se con toni decisamente più neri, ne “L’unicorno bianco” (2016), la raccolta più recente di questo corpus. Introdurrei la riflessione su questi testi, incentrati per l’appunto sul tema della ricerca di dio, con una citazione di Blaise Pascal, relativa alla celebre scommessa pascaliana:
“Se c’è un Dio, è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né limiti, non ha nessun rapporto con noi. Siamo, dunque, incapaci di conoscere che cos’è, né se esista … “Dio esiste o no?” Ma da qual parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c’è di mezzo un caos infinito. All’estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non potete puntare né sull’una né sull’altra; e nemmeno escludere nessuna delle due. Non accusate, dunque, di errore chi abbia scelto, perché non ne sapete un bel nulla. “No, ma io li biasimo non già di aver compiuto quella scelta, ma di avere scelto; perché, sebbene chi sceglie croce e chi sceglie testa incorrano nello stesso errore, sono tutte e due in errore: l’unico partito giusto è di non scommettere punto”. Sì, ma scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? … qui c’è effettivamente un’infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quel che rischiate è qualcosa di finito.”
Al di là delle valutazioni razionali del filosofo, e sulla convenienza della scommessa, ciò che a noi interessa in questa sede è l’assenza e l’inconoscibilità del divino, oggetto della ricerca di Villa Freddi, che intesse con la sua idea un dialogo fatto di amara ironia, dove l’assurdità dell’esistenza viene dettagliatamente e lucidamente dispiegata al suo interlocutore, le cui caratteristiche e leggi gli impediscono di rispondere alla chiamata dell’uomo, tormentato dai dubbi, gli impediscono di dare una spiegazione, o anche solo di dimostrare la sua esistenza o presenza (“Ma sì pretendo troppo / le hai scritte tu le regole”).
La ragione impone una visione della vita dove la coscienza individuale è destinata a dissolversi, dove il caso punisce indistintamente e senza una ragione, dove ogni bene (se anche la vita ne riserva) è spesso controbilanciato da un male più profondo, più doloroso. Eppure l’autore desidererebbe essere illuminato dalla fede, quasi chiede al dio di concedergli tale esperienza: “la mistica incita all’ardore / ma che posso io se ne sono privo … se mi vuoi nella tua schiera / invadimi con l’azzurro / di una radiosa primavera.”
Nell’assenza e nel silenzio il dialogo continua, quasi come un biasimo per tutto ciò che l’esistenza comporta, e di cui il dio, con imperturbata indifferenza, è silenzioso testimone (sempre che esista! Aggiungerebbe il nostro): “tu forse oppure no / sicuramente inganno … a seminare lacci e inganni a piacimento / lambendo i cuori col veleno del tormento. … Perché nelle notti di veglia senza pace / di me non hai pietà? / così che t’inseguo ma non so se sei / e mi convinco sia tu a infliggermi la pena / o sono io preda della chimera”.
L’approssimarsi dell’ora ultima esaspera questa ricerca, in un’inquietudine che si fa anche spirituale: “Alla chiamata / non potrò rispondere che non posso … che con me sono compromesso / in questo apparente vano niente.” … “Se esisti dove ti sei nascosto … Padre dove sei finito … credere per disperazione non mi è concesso”, evidenzia amaramente l’autore: non è sufficiente la disperazione per vivere la fede, come non è sufficiente la razionalità di Pascal: “la caccia non ha sosta / ma a che? / a una presenza / o all’emblema fallace dell’assenza” (e non può non venire in mente il Caproni de “Il conte di Kevenhüller”). Ogni tentativo di razionalizzare la questione è inutile (“così l’ineffabile / per l’ennesima volta ci ha gabbato”).
“La tua esistenza garantisce un’altra vita? / Non credo … vivo acqua che si dispera / franta fra i sassi / nell’incipiente sera. … vano ogni sforzo / l’obbietivo mancato” e, nonostante il lucido disincanto, Villa Freddi conserva un’amara ironia di fondo: “Conosco la tua proposizione finale / “su quello di cui non si può parlare / si deve tacere” … grande misterioso specchio / dove il di noi ritorna … come la falsa verità / di un bel pacco vuoto infiocchettato.”
Tutti i temi trattati finora sono qui presenti e lucidamente diretti al nucleo dell’inconoscibile: “ma dov’era mai lui / chimera ambigua / inganno o creatura viva / che si alimenta della disperazione di chi cerca / e nel dubbio suscita il disamore … e noi nel dubbio di sempre ricacciati / annichiliti.” Abbiamo visto ancora la presenza del dubbio, dello specchio, dell’inquietudine esistenziale, della prospettiva dell’annientamento finale.
L’unicorno bianco, creatura fantastica e sfuggente, che nel bosco viene intravista (ne siamo poi certi? O era un bagliore lunare? O un animale spaurito?) diventa così simbolo di questa ricerca impossibile, eppure disperatamente perpetrata negli anni, di un inganno – o creatura viva? Quando “smarrito era il cammino … e l’imminente fine / accese una lacrima brillante e pura / fu specchio alla sua morte una radura”, mentre “la morte lancia reti” e ci consegna all’ennesimo dubbio, se ad aspettarci vi sia il “livido silenzio” o la “contrada che eterna dura / dove si vuole regni l’unicorno”.
Ancora: “non si sa se di presenza o assenza / tu sia forma … specchio di riverbero vasto” … “sono ormai stanco … ma non è la paura della morte / (o forse sì) … è questo dubbio che sul dubbio cresce / è la tua mancanza d’amore / che nega la risposta”. Il dubbio diventa una sorta di protezione dalla certezza del vuoto, dell’assenza di senso e di speranza: “così mi difendo disperato / dal timore del niente o del presagio”, perché “Più forte è il fascino / del fondo dell’abisso” anche se, di nuovo, “sarebbe sufficiente questo solamente / che una luce vaga mi bagnasse / all’apparenza priva di sorgente / e tanto basterebbe.”
In questo (nuovamente) “specchio di confuse verità e troppi dubbi … in un perché senza perché”, lo squarcio montaliano sembra ricordare l’ineluttabile probabilità del nulla: “tutto si paga a caro prezzo … presto si fa lezzo l’aria / e putredine la carne a poco a poco … probabile anticamera del niente … e quando il conto sarà zero / di questo fottuto insulso dare avere / allora saremo noi gli immacolati / ardenti fiamme alla notte consegnati.”
I temi ricorrono e il dubbio, al di là della soluzione, sembra principalmente fonte di inquietudine e di sofferenza, perché “Non è dato sapere / se dietro lui richiuso appaia l’ente o il niente / è questa puntura / a dolere” (e torna in mente la spina infetta della vita).
E in fondo tale natura non è vissuta come una colpa, perché “premio sarà per me come per tutti / perché fu lui a volere il dubbioso come chi crede.”, in una ironica consapevolezza che l’uomo non può sfuggire alla propria natura, qualunque essa sia.
La ricerca non è in ogni caso vana, perché “troppo dura pare la morte e lo svanire” e anche se “A volte credo di credere davvero … poi il cuore torna a tacere / e più forte del cuore si fa il dubbio.”
La figura dell’unicorno continua a ricorrere nelle ultime battute della silloge, e il poeta, ormai stanco, chiede “soltanto la resa delle armi / e la clemenza di chi è più forte … che l’unicorno sia credere fallace … o forse no / assenza che condanna al nulla / in cui si spegne la coscienza” … “ma il timore della sofferenza questo sì / questo è il vero tarlo che corrode” e così come l’uomo scalcia una pietra sul letto del fiume, allo stesso modo farà con noi la vita, in “quello svaporare del tutto che è la morte.”, in una visione evidentemente più sentita dal Villa Freddi di qualsiasi prospettiva – pure non negata, anche se invocata quasi con disperato scherno dalla ragione – di speranza metafisica.
La silloge volge al termine: “Prossima a declinare era l’estate / incerta e vana la ricerca … sarà concesso svelare il pavido unicorno fra baluginii di luna? / Intrepidi percorreremo i labirinti della notte / rincorrendo al gelo impervio lui o il suo fantasma / nella quasi certezza che sue complici le nuvole / potrebbero velare pur vaghi indizi / privando di ogni certezza / chi già fra disperazione e disperazione muore.” Torna nuovamente il simbolo della notte e del bosco, dove l’inquieta ricerca di una chiave di interpretazione dell’indecifrabile, che possa dare certezza, appare impossibile; eppure è in quel quasi certezza che resiste il germe del dubbio, quella sete di scoperta e il richiamo dell’uomo verso l’inconoscibile, che, pur ribadendo di dover morire e svanire con la coscienza fra disperazione e disperazione (quasi circondato, si potrebbe dire) non rinuncia al proprio canto di preghiera, non nega la parola alla propria idea di spiritualità, disperatamente ma con feroce impegno perseguìta per tutta una vita, pure in una dimensione esistenziale che sembra annientare qualsiasi speranza.
La parola, nonostante tutto questo, nonostante la sua insufficienza, nell’opera di Villa Freddi, in ultima istanza, diventa estremo gesto di resistenza e di possibilità – cantando lucidamente la disperazione e il disincanto – per immaginarne, se mai possibile – il superamento.
Mario Famularo
Da “Variazioni su la notte” (1985): V È un nido di piume la notte, o un morbido cuscino su cui adagiarti, a volte fastosa come un bucintoro altre sordida e sola come lo scheletrico parapetto d’un naviglio, lucente come un revolver nichelato o pigra ed immota come acqua morta. Talvolta è la voluttà della sulamita dall’ombelico di conchiglia, altre, lo charme contenuto da signora di classe grigio-bleu. Ha un pianoforte sullo sfondo la notte, e mescola rimpianti e sogni in velenosi distillati in dolorose, fosforescenti apparizioni, in incubi enormi di corpi cosparsi di verruche, di vario materiale escrementizio, in potenti rigurgiti di passato contorto. È un enorme schermo bianco. VI Ma non è più la stessa vita! non le stesse colline, su cui il vento segnava nell’ondulare del grano i suoi percorsi, e non più il fiume ampio specchio alla mia infanzia, ed io pure, cambiato dal precipitare degli eventi, condannato da una parola sola, da un nome. II C’è dunque ancora una speranza, un’altra vita ancora? Tu Roberto ci credi, e mi porti le tue prove: mi parli di quelle molte testimonianze d’uomini in apparenza morti e tornati alla vita, della loro comune esperienza d’un grande tunnel che si apre sulla luce, una luce che pensiamo immensa, ma lunare nel suo biancore, e riposante. È forse vita quella luce, una vita nuova e magnanima in cui l’anima si perde spoglia della carne? Tu mi dici di sì, mi rassicuri, ma se non avremo cognizione di quello che siamo stati, se qualcosa di noi continuerà ma immemore, avvolta in quella grande luce, sono una cosa sola morte e vita, vita e morte intimamente, fatalmente legate. Da “La spina velenosa” (2000): I In questa vita di insolvenze attente dove peccare è troppo gran peccato e troppo è il prezzo del dire o del non dire, per viltà di un cuore imbavagliato, che comunque si faccia male ne viene per ritorti sentieri e spine e rovi membra segnate dal sangue raggrumato allora troppo è sperare quel pavone (oh! dolce seno) perché si scambia con il soldo del dolore l’eterea leggerezza della morte. VI DEUS ABSCONDITUS Di te mi dovrebbe parlare la robinia il vento leggero, la magnolia una linea di luce che taglia l’orizzonte il fruscio dei pioppi, la variegata foglia ma quello che mi svoglia è questo sentore di morte a ogni passo uno squasso di voci senza senso lampi di luci corrusche ansia che cresce a dismisura così che di cercarti non ho voglia e supposto che tu non sia una ubbia getto la spugna e mi rimpiatto attendendo che l’annunciata Apocalisse si trasformi in fatto. VII Non so dare un senso a questi oggetti separati eppure legati all’uniforme flusso né cerco più di sapere se si debba volere o non volere ma vedo un ingranaggio che punisce la piramide che schiaccia così se mi è concesso nel respiro ampio del bosco cerco di mettere al riparo le dita dalla spina infetta della vita. IV Come di cometa scia medicamento alle parole di pietra che rinomino a me stesso tu indefettibile presenza per sentieri di rose accompagnato me per troppo pianto segnato dalla puntura velenosa della vita. Da “Appunti per un canzoniere” (2010) III Non tutto di te si dona o forse troppo pretende chi mise il cuore su una alzata così che ratto si attende roseti senza spine: ma è pretendere troppo e un tempo non furono rose odorose ma rovi amari. XI Miserere di me e del mio cuore ardente sciocco io mucchio di niente fango e mota inerte e illusione tu che muti me con luce radente in angelo bianco dalle bianche piume a vegliare te sempre e sempre amata dolcissima presenza troppo e per troppo tempo assente. Da “L’unicorno bianco” (2016): I Alla chiamata non potrò rispondere che non posso che in altro sono affaccendato so che sono un fante affardellato che la guerra ha dimenticato in fondo a un fosso. Irrompe un’infanzia di biciclette rosse tempie pulsanti bagnate di sudore il fiume prepotente o mite e poi i troppi psicofarmaci ingeriti le giornate sprecate le allegre sposate (in gioventù) Milano splendida e di sporco e lei l’unica la cometa come spuma circonfusa di bellezza tutto giustapposto e mescolato in un groviglio senza bandolo visibile almeno per me che con me sono compromesso in questo apparente vano niente. III Orme forse labili indizi di frasche smosse e piegati rami fra fratta e fratta e macchia e gola parvenze di fruscii falsi segnali la caccia non ha sosta ma a che? a una presenza o all’emblema fallace dell’assenza. VI Sono risentito come per una parola negata l’eco attesa e che non torna tu muraglia prepotente di umile muschio adorna: in te in te al centro del tuo cuore la mistica incita all’ardore ma che posso io se ne sono privo se per certo so che fra due porte l’aprire l’una o l’altra dipende dalla sorte da un miscuglio di molecole e neuroni no! non è mia competenza non più! se mi vuoi nella tua schiera invadimi con l’azzurro di una radiosa primavera. IX La tua esistenza garantisce un’altra vita? Non credo non è detto può trattarsi di un gioco creato per diletto da una bella donna capricciosa ennuyé da un’eternità tediosa che si è creata un trastullo un gioco di società un po’ leather mettendoci nel guano tutti quanti (chi dice che a lui pertenga la natura mascolina?) così a causa di lui di lei o chi per esso pago un pesante pegno e mentre l’ente si diverte vivo acqua che si dispera franta fra i sassi nell’incipiente sera. XIII Ci mettemmo trepidi per mare doppiando faticosamente il capo a un vento teso di bolina sotto cui gemeva l’alberatura e il mare seguitava a rinforzare ma dov’era mai lui chimera ambigua inganno o creatura viva che si alimenta della disperazione di chi cerca e nel dubbio suscita il disamore di chi è sfinito per consumato ardore? Poi a un tratto scemò il vento e sfiorirono le onde in una notte di nubi rade e sul mare come di luce un canto lamina che vibra lui? la sua presenza? o l’inganno di lei pura o forse bagliori di organismi fluorescenti a fior di un’acqua che trascolorava poi tutto ridivenne scuro e noi nel dubbio di sempre ricacciati annichiliti. XVII Abbi pietà di queste variazioni di questo incerto incedere sul bianco preda del forse e della dannazione sono ormai stanco i capelli fatti grigi ma non è la paura della morte (o forse sì) è il non sapere è questo dubbio che sul dubbio cresce è la tua mancanza d’amore che nega la risposta e annega l’anima o quel che sia nel buio. Ma sì pretendo troppo le hai scritte tu le regole è fatale che alla pari non si giochi. XIX Lenta dischiude la palpebra la notte e io piego a poco a poco a quel sentiero che conduce al freddo cupo di rugginose macchine taglienti e una mano prende a muovere ingranaggi a fare stridere congegni e denti o tale è l’inganno del timore allora risorge la collina mite di nuovo verde rischiarata viva e ondulata oltre la tenda bianca che la luce porge in dolce soffio così mi difendo disperato dal timore del niente o del presagio. XXI Per non morire ogni giorno alla tua notte essere che sfuggi o sei chimera bianco araldico unicorno che si pensa fenda la brughiera per me ho costruito un canto alieno da passioni un angolo in cui mi sforzo gli assilli di scacciare ma l’acqua presto si fa mossa e lenta e tenace la tortura ferisce me che non ho fede e però sarebbe sufficiente questo solamente che una luce vaga mi bagnasse all’apparenza priva di sorgente e tanto basterebbe. XXVIII A me non è concesso conoscere la tua essenza la tua immacolata provvidenza ma vige da sempre una legge dura che quanto te ne viene mai di bene e giovinezza e amore e rose e incantati stupori e ardori e donne altere e sospirose tutto si paga a caro prezzo così che presto si fa lezzo l’aria e putredine la carne a poco a poco noi presaghi del niveo biancore delle ossa di liquami e corruttele purulente probabile anticamera del niente. Si riceve e si paga un triste pegno e quando il conto sarà zero di questo fottuto insulso dare avere allora saremo noi gli immacolati ardenti fiamme alla notte consegnati. XL Filtra fra frasca e frasca debole raggio mentre a tentoni mi aggiro circospetto perché alla mente desiderosa non si faccia oltraggio che l’unicorno bianco sia credere fallace per noi che riponiamo in lui il sogno dolce dolce di un’altra vita estremo viaggio che nelle sfere della luce ci conduca. O forse no assenza che condanna al nulla in cui si spegne la coscienza oblio che cresce sull’oblio in un ciclo di ossa sgretolate. XLV Prossima a declinare era l’estate incerta e vana la ricerca fra fuochi altissimi e disseccati sterpi: presto l’autunno di dolci brezze ed esplosioni colore di rame quindi l’inverno di neve che mescola il bianco ai pioppi candidi e con mano d’acciaio serra i cuori. Riprenderà la caccia disperata e sarà concesso svelare il pavido unicorno fra baluginii di luna? Intrepidi percorreremo i labirinti della notte rincorrendo al gelo impervio lui o il suo fantasma nella quasi certezza che sue complici le nuvole potrebbero velare pur vaghi indizi privando di ogni certezza chi già fra disperazione e disperazione muore.