“Ambienti saturi” (Amos Edizioni, 2017) di Fabio Donalisio - di Mario Famularo
Nella raccolta “Ambienti saturi”, edita da Amos Edizioni nella neonata collana A27, Fabio Donalisio affronta una tematica di particolare attualità: il rapporto dell’individuo con il vuoto, con la progressiva perdita di senso, e con il proprio annientamento.
La raccolta si divide in quattro sezioni, dal nome di altrettanti ambienti “domestici”: vestibolo, cucinino, zona notte e ripostiglio. Nel corso del testo, si assiste a una serie di operazioni – linguistiche, logiche e retoriche – che mostrano direttamente al lettore, nell’insieme: la graduale perdita di soggettività dell’io; la reificazione del niente che, diventando un “qualcosa”, sembra minacciare l’individuo, limitandolo e spaventandolo; per converso, una nientificazione degli oggetti e dell’ambiente circostante, che riflette lo smarrimento e la frattura esistenziale.
In tali operazioni l’eventuale salvezza, profilata in modo sottile e marginale, sembra anch’essa, in fondo, relativamente necessaria, insieme al linguaggio, indebolitosi a favore del silenzio (“il silenzio sarà fatto salvo per un giorno / ancora – e la tua unica parola detta / finirà in mora, dimenticata in fretta”).
Andiamo con ordine: già il testo introduttivo della raccolta traccia le coordinate appena esposte, esaminando un soggetto indefinito, che “ogni tanto si ferma, come / per esaminare cose che non esistono. / … non c’è nulla / alle sue spalle … ha / la sensazione che qualcosa sia / scomparso”. La commistione tra essere e nulla è già in atto, insieme alla confusione che ingenera.
Prima distinzione tra esseri animati e inanimati (le cose che le circondano, e, soprattutto, il vuoto) è la paura: “puoi non vederla la loro paura, / ne hai facoltà … ma / paura rimane … / sempre più pura, e viva”. Subito dopo si delinea l’emarginazione del soggetto che risponde al “chi sei?” con un “nessuno /forse e se qualcuno quello sbagliato … quello / che non c’era o comunque non / c’è più”, e ancora “ci sei? mi dispiace no”.
L’io esiste ma in sordina, (come in sordina si avverte il cupio dissolvi), vivendo il vuoto intorno a sé introiettandolo, giustificandone la “presenza” e quasi operando una comunione con esso.
Il nulla di Donalisio non è assoluto (nel senso della scuola filosofica di Kyoto di assoluto potenziale e di componente di ogni cosa, origine e destinazione), ma relativo, nel senso che è in relazione alle cose e al soggetto, che ne avverte la (paradossale) presenza, oggettivandolo in un principio ablativo: gli ambienti sono saturi di vuoto, che permea gli oggetti e gli spazi dei luoghi, diventando un intruso ingombrante, asfissiante: “e come potevamo noi parlare / col nulla ciarliero del rumore fisso /dentro l’orecchio”. Il nulla diventa addirittura in sé un luogo: “la vita / dentro al nulla costa”, un qualcosa di solido, tanto è vero che lo si “scansa ma invano, evita un nulla / il piede”.
Al rendere il nulla un principio ablativo in opposizione all’io e all’essere, in antagonismo, consegue la consapevolezza della finitezza dell’essere umano, lo smarrimento inevitabile di senso, “rifiuto dell’effetto / del pensiero dell’azione” nella coscienza della morte e dell’annientamento.
Tale consapevolezza consente allo stesso tempo uno spiraglio di possibilità: alla finitudine dell’uomo (“sarai rilasciato (potrebbe essere al mare, o in piazza, al mercato / non te lo chiedere non è importante …)”) corrisponde il rinnovarsi delle cose, e della vita (“sarai di nuovo, sarai nessuno”); alla caducità dell’essere (“sei già morte al mondo”) corrisponde lo stupore dell’esistenza, e l’incanto dell’accadere (“te ne viene meraviglia; tienila / stretta, dunque, che lo stupore / è caro”.)
In ogni caso i tempi sono cambiati, “il bilancio dei pieni /e dei vuoti viveva – voleva – i pregi / violenti del (sostanziale) pareggio / ora, è soltanto peggio”: l’equilibrio è sbilanciato a favore del vuoto, e ogni cosa sul piano inclinato sembra precipitare verso l’assenza di significato, “il morso di senso che ti fa, in fine / muto”, dove la libertà corrisponde al “dare fuoco al verbo preservare” (e quindi, sostanzialmente, lasciare andare, dimenticare), “e quando l’abisso spalanca non tieni / speranza più nulla che avanza / tranne la terra distrutta dai piedi”.
Cosa resta? “rimangono oggetti … intorno, / consunzione da inedia” e anche le parole scivolano su di essi, perché “dire le cose non è raccontarle e / spiegarle men che meno … l’unico senso è che noi / non ci saremo”, mentre gli oggetti, in ogni istante, quasi ci ricordano che ci sopravvivranno; “capisci che non servi”: “in centro alla stanza, la sedia”, indifferente, insignificante, inanimata, eppure più duratura dell’uomo, quasi un simbolo materico di quel vuoto che satura l’ambiente più intimo, quello domestico – in quella che appare come la violazione finale. E noi? “noi – vuota entità pronominale – noi / ce ne vorremmo solo andare”.
“ci sono tante cose / e poi le porte, chiuse, ovunque;” – nonostante il linguaggio, nel nostro tempo, sia diventato anch’esso un luogo di saturazione dell’assenza di senso (operazione che Donalisio mostra brillantemente in “nella mia vita ti amerò di più”, dove evidenzia il vuoto presente nei luoghi comuni e nei loro predicati, con ironia), l’autore invita a vivere “sommesso / ma fiero attorno al sogno – lui / ti definisce, non dice come / la parola” – e la definizione è enunciazione del significato, in questo caso, dell’io.
L’accettazione della finitezza umana, della dimenticanza, non è vissuta con drammaticità, ma con una certa serenità: “la voce impara / a sparire impara veloce” e l’invito è quello a non ignorare il fenomeno del nulla, ma affrontarlo con coscienza: “non eludere la pura inconcepibile / assenza, non distrarti”.
Unica prova dell’essere vivi, insieme alla già citata paura, è il dolore: “non si pensi di sapere, sapere non si pensa, / si sa quando fa male e il male resta”, in una visione materialista dell’esistenza, che si scontra con il naufragio dei referenti metafisici, ormai stabilizzato nel nostro tempo, sia a livello inconsapevole che, a maggior ragione, consapevole.
Nello smarrimento di tali referenti, ogni evento esterno diventa insignificante (“che poi un giorno cambino le rotte / degli aerei sopra la testa, le geometrie / di decolli e atterraggi … è del tutto / privo di significato”), succede e basta, e se non succede – fa lo stesso.
La raccolta si chiude in ogni caso con dei versi di conforto, con la speranza irrazionale nel miracolo che “quanto asceso / al cielo in qualche modo a terra / torni, e ivi sia ricoverato”, prospettando in qualche modo la tensione a un’idea di riparazione del doloroso dissidio nichilista, forse in virtù dei pochi elementi di salvazione (essenziali ma autentici) accennati nel testo, che aiutano pur sempre a distinguere l’animato dall’inanimato, l’esserci dal non-esserci: e dunque la paura e il dolore, il sogno e la meraviglia, e l’attaccarvisi con determinazione – paradossalmente, anche tramite la parola – per contrastare il risucchio rovinoso nel gorgo, nel rischio di diventare, a propria volta, oggetti.
E infatti “noi – vuota entità pronominale – noi ce ne vorremmo solo andare”, forse per non essere una delle tante cose che finisce per saturare l’ambiente di un imponente vuoto, operando una sorta di resistenza, sommessa ma fiera, verso la miracolosa possibilità di una ricomposizione dopo il disastro; forse solo per respirare un po’, o per svanire del tutto – finalmente, “che tanto non lo sanno, dove cercarti”.
Mario Famularo
Alcuni testi:
ogni tanto si ferma, come
per esaminare cose che non esistono.
bruscamente si volta, non c’è nulla
alle sue spalle, ma tuttavia ha
la sensazione che qualcosa sia
scomparso, che un essere abbia
bruscamente deciso di astenersi
dall’esistere
chi sei? non lo so, dice, nessuno
forse e se qualcuno quello sbagliato
non quello che cerchi tu, quello
che non c’era o comunque non
c’è più
potrai sempre dire, senza fallo, che
non c’eri; che non eri vivo – che non
eri nato – ieri. che il delitto è senza
testimoni tanto i ciechi di vedere
ci hanno fatto il callo: intanto
il silenzio sarà fatto salvo per un giorno
ancora – e la tua unica parola detta
finirà in mora, dimenticata in fretta
fino al prossimo quando meno
se lo aspetta
sei già morte al mondo e ancora
te ne viene meraviglia; tienila
stretta, dunque, che lo stupore
è caro e la fortezza costa. son
mattine corte con la luce a bella
posta
in eco
guerra è la parola, l’unica e sola
(una volta rimava – fatale – con
terra ma terra è una cosa dei tempi
remoti, dove il bilancio dei pieni
e dei vuoti viveva – voleva – i pregi
violenti del (sostanziale) pareggio
ora, è soltanto peggio
dare fuoco al verbo preservare
incanaglirsi, disimparare: solo così
si dà – a tratti, in pulviscolo, nei denti
dei matti – la tua feroce, sparita
libertà
dire le cose non è raccontarle e
spiegarle men che meno; è accettare
che esista il binario e pure il treno
e l’unico senso è che noi
non ci saremo
provvisorio:
una famosa sedia – di legno – in mezzo
all’inferno cui abbracciarsi nel fuoco
generale; necessita un cambio di passo,
dicono, un crinale qualcosa di discriminante
eppure, si sa, le cose sono enormi,
e tante; e tutti – tutti – si dilettano
di appartenere a coloro che sanno,
ai sapienti
purché tutto resti buco resti fermo
(nell’universalmente ammesso moto
generale), puro gioco dimostrativo
tra tale e quale
noi – vuota entità pronominale – noi
ce ne vorremmo solo andare
non distrarti
non eludere la pura inconcepibile
assenza, non distrarti
che tanto non lo sanno, dove cercarti
che poi un giorno cambino le rotte
degli aerei sopra la testa, le geometrie
di decolli e atterraggi, le scansioni
cronometriche tra i passaggi, è del tutto
privo di significato
salvo il miracolo che quanto asceso
al cielo in qualche modo a terra
torni, e ivi sia ricoverato