top of page

La vertigine dell'assenza negli inediti di Mario Famularo - di Luca Cenacchi

Inauguro questa sottosezione de "Gli Specchi Critici" di cui mi avvarrò, da una parte, per presentare e sondare quella parte del territorio poetico di valore ancora inedito, da l’altra per ampliare e arricchire il discorso critico principale.

Lungo il percorso della rubrica principale, secondo me, può già cominciare a vedersi la tendenza a interiorizzare e confrontarsi con il quotidiano in modo eterogeneo, anche negli stili meno sobri.

Anche le cinque poesie che presenterò oggi ("la strada", "gli occhi moderni", "l’intreccio della lama", "un tempo l'uomo intendeva il respiro", "il senso delle cose", di Mario Famularo, poeta di origini napoletane) sembrerebbero non fare eccezioni, ma procediamo con ordine.

L’interpunzione mancante nella versificazione di Famularo costringe a una lettura continua, ma non affrettata: difatti le pause e gli incisi del discorso conferiscono ritmo e limite a ogni strofa, guidano il lettore, affinché non si perda all’interno del dettato.


Queste poesie fanno leva su una cronaca poetica: toni asciutti vengono supportati poeticamente da accostamenti suggestivi ma che, per così dire, non escono troppo fuori dai contorni. Scena di questo stile maturo, talvolta, come nel caso della strada, non è tanto lo sviluppo del fatto quotidiano isolato in sé, come accade per molti autori, ma una certa meccanica sottesa al fatto stesso: più ampia e meno specifica. Così Famularo dipana la critica del poeta alla società massificata che è, allo stesso tempo, vittima e araldo degli agenti esistenziali come la morte, l’assenza, il vuoto, ecc.


Dunque dal particolare fatto quotidiano si tende sempre a sconfinare in dimensioni sentimentali e concettuali assai generali, che talvolta ampliano e confondono il limite di quest'ultimo, anche quando preso separatamente.


Così in queste poesie aleggiano toni di denuncia e reazione assai neri, fino alla totale resa di fronte all’inevitabile dilagare del vuoto nelle sue varie forme. Dove si può trovare dunque consolazione? Paradossalmente nel dissolversi stesso dell’individuo. Difatti l’io lirico, se si presta sufficiente attenzione, oscilla tra un lessico vario, che integra vari registri anche extra letterari, fino a una dissoluzione totale o un graduale auto-decentramento, mentre si concentra e profonde la sua analisi di un presente percepito come senza speranza e a cui si contrappone l’atto liberatorio di un'inevitabile auto dissoluzione (gli occhi moderni).


Questa conclusione può essere coerente all’interno di un individuo se e solo se egli sia partecipe delle teorie giapponesi della transpermanenza (Nishitani Keiji, Karatani Kojin, come l'autore dimostra d'essere), le quali decentralizzano l’io per svalutare la minaccia che il nulla ha su di esso, e dunque il nichilismo stesso.


Mario Famularo, dunque, interpreta, fino ai limiti più estremi, un disagio presente in tutti i poeti presi in considerazione da questa rubrica: un rapporto, in alcuni puramente in altri solo a tratti, esistenziale col mondo, che in Famularo si conclude con il suo stesso annientamento.


Luca Cenacchi

 

la strada un solco di vestiboli incrinato sotto il peso del formicaio che sgorga tra le pieghe dei vestiti un ricordo di ammorbidente le coperte smosse dal primo caffè è tardi tra i marciapiedi sporchi le vetrine stropicciano lo sguardo ai passanti che evitano ogni cosa buongiorno, tutto bene circospetta noncuranza il tempo trasuda troppo sporco nei tombini la sera non distende le nevrosi cittadine nel tramonto troppo bianco è il silenzio la finzione più accogliente l’odore dell’assenza si ravviva col riposo nella contemplazione di un mondo senza l’uomo riesco quasi a carezzare la mancanza

 

gli occhi moderni drappeggi di luci artificiali l’esperienza della vista sedentaria la pigrizia di una ricerca insignificante


il risultato della conoscenza del viaggio l’immediatezza della percezione mediata dalla macchina e crepita tra le fessure invisibili dissimulate, incorporee la vertigine dell’assenza che si è fatta endemica il bisogno di spegnere tutto ricevere il desiderio del silenzio assaporare l’aspirazione deviata alla rinuncia per dormire, finalmente e sentire scivolare addosso confortevole uno sterminato senso di vuoto

 

l’intreccio della lama rivela strane immagini tra le periferie estreme dei ricordi il tessuto è familiare ma il dettaglio riflette un’estraneità profonda un dolore pungente diffonde lo squarcio dell’infezione l’errore nel codice sorgente rimetti a fuoco la scena principale i frammenti è tutto sotto controllo osserva il loro impulso come ogni cosa con naturalezza frana nel vuoto

 

un tempo l’uomo intendeva il respiro della ginestra, la fragilità originaria contatto leggero con la terra il segreto innocente del sussurro dell’iris dopo secoli di rumore prepotente per le strade stanze di cemento bianchissimo un’ordinata mortificazione la recrudescenza ostinata di quella parola nel silenzio della metropoli che sovrasta i fiori troppo limpidi non parlano a voce bassa tra gli ordinati salici non basta più ascoltare è inutile chiamarli risponde il tuo riflesso soffocati in un feretro di galaverna e poliuretano quei fiori sono morti

 

il senso delle cose lo avverti nella persona gentile che frantuma l’indifferenza di un istante un sorriso tutto qui banale il senso delle cose quali cose poi un disordinato pianificare la sopravvivenza e ogni tanto nelle fratture del progetto si insinuano le variabili del disfacimento una cortesia imprevista un affetto inaspettato ricompensa l’equazione tra lo zero che annienta e il senso che si sgretola in un’impenetrabile raggiera di possibilità


 Ricerca per Tag 
Non ci sono ancora tag.
bottom of page