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For Poets, with love - Lawrence Ferlinghetti e il nucleo della Beat Generation - di Andrea Peverelli

Be’, non abbiamo usato la parola Beat sul retro di nessuna pubblicazione della City Lights Books. Non sono stato membro della Beat Generation. […] Sono stato associato ai Beat pubblicandoli.[1]

Preferisco il termine “aperto”. Fu ciò che mi disse Neruda a Cuba nel 1950 all’inizio della rivoluzione di Fidel: “amo la tua poesia aperta”. Si riferiva sia alla vasta gamma di contenuti della mia poesia, e sia, in modo differente, alla poesia dei Beat.[2]


Da un lato il rifiuto dell’etichetta Beat, dall’altro il lucido riconoscimento del suo nucleo incandescente. “Aperto” (in originale wide-open) è una semplificazione estrema del concetto espresso acutamente da Neruda: wide-open indica un’apertura vastissima, e conseguentemente uno stato di uscita dalle strette maglie della legge e della morale vigente, tanto da essere anche assimilato al concetto di fuorilegge, illegittimo. La poesia Beat realizza il miracolo insito nel proprio nome (“estasi della beatitudine”: sembra questa la miglior definizione possibile di Beat) facendo delle profetiche parole di Montale una realtà fattiva, artistica e biografica: Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!. I poeti Beat sono la prova dell’efficacia sovversiva del mistico in arte, che strappa la rete della teologia umana e ne fa trampolino per afferrare ciò che c’è al di là, la più pura essenza celeste, non in un atto di candido scetticismo, di chi vede solo ciò che ha davanti agli occhi e ne cava deciso rifiuto, ma di profondo amore per la dimensione terrena e spirituale del mondo, entrambe toccate e profondamente vissute: un’anticipazione fulminante del catamoderno. Nel Beat non c’è rinuncia, non c’è evasione, solo un’acuta percezione delle cose, e la beatitudine estatica del riconoscere che l’Uno viene colto soltanto nelle contraddizioni del Molteplice; il Beat diventa il contraddittorio, il punto di contatto tra cielo e terra, il sudicio e il puro, e nella travolgente fiamma del dolore e della beatitudine si scopre che la sua vita è divina. Nessuna impresa titanica dunque, nessun volo d’Icaro e rovinosa caduta verso il basso, nessuna illusione e favola bella; ma nondimeno nessun balzo a piè pari, nessuna rotta tangente alla realtà, nessuno scetticismo modernista, nessuna Noia cantata, dubbio o ignoto celebrato dallo scettico in paramenti neri. Solo una travolgente stoccata dritta al cuore del mondo per scoprirne l’anima ultraterrena.


Questo il senso delle pregnanti considerazioni di Ferlinghetti a proposito del dialogo con Neruda. E il fatto che lo stesso Ferlinghetti, ormai acclamato come uno dei perni fondamentali (se non IL perno) attorno a cui la Beat Generation si sviluppò, neghi questa determinazione artistica, non fa altro che accrescere il valore del contraddittorio in questa risma di poeti sgangherati, maledetti e beati, beat. Nel caso specifico di Ferlinghetti varranno esigue indicazioni biografiche per fare intendere anche solo marginalmente da quale retroscena derivi la sua poesia: nato a New York nel 1919, vive per i primi trent’anni della sua vita facendo la spola tra la Francia e gli Stati Uniti. Nella sua città natale si distingue, al liceo, per le sue straordinarie imprese nell’arte della flatulenza e passa del tempo in riformatorio, mentre in Francia ha rapporti clandestini coi partigiani, durante la Guerra. Si laurea alla Sorbonne con un’improbabile tesi dal titolo Storia dei pisciatoi nella poesia moderna. Nel 1951 si trasferisce definitivamente a San Francisco, dove conosce la frangia della East Coast dei poeti Beat, e fonda la City Lights Books, casa editrice che pubblicherà gran parte delle opere della Beat Generation. Annota Fernanda Pivano: di lingua caustica e d’animo gentilissimo e generoso[3].


Tutti gli elementi che compongono il calderone ribollente della sua vita fino all’età adulta si ritrovano con straordinaria chiarezza nelle poesie: partecipazione sociale e politica, attivismo poetico quasi da volontariato cattolico, una forte componente colta, l’ironia e l’influenza del surrealismo. Ma si colgono anche le contraddizioni di una vita intensa e vissuta allo sbaraglio, risultati altalenanti e non sempre sinceri che lo relegano alla condizione di beat minore, se confrontato coi grandi modelli del movimento (Ginsberg, Burroughs, Kerouac), un complesso di contraddizioni che non mancheremo di sottolineare.


Come un antico e itinerante rapsodo dei primi millenni avanti Cristo, Ferlinghetti si muove in una dimensione infranta del reale, e a lui soltanto sta il dovere di ricomporla e consegnarla al mondo. Gli eventi di Troia rivivono in lui brucianti, ma è una Troia in giacca e cravatta, in cadillac e chewing-gum biascicati nei lunghi viaggi sulle highway americane (In un anno surrealista / di uomini sandwich e bagnanti / girasoli morti e telefoni vivi / politicanti addestrati con le fruste del partito / si esibivano come al solito). Poeta che raccoglie i cocci infranti del contemporaneo, poeta politico e sociale, sì, ma non poeta impegnato come potremmo immaginarlo: in un clima di crescente attivismo politico, di impegno sociale, di consapevolezza e dovere, quello del secondo dopoguerra, Ferlinghetti sceglie di non farsi cantore di programmi partitici e proclami popolari, ponendosi sempre al di là della mera contingenza momentanea. Non è un cronista, un cantore dell’evento (entusiasta o critico che sia: Ferlinghetti ha ben chiara la neutralità politica del verso), è un modellatore geometrico di materia, in una parabola che parte sempre dal momento terreno e arriva all’universale. È così che si inseriscono gli elementi filtrati dalla vita attraverso la propria pelle: la sublimazione poetica dall’hic et nunc all’infinitamente grande - suggestivo a questo punto il parallelo con una figura che sembra creare grande suggestione nel nostro poeta: san Francesco, l’infinitamente piccolo -. E dunque non stupiscano i frequentissimi inserti biografici, che spesso si confondono, dal lirismo dell’io contingente, con una generale dimensione del “noi” (quell’estate a Brooklyn / quando bloccarono la strada / un giorno afoso, e i / pompieri / aprirono le sistole / e i ragazzi corsero nel getto / in mezzo alla strada / ed eravamo / un paio di dozzine / là sotto […] mentre rivedo Molly / guardarmi e / scappare in casa / perché credo che in realtà noi due fossimo i soli quel giorno), una gioiosa pagina del proprio vissuto che si fa libro da regalare per strada.


A contribuire alla parabola faticosamente cantata in una dimensione caotica, rapsodica, dell’esistenza come della poesia stessa, si inseriscono riferimenti colti, letterari, artistici e figurativi, frutto del passato universitario di Ferlinghetti (che tra i beat è cosa più unica che rara). Il poeta newyorkese vede il mondo attraverso infiniti veli colorati, lenti ottiche continuamente cambiate per correggere un’inesausta oscillazione della vista poetica: e dunque la realtà è fatta di grandi scene di Goya, il poeta versa un altro paio di poesie / su un mondo alla Bosch e si stende sulla spiaggia dell’amore / tra mandolini di Picasso ricolmi di sabbia (Goya, Bosch, Picasso, non a caso; rispettivamente: il pittore dell’angoscia turbinosa, del caos infernale, della realtà scomposta e riordinata nel disordine); e ancora il confronto con grandi autori, del calibro di Dante e di John Keats, sempre in visione ribaltata, non come, non come, a modo suo (non come Dante / che scopre una commedia / sul declivio dei cieli / io dipingerei un tipo diverso / di Paradiso / dove gli uomini sarebbero nudi / come sono sempre; e Non ho giaciuto con la bellezza tutta la mia vita ripetendo continuamente a me stesso / i suoi incanti più facili […] e così sanno esattamente come / una cosa bella è una gioia / per sempre e per sempre / e come mai e poi mai / si dissolve / in un nulla scialacquatore […] ho dormito con la bellezza / nella mia strana maniera).


Proprio il ribaltamento dell’ordine costituito, oltre a costituire un’ulteriore riaffermazione ossimorica del ruolo del poeta come rapsodo, cucitore di caotici quadri in un disordine cosmico, è uno dei perni fondamentali della poetica ferlinghettiana. Le suggestioni giovanili di movimenti come Dadaismo, Surrealismo e Cubismo lasciano nel poeta profondi solchi, soprattutto l’esperienza surrealista (In un anno surrealista…). Facile rivedere a questo punto echi di immagini sociali alla Luis Buñuel nelle poesie di Ferlinghetti, figure parodiche, ribaltate, che si muovono in un substrato riordinato in maniera apparentemente confusa nella mente del poeta, ma che godono di una loro limpida coerenza interna, un mondo sub-creato in cui sfilano masse di oggetti e individui senza connotati nel pieno di una danza infernale e beata. In Ferlinghetti il surrealismo si risolve in un super-realismo nel senso etimologico, al di sopra della realtà: egli si pone su un gradino più alto per osservare meglio l’evento attirandolo contemporaneamente a sé attraverso le proprie lenti colorate, a metà dunque tra immedesimazione partecipata e distacco. Solo il paesaggio è cambiato / sono ancora sparsi lungo le strade / tormentate di legionari / falsi mulini a vento e folli galli […] la scena mostra meno carrette di tortura / ma più cittadini menomati / in macchine colorate / con strane targhe / e motori / che divorano l’America, o ancora Il castello di Kafka si erge sopra il mondo / come un'ultima bastiglia […] Lassù / c'è un tempo paradisiaco / Anime danzano svestite / insieme / e come fannulloni / ai margini di una fiera / occhieggiamo l'inottenibile / immaginato mistero: il poeta sale per un lungo momento estatico su un gradino più alto dell’esistenza, per osservare, tagliare, ricucire - un eterno sarto del verso e della vita. Naturalissima, tanto da far spallucce con aria innocente, balza a questo punto davanti agli occhi la ricorrente metafora del circo: il mondo infernale alla Bosch, svuotato però di qualsiasi considerazione morale, si risolve in un ovvio circense saltellio di anime tra una poesia e l’altra (si esibivano come al solito / negli anelli dei loro circhi segatura / dove acrobati e proiettili umani / saturavano l'aria come fossero grida, o ancora: Mentre ancora attorno al cerchio / galoppano gli sbilenchi cammelli della lussuria / e tutti noi clown alla Ememtt Kelly / sempre a costruirci palcoscenici immaginari).


Infine, l’ironia. Strumento di lettura della realtà abituale della poesia novecentesca, ma poco frequentato dai beat, quasi ne nutrissero una sospettosa diffidenza, Ferlinghetti ne fa spesso uso, in diverse maniere: da un lato si risolve in un ancestrale sarcasmo amaro, un acetum italicum oraziano o ariostesco (Il mondo è un bel posto / per esserci nati […] Già / ma poi sul più bello / arriva sorridente / l’impresario di pompe funebri); altrove si traduce in una bonaria ironia immaginativa, uno strumento purissimo e sublimante del reale, servo di quel surrealismo tanto caro al poeta newyorkese (Eppure lontano attorno al lato opposto / come la porta di servizio di un tendone da circo / c'è uno spiraglio tra le merlature / dove anche gli elefanti / passano ballando il valzer); da ultima, non per importanza, ma solo per frequenza, l’ironia è anche satira, un’arma sociale - non politica: per quella c’è il ribaltamento e la sovversione -, e anche poetica (nel sonno domenicale io vedo me stesso / sterminare peccatori e tacchini / cani rumorosi con morti capezzoli taglienti / e cavalieri neri in armature di ferro / con etichette Brooks / e cerniere lampo Yale ai pantaloni / Sì / e col mio pene eretto per lancia / stermino vecchie signore / facendole giovani di nuovo).


Dietro alla perenne volontà di ribaltare il visibile, di tagliare e ricomporre, frutto delle istanze destrutturalizzanti dei movimenti artistici tanto cari a Ferlinghetti, si cela una intensa volontà di rinnovamento, di superamento dei limiti e delle muraglie imposte (l’immagine, proposta poco fa, delle vecchie signore dell’alta borghesia ringiovanite dall’irriverenza del poeta è eloquente). Tuttavia questa nobilissima intenzione, per altro condivisa dai propri colleghi fin nel cuore pulsante della Beat Generation, non pare sempre sincera: spesso anzi si nutre di contraddizioni troppo evidenti, come se in una tensione titanica dell’atleta qualche nervo fosse schizzato a fior di pelle e rimasto lì, dolorante e rigido; e il poeta ne esce tumefatto, dal confronto con altri colleghi come Ginsberg. Se infatti in Ferlinghetti si assiste ad un porsi al di sopra del reale (super-realismo), che, comunque si vedano le splendide angolazioni ferlinghettiane, viene comunque sempre distorto a proprio piacimento senza significati profondi a supporto, e meramente ribaltato, non penetrato a fondo, questa gratuità d’immagine e di innalzamento - mai altezzoso e borioso, si deve riconoscerlo - in poeti come Ginsberg non è presente: anche i numerosi riferimenti religiosi e mistici sparsi lungo le poesie di Ferlinghetti paiono inserti posticci, un po’ colti e un po’ hippie, di facciata, poco motivati da una profonda spiritualità di matrice mistica - sincera ed autentica, come testimoniato dalla biografia - come quella di Ginsberg. Versi come La illaha el ill Allah / il sitar soffia il soffio dell’Atman in noi, apparentemente così carichi di significati religiosi, si risolvono in realtà in pure suggestioni: Ferlinghetti cade qui preda di quella contingenza suggestiva che aveva sempre rifuggito in vista di una sublimazione universale. La generale leggerezza dei versi ferlinghettiani rivelano un’arte depauperata di grandi visioni e pugnalate inferte al reale: i versi di Ginsberg, più vicini alla metafisica, sono austeramente privi di ironia e leggerezza circense - e questo da sé non avrebbe alcun peso nella considerazione del poeta, in quanto mero dato stilistico -; a caricare i versi di Ginsberg di una sensibilità ben più profonda e densa è la pesantezza visionaria con cui egli riesce a tagliare attraverso il reale per giungere al cuore pulsante dello spirito. Ginsberg è la realizzazione perfetta del programma Beat esposto all’inizio; Ferlinghetti è necessariamente relegato a una posizione marginale, in quanto grande uomo, ma dalla personalità artistica più limitata, che tenta di crearsi una retta appuntita per trapassare il Mistero della realtà, ma gli riesce soltanto un debole segmento che ne penetra la superficie. Da un lato dunque il mettersi al di sopra del reale, quasi una dichiarazione di impotenza nei confronti di esso; dall’altro un porsi a specchio del mondo. In Ferlinghetti si avverte un perenne senso di distanza, anche quando l’immedesimazione sembra conclamata. Egli si pone davanti al mondo e vi si specchia, di fronte, di spalle, di profilo, in tutti i modi; poi vi tira pugni, ne osserva i frammenti di vetro cadere scompostamente per terra, e infine li raccoglie e li ricompone convulso in grandi quadri, che, volente o nolente, non saranno mai un tentativo riuscito di sfondare il vetro per vedere cosa si cela oltre ad esso, ma un goffo, per quanto artisticamente meraviglioso, sforzo di ricomposizione di un mondo infranto verso cui si nutre una sorta di senso di colpa atavico. Come se Ferlinghetti tirasse pugni e improperi al primo individuo sotto tiro e poi se ne scusasse: di lingua caustica e d’animo gentilissimo.


Tutto questo costituisce la perfetta epifania dell’artista indeciso, artisticamente interessante ma irrisolto: una disputa con l’esistenza, come ebbe a dire ragionevolmente Roberto Sanesi a proposito del poeta. E nonostante tutto, Ferlinghetti rimane una figura singolarmente curiosa nel panorama poetico americano del secondo dopoguerra: per la sua sconfinata immaginazione; per la sua funambolica abilità nel cambiare occhiali di fronte al reale; per la sua lucida e al tempo stesso caotica visione del mondo; per la sua attività fondamentale di organizzatore della Beat Generation (la libreria-editrice City Lights Books, il processo vittorioso in difesa di Urlo, il capolavoro di Ginsberg); ma soprattutto, per la sua inesausta voglia, quasi adolescenziale (che eterno bambino, Ferlinghetti), di svegliarsi e di risvegliare il pubblico da un torpore che con l’uomo ha ben poco a che fare, verso una dinamica evoluzione spirituale e artistica del poeta, riproposto in extremis come guida dell’umanità:


Poeti, scendete per le strade del mondo, ancora una volta.

[…]

Loro non hanno ancora innalzato barricate,

le strade animate ancora con visi,

uomini e donne attraenti camminano ancora qui,

dovunque ancora attraenti creature,

negli occhi di tutto il segreto di tutti

qui ancora sepolto,

i selvaggi figli di Whitman qui ancora dormono,

si svegliano e camminano nell’aria aperta.


Andrea Peverelli


[1] Dall’intervista di Amy Goodman a Lawrence Ferlinghetti per Democracy Now del 2007.


[2] Dall’intervista di Heidi Benson a Lawrence Ferlinghetti per il San Francisco Chronicles.


[3] Tutte le citazioni di Ferlinghetti in questo paragrafo sono prese da una nota autobiografica dello stesso F. L’annotazione della Pivano e le citazioni dalle poesie di F. sono invece prese da LAWRENCE FERLINGHETTI, Poesie, Milano, Guanda, 1978.

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