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La donna e il mito, la bellezza e la caducità delle cose, nei versi di Fortunata Sulgher Fantastici,

Sono davvero bizzarri i fenomeni per cui, quando andiamo in una delle tante librerie mainstream – quelle piccole botteghe del libro ormai sono perdute tra le memorie d’infanzia –, possiamo constatare che alcuni autori di poesia sono stati benedetti dalla modernità commerciale, e dunque vengono messi lì, in bella mostra, con riedizioni moderne e sempre nuove, mentre altri vengono relegati, se fortunati, a vivere nelle antologie di poesia minore, nelle biblioteche delle università, o su Wikipedia.


È incredibile pensare che alcuni autori non abbiano mai visto nemmeno una ristampa delle proprie opere, e che bisogna risalire alle prime stampe dei loro libri, quando è possibile trovarle. Ma viene in aiuto dei più curiosi la tecnologia – paradossalmente – e nella fattispecie la collaborazione tra le Università americane e Google Books (delle nostre neanche a parlarne); ed ecco che quei rari manoscritti possono essere agevolmente stampati e riscoperti da ogni angolo del globo.


Basta un po’ di pazienza e una stampante.


Uno di questi autori è una poetessa, Fortunata Sulgher Fantastici, che ho scoperto per caso e letto senza troppo impegno, per trovarmi a mano a mano sempre più incredulo ed appassionato, fino ad approfondire la sua vita e la sua personalità, ingiustamente relegate tra i meandri e le pieghe della nostra storia della letteratura.

E pensare che ho cercato il suo nome in antologie di poesia minore, in enciclopedie della letteratura, ma nulla! Solo il web e qualche intervento sporadico pubblicato in rete mi hanno aiutato a sapere qualcosa di più su questa donna, le cui opere ho finito per leggere tutte con grande interesse.


Vissuta nella seconda metà del settecento, la Fantastici ha conosciuto personalità illustri come Vincenzo Monti, che nutriva verso di lei una sincera stima, o Angelica Kauffmann, grande protagonista dell’Arcadia, che ci ha regalato anche il suo più celebre ritratto, insieme a quello di Teresa Bandettini, conosciuta come Amarilli Etrusca, altra poetessa dimenticata; ma chi era costei?


Era un’improvvisatrice: prediligeva la forma orale della poesia, quella cantata e ballata, la forma più atavica e autentica della versificazione, di cui solo qualche traccia molto rarefatta dell’enorme produzione ci resta nelle sue poche raccolte.


Con la testimonianza dello scrittore veneziano Antonio Piazza:


“Sopra qualunque soggetto e in tutti i metri della poesia felicemente improvvisa, sommo onore arrecando alla patria sua e al suo sesso.

Un maturo sapere in freschezza d’età, una vereconda umiltà accoppiata alla solidità del merito, una gentilezza brillante che corona le doti dell’animo suo, la rendono una delle più stimabili donne de’ nostri tempi.

Suona eccellentemente il gravecembalo, canta bene, intende diverse lingue, sa imitare la pronunzia di molti dialetti ed è ripiena di quel vero spirito che la rende la delizia delle conversazioni.

Bastò che io la pregassi di farmi udire qualche ottava all’improvviso perch’ella tosto mi favorisse. Le diedi il soggetto di Priamo e Tisbe.

Cantò con una dolcezza da far arrestare un fiume, da far piangere un marmo. Che eloquenza! Che rapidità! Che purezza di stile! Quanti poeti di grido, stemperandosi il capo nella solitudine del loro scrittoio, non arrivano a comporre una di quelle ottave!

Successe da lì a pochi giorni che un principe bramoso di udirla fece in modo ch’ella intervenisse ad un’accademia, dove gareggiar dovevano vicendevolmente la musica e la poesia. Li poeti che improvvisarono avevano del merito, ma al paragone della inimitabile livornese, parevano tanti corvi che gracchiando disputassero la palma ad un melodico cigno.”


Per ovvie ragioni, ho potuto leggere solo la sua produzione data alle stampe, tutto quello che sono riuscito a reperire: si tratta di prime edizioni del 1794, del 1802, del 1815.


Lo stile che ho potuto riscontrare è molto eclettico e di indubbio interesse, soprattutto considerando che la scrittrice è una donna; e di donne ve ne sono già troppo poche nella nostra letteratura, e dunque incontrare una personalità di spessore è un’emozione genuina, che ha saputo donarmi un autentico piacere.


La Fantastici subisce l’influenza della sua età di passaggio, e concilia con una certa abilità gli stilemi arcadici, di quella che Croce chiamerà “pseudo poesia”, i suoi temi pastorali e vezzosi, metri semplici e ballabili, in anacreontiche spensierate che ricordano a tratti il Sannazaro, a tratti il Chiabrera, a volte il Tasso, in egloghe di ambientazione bucolica e amori innocenti, con una specie di “classicismo di passaggio”, che ammicca al neoclassicismo “imperiale” di Monti, a quello stile solido di endecasillabi sciolti, dove il mito diventa simbolo dei valori dell’uomo, dei suoi tormenti, delle sue tensioni, della profonda introspezione di ciò che nell’uomo è senza tempo, universale, pur basandosi, d’altro canto, su una tradizione più profonda, distaccata, che richiama e ricorda i classici greci, o a tratti anche gli illustri tragediografi attici.


Ma questo attiene esclusivamente all’aspetto formale delle sue opere: quello che davvero colpisce, della poesia di Temira Parraside – com’era conosciuta tra gli arcadi – è che il mito viene rivisitato al femminile, e i suoi versi prediligono quasi sempre un’attenzione a “l’altro lato del mito”: ovvero il punto di vista, in prima persona, della controparte femminile dei noti miti classici.


La poetica della Fantastici si sofferma sulle tematiche dell’amore, della bellezza – bellezza femminile, bellezza dell’arte, bellezza dei profondi sodalizi artistici ed intellettuali che la scrittrice ha intessuto, resa con genuino trasporto nei suoi versi – , ma anche della morte e della caducità della vita, e della profonda impotenza degli esseri umani di fronte al caso, ai sentimenti, alle passioni.


Comincerò a riportare i passaggi, a mio avviso più interessanti, del ruolo del mito “al femminile” nei versi della Fantastici; dal “Lamento di Dejanira”, dove vive tutto il tormento per l’imperdonabile peccato della sposa del semidio:


[…]


“Diletto Ercole mio t’uccisi io stessa.

Troppo mi vinse gelosia funesta,

Tardi la nera frode omai comprendo,

La mia semplicitade ora m’affanna.


[…]


Vedovo letto, e solitario albergo,

Figli diletti, a me tacendo ancora

Rimproverate un’odiosa vita.”


…al “Lamento d’Andromaca”, dove la donna, ridotta in schiavitù, disperatamente si interroga sulla caducità dei sogni, della felicità, degli affetti.


E ancora, nel “Sacrificio d’Ifigenia”, v’è l’angosciosa consapevolezza della giovane di dover affrontare una morte inevitabile, data per mano del padre, e di rinunciare a tutte le gioie e a tutte le speranze della sua gioventù negata; nella “Briseide”, v’è tutta la rabbia gridata contro le prepotenze, contro le decisioni di un Agamennone verso cui la protagonista urla tutti i propri aneliti di libertà e tutto il valore dei propri sentimenti.


E i sentimenti di Penelope verso il figlio Telemaco, nel cercare di dissuaderlo dal partire, per non rischiare di perdere anch’egli come il suo sposo, o gli amori tragici delle eroine tratte da Ossian, come Morna, che per vendicare l’amato Catbar, e per uccidere l’odioso Documano che gli ha strappato il compagno, finisce anch’ella uccisa, in una scena di grande drammaticità, dove la forza della donna fa da protagonista:


[…]


“Prendere il ferro, inorridir, furiosa

Scagliarlo a Documano in mezzo al core

Fu un punto solo; ed ei giù rotolando

Piombò sul suolo. In moribondi accenti

Ahi! Disse, io manco, iniqua donna, io spiro,

Trammi il ferro dal sen. La Ninfa accorre

Per mirare sua vendetta in lui compita.

Fuggi misera, almen dirle potessi,

Ti difendi, che fai? Già Documano

Tutte adunate le mancanti forze

L’afferra, e tratto il suo medesmo acciaro

Dalla piaga crudel, l’immerge in lei,

Che confusa, sorpresa e disperata,

Per te moro, Catbar, cadendo dice;

Ma il traditor, che ti ferì, pur muore.

E dal dolor di quelle voci estreme

Trafitto Documan più che dal ferro,

Per rabbia, gelosia, vendetta, amore

Squarcia di propria man la piaga, e vanno

L’ombre sdegnose ad attuffarsi in Lete.”


Molti altri sono i miti trattati dalla Fantastici: una Didone che dai Campi Elisi si pente dei suoi errori e ricorda con rimpianto la leggerezza di avere sottovalutato il potere di Eros; il pianto di Venere sopra il defunto Adone; i dubbi di Clitennestra poco prima del terribile delitto; il delicatissimo innamoramento di Ero e Leandro, dove la purezza e l’innocenza dei sentimenti è ben tratteggiata, e diretta con abilità verso il tragico epilogo.


Ma la Fantastici, come ho evidenziato, è particolarmente affezionata anche ad altre tematiche, e in particolare a quella della vanità e della piccolezza delle cose umane, e della invincibilità dell’amore:


[…]


“E tu, Nigella mia, che incauta sprezzi

Un cuor fedele, e dell’amor t’offendi,

Almeno in questi fiori che accarezzi

Di caduca beltà la sorte intendi.

Mancar vedrai del divin volto i vezzi,

Misera! Se il periglio or non comprendi,

Se sprezzi il tempo vorator che fugge,

E il bello al par dei fior consuma e strugge.”


[…]


“Vano fasto d’impero!

Ve’ dal grado primiero

In quai s’avvolge il gran Monarca esangue

Gorghi del proprio sangue,

Abbandonato in tanta sua sventura

Da quei, cui porse nutrimento ei solo,

Orché sul nudo suolo

Nelle fauci di morte avvien, trabocchi,

Né a Lui pietosa man pur chiude gli occhi.”


Infine, il tema della Bellezza: molto chiara la posizione dell’autrice, riferita da un’insuperbita Venere:


[…]


“Canta del bello, e solo

Sii del bello seguace,

Ch’è di regnar capace

In cielo e negli abissi,

E vale a muover guerra

Ai Dei celesti, ed ai mortali in terra.”


[…]


“E l’uom superbo altero,

Ch’è di ragion dotato,

Credesi riserbato

Su gli enti a dominar.


[…]


Ma dalle Donne vinto

Per man del Dio d’amore,

De’ bruti al domatore

Dà leggi la beltà.”


E ancora innumerevoli estratti di amori pastorali, resi con abilità, raramente banali, se non nelle prime produzioni e in qualche ode-canzonetta meno ispirata.


Di particolare interesse anche un sonetto, dove l’Innocenza viene sedotta da Amore e, ricevendo in dono delle rose, le stringe al proprio petto, provocandosi ferite sanguinose; a tale vista, l’Innocenza restituisce i fiori e le impreviste afflizioni.


Un ultimo componimento mi ha colpito in modo particolare: un ritratto di Apollo che insegue Dafne, che diventa simbolo dell’anelito artistico e creativo dell’uomo, che cerca di congiungersi alla natura, senza poterci mai riuscire (circostanza che assume ancora maggiore significato se letta nel contesto arcadico in cui la nostra autrice operava); il disincanto del dio si manifesta nella chiusa, con l’amara consapevolezza che la sua mano, che prima cercava di ghermire le carni della giovane, rimane con un pugno di foglie, e la bellezza di quella fanciulla resterà per sempre inaccessibile alla sua ragione, irrimediabilmente inafferrabile:


[…]


“Trarti sperava ad abbellir natura,

Sperava di mortal farti immortale,

E inspirato da te sulla mia Lira

Offrire inni ad Amor, e ch’ei placato

Dovesse fra di noi scherzar superbo.


[…]


E de’ miei figli ti vedrà la terra;

Anche il trisulco fulmine di Giove

Rispettarti saprà … Ma tu non m’odi!

E mentre di te penso, e a te favello,

Dafne, per sempre ai lumi miei t’ascondi.”


Concludo questo sintetico intervento con poche considerazioni: Fortunata Fantastici è stata una delle poche poetesse italiane ad avere talento, personalità, e ad operare con tanta genuina passione e amore per la poesia, vissuta non come mero vezzo d’accademia o velleità da salotto; nei suoi versi stilla autentica la vita della donna, i suoi pensieri, le sue riflessioni sulle condizioni delle donne del suo tempo, sui valori universali che tormentano gli esseri umani, dal mondo antico a quello della sua epoca.


Non credo che Fortunata – ah, ironia del suo nome! – abbia avuto la meritata fama e stima, nella storia della nostra letteratura: offritele pure un’occasione e provate a conoscerla meglio.


Basta un po’ di pazienza e una stampante.


Mario Famularo

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