“Epitaffio” di Pietro Bossa - disincanto della ragione, amarezza e conforto, in un autore contempora
I versi che mi trovo ad analizzare sono frutto di un percorso davvero peculiare, nei nostri tempi: difatti, lo studio che è alla base di quest’opera, evidenzia un rigore ritmico e metrico notevole, uno studio attento delle posizioni accentuative e della lunghezza dei versi: non a caso, tre di essi rimano in chiusa sdrucciola.
Non memorar desidero: la rima mentirà più dolce accordo. Gli sguardi all'or sospiro che non videro trasfigurata già nel suo ricordo: la morte mia considero, e la felicità.
Questo impianto tecnico “di sottofondo” è abilmente mascherato, in particolare nel secondo e terzo verso (un settenario tronco ed un quinario, ma anche un endecasillabo a majore spezzato, che riflette e ripete l’accento di sesta sede, presente in tutto il componimento), rivestito di un linguaggio apparentemente semplice, ma in realtà molto attuale e diretto.
I lemmi scelti, nella loro modernità, compongono invero pensieri di una certa profondità, e di indubbia suggestione: in particolare “la rima mentirà più dolce accordo”: un contrasto netto con il desiderio della dimenticanza, espresso tramite la volontà di non ricordare, un’operazione che appare quasi sofferta, dolorosa.
Ulteriore immagine di un certo interesse, in questo pur breve componimento, è l’ora “trasfigurata (già) nel suo ricordo”, cui l’autore sospira i propri sguardi: qui c’è la chiave di volta del conflitto tra il Bossa e lo scorrere del tempo: l’amarezza, il trasporto sentimentale (in quel sospiro è concentrata tutta l’umanità e il coinvolgimento del poeta, seppur mostrato solo per un brevissimo istante, solo in una parola), la trasformazione del fenomeno materiale, reale e presente, in un ricordo, quello che l’autore non memorar desidera, che la rima non potrà che tramutare in una menzogna, dolce, ma artefatta.
Conseguenza di questa disincantata constatazione è il soffermarsi sulla morte, e la felicità. Questa forte contrapposizione tra due parole così comuni, così banali, è sferzante: il primo pensiero che perviene alla mente del lettore è certamente che la felicità, nell’interpretazione dell’autore, sia conseguenza naturale dell’annullamento definitivo, del non memorar assoluto; ma è possibile anche leggere, in questa chiusa, l’eventualità che il Bossa ponderi sulla dissoluzione della coscienza, sul significato della serenità per chi vive: ogni momento, anche il più caro, si trasfonde in un ricordo menzognero, che ogni descrizione, artefatta, dolcemente mistifica.
La voce di questi versi è autentica e di indubbio interesse, per la sua particolare connotazione moderna, nel lessico e nella stilistica, eppure profondamente ancorata alla tradizione, per l’attento studio del verso, del ritmo, del suono delle parole. La liricità introspettiva, quasi esistenziale, ci comunica un pensiero moderno, attuale soprattutto nella sua individualità, nell’intimità e nel sentire appena accennati: l’occhio analitico appare quasi clinico, tradisce la propria umanità appena in pochissime parole (“dolce”, “sospiri”) e sembra volerci comunicare che il ricordo, l’operazione creativa di rielaborazione del presente, che è già diventato passato, non fa che vanificarlo, mortificandolo in un inganno costante: la morte considerata, sembra quasi essere un suggerimento, in un certo qual modo, di valutare una possibilità di eterno presente, una via di fuga dal meccanismo per cui il Bossa sembra struggersi.
Quel che lascia più impressionati, in tutto questo motus animi, è la scientificità delle valutazioni, che sembrano quasi mettere da parte le risultanze emozionali dell’intero procedimento, come se fossero dettagli secondari: questa “impostazione”, che ritengo essere in verità il moto autentico dell’autore, pervade l’intero componimento di una clinicità feroce, che mostra il tempo, il ricordo, e i fenomeni materiali come gelidi ed indifferenti.
In questa visione, le parole dolce e sospiri sono ancor più pregne di un’intensità tutta umana; sembrano quasi evidenziare la piccolezza delle considerazioni dell’uomo, insignificante di fronte a fenomeni che, in ogni caso, non si curano di lui.
Se dovessi dire quali autori mi sono sovvenuti, alla lettura dei versi di Pietro Bossa, sicuramente citerei, con le dovute precisazioni, alcuni crepuscolari (Gozzano, in primis) e autori moderni come Saba. Non si può non rinvenire, infatti, un umore compatibile con quello del nostro “epitaffio”, in versi come:
Ecco la Morte e la Felicità! L’una m’incalza quando l’altra appare; quella m’esilia in terra d’oltremare, questa promette il bene che sarà…
Di Gozzano, dove ritroviamo il binomio morte e felicità, e il loro intrecciarsi in un gorgo di promesse di eterna immanenza, di serenità quasi oltre umana (“terra d’oltremare”). Oppure:
Malinconia,
la vita mia
amò lieta una cosa,
sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa,
ch'altro non spero.
Di Saba, dove il poeta triestino riflette sulla speranza, quasi dolorosa, che la morte sia foriera di un’ultima, lieta, e definitiva pace, di là da ogni inganno mortale.
In conclusione, Pietro Bossa ben s’inserisce in un contesto di poesia contemporanea, spiccando per la sua attenzione alla tradizione formale e alla musicalità precisa del verso, rielaborate in chiave attuale.
Una poesia disincantata, che riproduce, nei suoi versi, un linguaggio attento, quasi clinico, distaccato ma lucido, freddo ma assorto, apparentemente lontano dalle passioni, ma attento alle emozioni importanti, che non possono essere che quelle del presente: nella consapevolezza, forse amara, della loro fragilissima – e forse per questo così preziosa – caducità.
Mario Famularo