top of page

Il rapporto tra concavo e convesso, essere e vuoto nella dinamica della vita in “La via cava” di Mas

“La via cava”, di Massimo Parolini, edizioni LietoColle, 2015, è una raccolta ricca di suggestioni; il linguaggio si presenta preciso, essenziale, alternando attimi di riflessione linguistica ed esistenziale a momenti di quotidianità vivida che perfettamente si inseriscono nel quadro espressivo di insieme.


Il titolo, come suggerisce l’autore nella nota conclusiva, gioca sul significato etimologico della parola “cavo”, sulla sua duplice natura di vuoto dello spazio contenuto in una cavità, e contemporaneamente, appunto, di curva che contiene ed accoglie la materia: tra concavo e convesso, tra essere e nulla.


I rimandi vanno dalla cavità della mano che raccoglie, dal grembo che nutre la vita, fino alle grotte che hanno ospitato i primi uomini e le cavità della terra che accoglie il seme.


Il legame tra convesso e concavo, la dicotomia tra curva che accoglie l’essere e circoscrive il vuoto della cavità, ricontestualizza il discorso novecentesco sul rapporto tra uomo moderno, nichilismo, e la perdita dei valori, in un’ottica sostanzialmente positiva e propositiva.


La prima sezione della raccolta, “il pavone dell’alba”, inizia il discorso con particolare dolcezza del tono, descrivendo il rapporto tra amore e tempo, mentre si insinua con discrezione l’orrore della sua transitorietà (“nulla rimane”), e contemporaneamente la sicurezza che qualcosa sopravviva sempre al tempo, con aspirazioni di permanenza (“nulla mai passa”).


Nella idealizzazione dell’istante (“tu ridammi soltanto / il momento presente / la nuvola d’oro / che piove l’istante”) l’incontro tra anime affini non ignora “le vere distanze” né il rapporto con la natura (“c’è un uomo che abbraccia / la pelle degli alberi”).


In particolare nel confronto tra “lei” e “lui” si incarna il conflitto tra “l’armonia dell’amore” e “la storia dell’orrore”.


La permanenza viene suggerita dalla ricorrenza dell’elemento marmoreo (“lancia lo sguardo di marmo sul mare” … “su corpi lucenti di apolli di marmo” … “ed il piumone, delle cose, / divenne corto, / si fece marmo”) e interagisce con la grande tenerezza della vicinanza umana, della nostalgia del tempo perduto (“se vuoi io ti racconto del mio grande orizzonte / delle corse in mezzo ai campi del mio cuore di bambino”), trovando riparo alla “comune disperazione” nel contatto tra “due anime nobili, deboli, i n st a b i li”.


Ogni rapporto, pertanto, si sviluppa in dicotomie, come suggerito anche dal punto di partenza tra concavo e convesso, tra essere e nulla, nelle dualità io e te, lui e lei, transitorietà e permanenza, passato e presente, marmo e carne, ecc., come due facce della stessa medaglia. La curva che circoscrive la cavità la contiene, la culla e la nutre al contempo: è la vita e la sua negazione, è ansia e conforto.


Nella sezione “in un tempo più lento”, si pone nuovamente l’accento su aspetti positivi e umani della “cavità” e sul proprio ruolo nel mondo: “ad un tratto ho sentito / nel mio orto concluso / di essere un uomo… / al mio fianco / una donna da amare_______”, il ventre materno che accoglie la nuova vita (“regalami un’eco della nuova esistenza / che in grembo ti danza”) e la funzione della mano che raccoglie (“ho posato la mano sul grembo / ho ascoltato il bambino che è dentro…”).


L’orto concluso che accoglie l’uomo è il ventre concluso che accoglie il nascituro: la terra accoglie nella propria curva cavità l’umanità come il grembo materno accoglie il nascituro (“anche lui, come noi, / vuole stare e non stare / in quell’unico luogo / che ci ha fatto da madre…”).


Il discorso procede in “pieghe del quotidiano”: già dal titolo continua a presenziare la curva che contiene ed esclude, che raccoglie e circoscrive: “la piega che ora / si insinua nel convesso”, toccata dalla mano, diventa qualcosa di spirituale, “squama d’anima”, tra le “miserie mondane”e “l’eco della stanza cava”, accolta dalla mano che esplora ed accoglie (“ecco il nostro amare / ricevere la forma / dell’inquieta larva oscura”).


Ricorrono i lemmi del tatto, del “raccogliere”, da “accarezzi le linee convesse” a “la mano cuna e pura / che accoglie i senza voce” della figlia Laura, protagonista di un componimento di grande tenerezza e umanità, dove un episodio quotidiano diventa occasione di riflessione sulla fragilità della vita e della materia, e sul dolore, dove l’empatia verso gli altri esseri viventi dà senso alle cose, non le rende vane.

Riflessioni che nascono dal quotidiano anche in “figli”, “uomo in scurto”, “la macchia”, “euforbia”, per tornare poi alla dicotomia già accennata prima, sempre con grande delicatezza e precisione, utilizzando anche elementi metalinguistici e di interpunzione, di taglio sperimentale, che evidenziano passaggi di particolare rilevanza (“solitudines o s p e s a”, “l’ora che ritorna / a dis_farsi / presente”, “)os_curando la tenebra(“).


Nelle successive sezioni, “teoria delle ombre” e “il dio che viene”, dal quotidiano si passa a riflessioni più ampie.


La curva che accoglie l’essere evidenzia allo stesso tempo anche un’assenza, un vuoto, uno spazio cavo che fa parte dell’esistenza (“Appariamo: ed è /svanire”, “Inutile star male: / due posti buoni per parcheggiare / un brutto corner, in cui sparire”).


In “teoria delle ombre”, “Mentre il vuoto già riempie / circo_larmente il mondo”, “risuona la risata isterica di un muto”, nell’insistere dell’iterazione “troppo presto troppo tardi / troppo tardi troppo presto”: il tempo che passa, le contraddizioni che cercano una composizione positiva, “per poi scendere / increduli e nudi / le pareti cave dell’imbuto”, scivolano inevitabilmente verso l’estrema destinazione.

Similmente, una goccia che scende sul parabrezza scivola in modo irregolare, imprevedibile, tra pause e attimi in cui sembra “posare su un vuoto”, finché non “scompare alla vista / non posso dire sia finita / nel nulla: non saprei definirlo / forse ancor desta / continua a scendere / al di sotto di quel cofano / tra le pieghe del motore / sulla cinghia la puleggia la frizione / sul respiro del radiatore”.


Resta una traccia del suo passaggio, “un alone”, e questa goccia diventa metafora della vita umana, del suo percorso imprevedibile, del suo svanire dopo la morte, della permanenza nella memoria degli altri.


Ne “il dio che viene” la riflessione esistenziale si sofferma sull’assoluto: in particolare ne “il dio cavo”, la riflessione sperimentale esprime “un concetto spaziale”, con piccoli calligrammi che ne mostrano la forma rotonda, ellissoidale, che ricordano moti cosmici, definendolo il dio che “svelandosinega” disegnando una linea a punta di lama, in uno strappo che, “fonema sfrangiato”, “negandosiama”, profilando quasi una misticità laica, nella negazione che diventa rivelazione, nel nulla che diventa essere ed amore, componendo in qualche modo quel precedente dualismo tra negazione ed affermazione, tra essere e vuoto.


E quasi con nostalgia si ricorda quando “il mondo / era labbra di un dio / non solo cemento e specchio dell’io”.


Seguono una serie di poesie dedicate ad opere d’arte, quadri, sculture, e ad artisti, letti attraverso lo sguardo personale e coerente del Parolini.


In particolare, ne “l’intervista mancata” dedicata a Mario Luzi, se ne profila un’immagine vivida, di grandissima suggestione, affrontando il tema del rapporto tra l’uomo e l’umanità, perduta, e un grande senso di nostalgia per i padri, per le radici antiche, per le “fondamenta indelebili, intraviste” che consentono di “squadrare l’invisibile”.


Conclude la raccolta la sezione “ansiaverde”: sono presenti qui diversi episodi di contemplazione della natura, come in “verso il Cimirio”, dove i mille dettagli dei “colori dell’autunno” ridonano “un vuoto addormentato / che si muove nel mio fondo”, o nei versi dedicati ai quadri di Van Gogh, dove si descrive con cura il paesaggio e la natura, con una attenzione particolare alla rivolta, alla ribellione, che risiede nell’azione, rappresentata dall’istinto dell’uccellino che avverte il tempo della migrazione.


Il Parolini evidenzia che “la natura ha i tempi docili / delle forme semplici, / lo sguardo cavo della / necessità…” e anche se il percorso “conduce all’ignoto”, anche se l’assenza della persona cara “divora il paesaggio”, “riaffiora una pagina bianca”, progetto di vita da riempire di propositi concreti, di azione, di vita, ed ecco nuovamente in chiusa i simboli della transitorietà, della permanenza, del tenersi strette le cose più importanti e fragili, a volte dolorose: “una piuma, una pietra, una foglia cucita…”.


Con un tono delicato ma preciso, a volte con tenerezza paterna, Parolini affronta problematiche che dal quotidiano si estendono alla ricerca di un significato più profondo, alla composizione tra assenza e presenza che, circoscritte da una curva che a volte sembra escludere e disorientare, sa accogliere, abbracciare e donare calore all’uomo.


Uomo che, con positiva determinazione all’azione, ed equilibrata accettazione delle cose, nella dolcezza, nell’amore e nell’empatia verso i propri simili, può trovare un senso alla propria esistenza, una via per non sentirla mai vana: cava nel senso positivo, accogliente, materno, e mai vuota e senza una direzione puntuale.


Mario Famularo

 Ricerca per Tag 
Non ci sono ancora tag.
bottom of page