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La liquidità della vita nella poesia di Claudio Lamberti - di Luca Cenacchi

(Testo tratto dalla presentazione della raccolta "Le cose piccole non si vedono in autostrada" di Claudio Lamberti, Fara Editore, 2016) La raccolta si presenta, di primo acchito, come un percorso organico e strutturato in diverse parti: Prologo, Note, Elementi, Umani, Essendo ed Epilogo.


Così viene delineato un percorso che può essere riassunto come il tentativo di illuminare un rapporto con il mondo (chiudendo in quest’ultima parola sia il paesaggio, il territorio, sia le persone stesse).


Se nel prologo "La creazione" il Lamberti aveva delineato il rapporto con l’altro in modo disordinato, un moto di anime che casualmente si scontrano nella nebbia, in Note ed Elementi l’elemento naturale acquista un carattere fondamentale che talvolta finisce col sovrapporsi, compenetrando l’io scrivente.


Questa naturalità non potrà, inizialmente, che venire a cozzare con gli elementi metropolitani delineati nella sezione Umani. Quivi si registrerà, dunque, un continuo tentativo di farli compenetrare. Nella medesima sede si viene poi a prendere coscienza della dolorosa assenza dell’altro e dunque della coscienza della condizione dell’uomo moderno, anche se non si rinuncia mai, in un impeto quasi eroico, a cercare di perforare questa patina che sembra dividere il poeta dalle persone.


La stessa compenetrazione che con la natura, chiamiamola così per ora, non è difficile ricercare, si rivela difficoltosa nel momento in cui l’autore si scontra con la realtà liquida della città. Seppur fallisca il generale tentativo di cercare un contatto totale con le persone, nell’ultima sezione viene registrato un lieto fine da riscontrarsi nel rapporto amoroso, in cui l’autore, nella sua intimità specifica, riesce a mettere in scacco la realtà. Forte di questa breve panoramica si comprende come questo libro sia anche la ricerca di un radicamento identitario. In un articolo apparso sul Kerberos Bookstore, Famularo ha asserito che una delle peculiarità di questo libro sia la sua vertiginosità derivata dall’immobilità dell’io, la sua volontà di radicarsi, e l’inevitabile mobilità dell’immaginario, chiamiamolo paesaggio, che quest’ultimo ha di fronte.


Questo è particolarmente interessante nel momento in cui ci si pone il problema di individuare un rapporto di continuità tra le generazioni di poeti direttamente precedenti e di come Lamberti rappresenti inconsapevolmente lo stadio più acuto della metafora Baumaniana della società liquida, ma procediamo con ordine.


Il rapporto con la territorialità è sempre stato il perno di moltissime poetiche del 900 e, spesso, il senso del luogo finiva per coincidere con l’identità stessa. Dunque ritengo di poter affermare coerentemente che, quando si parla di luogo, si parla spesso anche di identità. Un rapporto che, negli ultimi anni, è diventato per le generazioni più giovani un problema non indifferente e che, come cercherò di dimostrare, ha segnato nettamente il libro di Lamberti.


I primi iati, le prime parziali inclinazioni, sono state notate già da Galaverni, che lo registra in Bertolucci [1]. Tuttavia l’esperienza più centrale e nutriente al fine del nostro discorso è quella di Sanguineti ai sensi della lucida descrizione che Niva Lorenzini conferisce del Reisebilder [2] sanguinetiano.


Ora si comprende, da queste brevi ma significative citazioni, come la paesaggistica tutto sommato astratta di Lamberti - astratta rispetto alla concretezza delle precedenti rappresentazioni - non sia altro che la spia di una fortissima crisi di identità. Per lui il territorio è un colore, è una luce, un marciapiede, elementi anonimi in un paesaggio irreale, un paesaggio inscindibile dall’io stesso. La sua eco antica che cresce al ritmo della terra è elemento naturale, in questo caso, un processo astratto e letterario, isolato da un contesto, dunque spogliata di qualsiasi concretezza: dissolvendo il legame identitario-esistenziale che significava un luogo e lo inseriva in una cornice solida e precisa si ha un effetto di de-realizzazione.


Infatti, nella poesia di Lamberti c’è un io che brancola disperato fra i frammenti naturali e metropolitani, che risultano inerti, all’ombra del disagio contemporaneo. Di questo egli ne è cosciente e lo rivela nel suo lieto fine: quivi la consapevolezza di un ripiegamento su se stesso e sulla intimità della relazione.


Cosa significa questo? Questo significa che Lamberti, col suo libro, rappresenta la liquidità della vita nel suo stato più acuto, rappresenta il disagio dell’individuo davanti a una dissoluzione continua, all’incapacità della società liquido-moderna di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo [3].


Una società dove le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure [4].


Si tratta di una sconfitta della letteratura e della poesia innanzi alla difformità contemporanea? Io non credo, e la reazione che conclude questa raccolta non è altro che il preludio di una diversa postura e, forse, di un rafforzamento della letteratura: della sua realtà e concretezza intesa come immaginario culturale, quindi di una concretezza astratta, di una realtà astratta ma non per questo meno presente.


Per illustrare quest’ultima parte mi permetto di riportare, in un breve excursus, un frammento di un mio articolo uscito per la rivista Poetarum Silva su l’ultimo libro di Gianfranco Fabbri, "Il tempo del consistere". Intervento che può giustificare la postura di fuga apparente di Lamberti nel corso della ultima sezione e offrire, magari, una suggestione per il futuro. Anche Fabbri registra lo sgambetto che il mondo fa a l’uomo: testimoniando l’inerzia del paesaggio, del territorio e la l’impossibilità / difficoltà comunicativa con le persone.


Quello che soccorre il Nostro nell’inerzia di questo immaginario è proprio la suggestione della cultura. Fabbri quindi tenta un espediente analogo al motivo retorico della descrizione della biblioteca letteraria [5] di cui credo possa costituirne, in fondo, una interessante variante. L’effetto è non solo quello di fondare un universo culturale in cui agire, ma anche quello, in un certo senso, di cercare un alternativa alla mancanza del rapporto umano; essa, per la sua natura intertestuale, si rivela un universo gravido in cui agire e dal quale ci si può lasciare fecondare. Nell’omonima sezione, così, l’ipotetica biblioteca di Fabbri (direi una biblioteca – soggetto), più che per titoli, è ordinata per nominativi, in cui si innestano le riflessioni dell’autore. Questa caratteristica prosegue alternamente anche nelle successive sezioni, inglobando vari campi della cultura umana.


Così la realtà straniante viene sostituita dall’immaginario culturale, che si rivela anche quello della coscienza.


Quello che rimane certo è, fra le tante possibilità, la transizione d’identità cui l’autore è stato obbligato.


L’io, non potendosi più rispecchiare nel territorio, tende a compiere una parabola d’astrazione, ma senza rinchiudersi in una sterile autoreferenzialità. Difatti la suggestione della cultura, per la suddetta natura intertestuale, impone all’io di uscire fuori di sé per poi ritrovarsi accresciuto. La cultura diviene così non solo un silenzioso interlocutore, non restituisce soltanto l’equilibrio perduto [6], ma si scopre depositaria di quell’umanità smarrita. Io credo non sarebbe un errore sillogizzare: cultura come essenza dell’essere umano. Perché? Perché la dissoluzione dell’orizzonte geografico ha aperto possibilità di virtualità totali ed è in questa totalità d’immaginario, intesa come molteplicità di suggestioni amalgamabili [7] e comunicanti, che si dovrebbe costruire un identità strutturata sul carattere interculturale della letteratura.

Luca Cenacchi

 

[1] Cfr. Galaverni, "Dopo la poesia", Fazi editore: Distacco dal luogo, dunque, e ritorno ad esso da una distanza che non permette un vero rientro: il luogo di Bertolucci diventa il ricettacolo e come la cartina di tornasole di perturbazioni e incrinature innumerevoli fino a coincidere con il luogo stesso in cui si manifestano il tempo incerto della storia e le lacerazioni dell’esistenza individuale.


[2] Cfr. Niva Lorenzini la territorialità della poesia, cap. 10, "Le mappe della letteratura europea mediterranea": Sanguineti nega alla poesia qualsiasi territorialità identificabile con un paesaggio, un luogo geograficamente o memorialmente perimetrato. La sua scrittura si apre ai modi di inquietudine cibernetica in cui si rispecchia la frantumazione storica di un tempo come il nostro portato a sostituire alla profondità e allo spessore una geometrizzazione e stilizzazione di luoghi e spazi. Una superficie ridotta a rassegna di fotogrammi spogli reversibili degradabili come un paesaggio contenitore anonimo di omologazione e interscambiabilità.


[3] Cfr. Zygmunt Bauman, "Vita Liquida", Laterza.


[4] Ibidem.


[5] Per una panoramica sul discorso, che qui appare sommariamente, della biblioteca letteraria, si veda Renato Nisticò, "La Biblioteca", Laterza, 1999.


[6] Cfr. "Ciò che mi frega è lo specchio".


[7] Ma non deve essere operazione intertestuale, qual’ora si considerasse intertestualità la giustapposizione paratattica di elementi letterari.

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