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L’intellettuale e la realtà: il distacco ironico in “Liberi Tutti” di Giuseppe Acconcia – di Luca Ce

Liberi Tutti è la raccolta di poesie di Giuseppe Acconcia: scrittore, giornalista e ricercatore. Il libro presenta una versificazione distesa e contratta che, in ambedue i casi, non sfugge a tentazioni narrative e, anzi, a parte rare eccezioni, l’autore sviluppa istanze di racconto attraverso la rievocazioni di ricordi che vanno mescendosi ad altri sostrati letterari contribuendo, insieme, a creare un effetto di spaesamento nel lettore.


Per questo il libro potrebbe rivelarsi disorientante. Questa sensazione è subito netta nella poesia Apolidia, uno dei picchi di maturità che il lettore offre. Qui si va stabilendo, nell’economia narrativa, un alternarsi temporale tra passato prossimo, la cui funzione grammaticale, già come verbo, è quella di ponte; questa funzione viene esacerbata, poiché si collega al passato remoto della seconda strofa, permettendo a questo, dunque, di avere un colpo di frusta retroattivo sul presente stesso.

Questo è importante denotarlo perché l’economia stilistica dell’autore si snoda attraverso continue sovrapposizioni non solo di eventi passati o presenti, ma anche di luoghi geografici, motivi non tanto letterari, quanto più largamente culturali.


L’autore non vuole dare il senso del luogo, perché la visione del mondo e della cultura che concepisce è totale, unita. Pur riconoscendo, talvolta, la scansione temporale degli eventi, egli tende sempre a osservarli e presentarli con quel tipico colpo di frusta verbale, che il passato prossimo gli permette.

Infatti una delle intenzioni del libro è fotografare e testimoniare il mondo, che è il prodotto della mentalità inerte dell’uomo medio, incentivata da chi su di essa specula. Tutte queste intenzioni sono contratte con matura eleganza all’interno di Apolidia nel suo excursus.


Al lassismo e all’inerzia generale, Acconcia non oppone quella che potrebbe sembrare una fuga, ma un distacco, un passo indietro da essa; presa di posizione che permette tanto di strutturare minuziosamente la sua visione, quanto di opporre una figura di intellettuale solitario che, presa coscienza del degrado generale, da esso decide di accomiatarsi.


Non tanto perché egli è come chi oppone Apolidia, ovvero refrattario a voler crearsi un posto nel mondo - cioè la croce e tomba del massificato medio che Acconcia lucidamente sembra delineare - ma se mai il contrario.


La figura che Acconcia oppone è quella di un intellettuale itinerante che oltrepassa le barriere geografiche tanto quanto quelle culturali, non accontentandosi di soluzioni semplificatrici e riduttrici, ma abbracciando la complessità intrinseca del mondo in cui vive e che è cosciente di vivere più profondamente. In questo senso la sovrapposizione non solo di eventi, ma anche di personaggi, è espediente letterario a mettere ogni cosa sullo stesso piano, riportandolo, se non al presente, almeno al passato più prossimo. Questa sovrapposizione, con molta probabilità, investe anche momenti autobiografici e luoghi che qua e la affiorano lungo tutto il libro, che acquista così anche valenza di testimonianza del percorso geografico e mentale, compiuto e da compiere.


Ora si può comprendere come le varie citazioni che percorrono tutto il libro non siano meri vanti eruditi, ma sono le tracce di quella volontà che cerca di oltrepassare la piccola recinzione del pensiero settoriale, cercando di far confluire tutto in una visione totale, rifuggendo, tuttavia, dall’imporre soluzioni olistiche.


L’autore cerca di restituire il “mondo”, rispettandone la molteplice e intrinseca complessità, senza imporre su di esso semplificazioni ingenue, che contraddirebbero la sua critica. Infatti egli invita, indirettamente, alla ricerca e alla scoperta guidati dalla fame di nuovo. Ovviamente lungo il libro vengono trattati altri temi: come la fallace comunicazione di certo giornalismo; come le paternità letterarie (e non) oltre al citazionismo diffuso, ma credo che questa molteplicità abbia come sfondo e struttura la ratio fin qui enunciata.


Il Libro di Acconcia non vuole essere solo un libro di denuncia, ma è anche un libro che esorta a vivere e a conoscere, anzitutto, portando in campo la propria esperienza.


Come si evince da questa mia primaria ricognizione, la tendenza a rappresentare la molteplicità della vita e del mondo, la tendenza a svalutare e annichilire il pensiero dell’uomo ordinario, sono di matrice evidentemente tolstoiana.


Da queste matrici fondamentali, Acconcia inserisce la propria necessità di oltrepassare le barriere, come si è detto, di un pensiero settoriale e diviso, inserendo, così, nella suddetta teoresi, il proprio ritratto di intellettuale-poeta itinerante, che cerca di destare il prossimo da un deleterio torpore fatto di inconsapevolezza, esplicando così il proprio servizio all’umanità.


È necessario sottolineare che, questo servizio, per Acconcia, è slegato dalla conseguente tensione cristiana, ancora costitutiva dell’elaborazione di Tolstoj. Il servizio del Nostro pare abbia un’intenzione laica.


In questo senso, come si è già ribadito, si oppone la figura dell’intellettuale itinerante, la cui necessità primaria è quella di viaggiare per conoscere e per comprendere il mondo, spinto costantemente da una fame di nuovo, che costituisce nucleo emotivo della figura sopradetta. Così Acconcia sente la necessità di fondare non solo da un punto di vista esistenziale il suo viaggiare, ma anche, per così dire, etico, nel momento in cui struttura la figura dell’intellettuale ed esorta a vivere coerentemente ad essa.


L’intento di Acconcia non vuole essere, dunque, unicamente polemico, ma quello di offrire una valida alternativa al, chiamiamolo così, sentire comune.


Non credo che egli, tuttavia, veda l’arte come metodo di redenzione totale dell’essere umano, come il suo maestro, ma la percepisca come modo “incontaminato” di esprimersi, attraverso il quale si può veicolare un’esperienza genuina, in cui è possibile “risvegliare” il prossimo, o aiutarlo a liberarsi.


Perché, per l’autore, non si tratta più tanto di sopprimere la violenza, incardinando, attraverso l’arte, l’amore nell’essere umano, ma si tratta, se mai, di svegliarlo da uno stato di incosciente torpore.


Luca Cenacchi

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