La profonda testimonianza umana de “Il dolore” di Alberto Toni – di Mario Famularo
Ne “Il dolore” di Alberto Toni si è di fronte, sin dal titolo, a un testo maturo, senza sovrastrutture o mediazioni: il lettore è costretto ad affrontare la problematica dell’esperienza del vivere, attraverso le declinazioni del tempo, della memoria e dei rapporti umani.
Il dettato dei versi di Alberto Toni è consapevole, il ritmo si presta dinamico al fluire delle immagini e dei pensieri: è tutto molto funzionale, mai rigido né incontrollato.
La prefazione di Roberto Cescon giustamente evidenzia, tra i punti nodali della poesia di Toni, “la sfida del presente, che è sopravvivere giorno a giorno, malgrado le tempeste e la strada che s’incrina”, e in uno la “distanza del guardare”.
L’opera in esame appare come il riflesso di un presente che è frutto di una lunga ed approfondita sopravvivenza, di un percorso ricco e stratificato, di una metabolizzazione ed esperienza del dolore umano e personale, che si fa universale.
Sin dalla poesia d’apertura, “Lungo il Sangro”, si chiariscono alcuni punti chiave ricorrenti: la “trota sannita”, allegoria della vita che, nonostante le intemperie, non si arrende e continua a sopravvivere ostinatamente, “s’annida al temporale … mentre l’acqua, il riverbero / di fibule sotterra il tempo antico e / quanto resta”. Ciò nonostante “alla pioggia / sopravvive, rinasce di giorno in giorno”.
Ecco già il primo spiraglio doloroso: il tempo “antico”, il timore per la sepoltura che si congiunge al grido che “s’alza dai secoli”, immerge il lettore nella fugacità del tempo, nella riflessione che sopravvivere ai giorni è anche vederli sfumare, uno dopo l’altro, nel passato. Ma “se dalla / fugacità rapita noi non proviamo gioia, eccolo / il turbinello della mente, il basso / che ci pesa al cuore”. Dunque non bisogna voltarsi indietro, o al più, bisogna cercare di trarre qualcosa di positivo dal passato, piuttosto che afflizione e turbamento, associati al pensiero e al ragionare (il “turbinello della mente”).
Il tema del tempo ricorre e viene approfondito nell’arco della raccolta, confermando l’invito a non farsi illusioni, e a vivere la vita con consapevolezza: “Fossimo stati sempre lì, / … in un tempo eterno e bello, non / avremmo freddo”. È necessario invece “guardare sempre avanti … anche se tira vento e piove”, perché “lieto è il cammino se non ti volti”. Più chiaro diventa l’invito al noli respicere, a non perdersi nelle trame della memoria, nelle “questioni irrisolte e dolorose, / perché il tempo non dà risposte”.
Ma la consapevole riflessione sullo scorrere della vita, anche se progettata con lucidità, si avvicenda tra luci ed ombre, in un chiaroscuro conflittuale (numerosi i riferimenti in tal senso, in particolare al “cono d’ombra”), ove a tratti si avverte “pungere in testa l’ossessione del tempo. / … E a niente vale la clessidra”.
La parola intima del poeta, che è strumento di difesa, di crescita e di riparazione (“ritrovare il nesso vita poesia difesa”) si scontra a tratti con la sensazione ingannevole, dolorosa, del tempo: “il movimento è sempre / quello, sempre uguale, anche se / appare diverso ogni momento. / È l’illusione ottica della vita” … “Se temevi il tempo ora lo sai: / la spina, l’artiglio, ciò che mai / potevamo sapere nell’immediato. / Si è compiuto, si è raggelato / e non basta non basta un colpo secco, / inseguire cosa?”
Un tempo che a tratti viene cristallizzato, idealizzato, ma che continua, alla fine, ad essere sempre dinamico ed in moto, nonostante qualsiasi tensione della ragione (“Cercala la ragione a raso muro, / dietro la porta o all’angolo stretto con il fuoco / buono.”), restando quasi indifferente ad ogni valutazione e determinazione dell’uomo, della sua razionalità.
Il primo elemento positivo che appare, luminoso, dal passato, è il “mito dell’origine”, spesso rappresentato da sostanze liquide, dalle stesse acque del Sangro iniziale, ai molteplici diluvi, piogge, laghi, mari, e strade od asfalti bagnati, umidi. Il passato e l’origine contaminano il presente, quasi trasfigurati, attraverso l’elemento acquatico.
La ricchezza del passato si avverte proprio quando Toni sostiene “volevo essere, volevo dire, mangiare, perdere / un po’ d’ego”. Ed ecco che “Ritorna l’acqua, l’origine, ma non la tocco.” Ricorrono poi gli elementi della pioggia, l’asfalto è bagnato, e “tra negozi di cappelli, librerie, / ristoranti, poche gocce di pioggia” sembrano quasi il ricordo che traspare nel presente, liquido, sfuggendo immediatamente via: “è sul piano / d’acqua piovana soltanto / l’illusione del tempo?”
Nel testo inizia a profilarsi il tema della riparazione, si “distende l’occasione dell’incontro”, “l’accoglienza”, la possibilità di ricucire gli strappi dolorosi, i “tasselli familiari”: inizia a delinearsi, lentamente, una possibilità di conforto e rimedio al dolore, il più autentico, che si concreta nel rapporto umano, nell’amore, nell’altro.
Una cura che, se da un lato lenisce l’afflizione, dall’altro espone al rischio di un dolore, se possibile, ancora più grande, quello della perdita. Sembra riecheggiare il monito: “lieto è il cammino se non ti volti”.
La liquidità diventa pervasiva, entrando “dentro il mare di città”, e la pioggia dell’origine permette di risciacquarsi, “in perfetto ordine di appartenenza”. Rischiando di impazzire per il continuo ripetersi del tempo e delle stagioni, “nel diluvio di parole … nel tempo che è trascorso”, si cerca un punto di equilibrio, un “centro”.
Le mille domande appaiono ingannevoli, mentre la chiave di volta diventa la semplicità e l’amore, “al centro della stanza come al centro / del mondo”. Si conferma nuovamente l’appartenenza ed il legame con il passato: “Accogliamoli i padri, i fondatori”, e ai “nuovi” si ammonisce: stare al mondo è “riandare una volta, / più volte nell’addio / e dentro il dolore. / Non stanchi, né offesi / dalle umili origini.”
Accettare la separazione, gli addii, vivere intensamente, dall’interno, l’esperienza del dolore per riuscire ad apprezzare, autenticamente, l’esperienza del vivere.
Una responsabile ed equilibrata accettazione della condizione umana, che trae la migliore ricchezza dalla propria esperienza di vita, dolorosa e preziosa, quasi con uno slancio di sentimento: “Diciamola … la tempesta che scuote il sonno, / spazza i cieli, ricuce strappi, riannoda, / esita per un po’, poi sorprende con / un filo di voce, quasi a nascondere, / a mirare dritto senza voltarsi indietro. Lui sognerà di noi, sognerà / la libera sfida, l’incanto / di spiagge e confini.”
L’incanto di spiagge e confini: la vastità di affacciarsi sul mare, sul passato dell’origine e dell’ignoto, e la consapevolezza dei propri limiti umani, temporali, fisici e sensibili.
In “Percorso Ospedaliero” il contatto e il rapporto umano affronta il proprio aspetto, nuovamente, più doloroso: la prospettiva della perdita, il calore del presente che diventa ricordo del passato, la sutura che, se prima era “il filo per cucire stretto in mano come in altri tempi”, ora “non dà pace”.
L’attenzione in questa sezione è rivolta all’esterno, alla parola dell’altro, ai dettagli preziosi del volto materno. L’elemento costante diventa l’aria: “È invisibile quest’aria” … “Senti ancora l’aria / che si fa morbida, o il freddo”. L’aria diventa respiro, diventa parola, diventa presenza umana: “La città / è spazio e linea … tutto un rumore di respiri e basta.” Nell’apparente “immobilità / del letto” è tutto un espandersi di segni d’aria, di parole che diventano aspirazione di conforto verso il dolore di chi soffre, in cui si riflette il proprio patimento.
Tutto però appare “incredibilmente fermo”, mentre “l’aria che filtra è il segno buono / della stagione”. Toni regala uno struggente e delicato ritratto della madre, della sua profonda dignità, rappresentata attraverso i pensieri e le emozioni più personali: il dolore umano si fa esperienza universale.
Il volto della madre antica “traspira l’aria di giovinezza, / lascia, respira lontano il tempo dell’origine”, diventando parte del passato, segno di appartenenza, dolorosa ma autentica traccia di identità umana, anche se “quando spira il vento del dolore, per tutti noi, / per tutti i crolli e gli scempi che non capiamo”.
Ne “Il dopo”, ci sono le ultime riflessioni dopo aver vissuto un grande dolore: “Non c’è avvio né ritorno, ma soltanto una sfera lanciata nel vuoto. / Eppure sale un dubbio, come per l’ultima volta, prima della sorpresa / finale.” I versi si soffermano nuovamente sugli “altri”, “mangiati dal tempo, sospesi / tra il vecchio e il nuovo, in cerca di salvezza”. Il dubbio ormai “lacera”, si cerca di riprendere le proprie abitudini quotidiane con grande dignità, “per mantenere vita alla vita … semplicemente, / tenere la casa in ordine, salutare all’arrivo, / districarsi tra un gelsomino al cancello e le prime rose.”
Per non precipitare bisogna conservare il ricordo migliore delle cose perdute, “ma non gli elementi che mi bruciano, fatuità / anche nel dirlo, che non basta, non rincuora / nemmeno un minuto di più. Teniamoci, / assediati, per carità, che il tempo è passato.”
Ecco che l’epilogo, “Il dolore”, sintetizza tutti gli elementi finora trattati, con grande forza espressiva: il patimento più intimo del proprio mestiere, “che brucia la pelle”, profilando “un’antica appartenenza”, visibile “anche in un bar o in un centro commerciale”, che dunque accomuna ogni uomo in una tensione di universalità.
Dunque: come l’acqua, il tempo, la trota sannita, e l’uomo, infine anche il dolore “si muove”. “Tiene svegli i sensi, a volte è ascolto, / sottilissima piega, o una curva … sentimento dopo sentimento.”
Cosa resta? “Il bellissimo cuore impresso / in vita, fino a tutta la vita … amore che ci serve.” E questa è per Toni una “verità, / sentire, toccare, percepire” e non un inganno, bensì “testimonianza di umanità”, dal valore salvifico o quanto meno di conforto. “Il dolore si sposta, è sponda / anche dell’altro quando parla / e trascina un pensiero fisso, / che è solo amore, non altro / quando nell’aria la sentiamo arrivare.” La grande tensione umana verso l’altro qui assume valore universale, diventa la risposta alle “questioni irrisolte e dolorose” di cui sopra.
Pur nella certezza degli affetti di “Dentro la città” (“Dovevamo dirlo a tutti l’amore, / la pietà, il sentimento bello … Torno e ci sei ancora, / torno e non ho paura”) resta anche la certezza che quello che è perduto non potrà più rivivere. (“quello che è stato non torna e dentro / la città si ripercuote il silenzio che / già fu degli antenati”).
“Così è l’amore. Così si raggiunge il paradiso.”: eppure la raccolta si conclude con un dubbio appena accennato, con un ultimo interrogativo, piuttosto che con una affermazione così potente, che non ammette repliche: “Appena in tempo per cantare la gloria, / contare i minuti e le ore che qui si depositano / liquidi e pastosi fin sopra i tetti, Un tempo / che accoglie il dramma dello spirito dell’uomo?”
Sembra insinuarsi nuovamente l’ossessione del tempo, il dramma della sua indifferenza di fronte alla sofferenza umana.
Ma la grande dignità che consente di fare tesoro del proprio passato, per quanto doloroso esso possa essere, sa anche che il futuro non sarà certamente “un tempo eterno e bello” e che avremo ancora freddo.
Ed è proprio per questo che il calore dei rapporti umani assume un così grande valore, fino al punto di poter sminuire l’indifferenza degli eventi, del tempo e del dolore, che invece unisce a stretto filo le fragilità degli uomini che conoscono il reale patimento dell’esistenza, in una “sutura” di intima fratellanza che risolve universalmente ogni aspirazione di appartenenza, dal “mito dell’origine” fino al momento presente e vivo.
Mario Famularo