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L’Art Nouveau di Giancarlo Petrella, sacerdote di Hypnos nel santuario del sonno, e la poetica del “

Analizzerò in questo articolo “Art Nouveau” di Giancarlo Petrella, autore che, opponendo delle precise scelte formali ed estetiche, che appaiono in linea di continuità con la tradizione letteraria italiana “classica” che arriva fino agli inizi del ‘900, potrebbe sembrare voler operare un netto distacco con l’epoca contemporanea.


Va precisato fin da subito che il linguaggio e le forme chiuse, quando vengono interiorizzate e acquisite dall’autore, non riducendosi alla pedissequa imitazione o all’epigonismo, pur in conflitto con il linguaggio poetico di uso corrente, possono assurgere a strumento di denuncia, a manifesto di un senso di estraneità con la propria epoca, a tensione verso un’ideale avvertito come in decadenza.


Il rovescio della medaglia può essere la valutazione dei possibili fruitori come un elemento di secondaria importanza, un criterio di selezione, o persino di indifferenza. L’autore sembra confermarlo (“il vulgo tralascio e fuggo”, che sembra sorridere all’oraziano “odi profanum vulgus et arceo”).


Il legame con la tradizione e l’opposizione ad alcuni aspetti della contemporaneità nel Petrella assume una dimensione legittima, anche perché la modernità dell’autore è visibile – prima di tutto – nelle tematiche affrontate e nella consapevolezza della sua visione del mondo e, in secondo luogo, nella reinterpretazione degli schemi accentuativi dei versi tradizionali, riproposti integrandoli a forme non canoniche o con modulazioni personali degli accenti.


Resta però insita alla scelta, come anticipato, la precisa volontà di operare una selezione, anche nei confronti del lettore, senza porsi il problema di poter apparire, ad alcuni, anacronistico. Vi è pertanto una assoluta fiducia in alcune strutture del linguaggio, e in una concezione della poesia “senza tempo”.

Vedremo l’autore come giustifica tali scelte, e si cercherà di analizzare la sua opera, per quanto possibile, anche al di là di tali caratteristiche estetiche, linguistiche e formali, che, a parere di chi scrive, restano nell’ambito delle sovrastrutture.


Il Petrella si presenta come “un lettore e scrittore; le due cose non sono scindibili: quel che leggo spesso è “materia del mio canto”, quel che scrivo viene imbevuto dai miei studi. I miei interessi sono, a parte la poesia, la storia medievale – da un punto di vista simbolico e nobiliare – la cultura Giapponese, la filosofia – non integralmente: sono uno studioso che non riesce a leggersi ‘tutti i filosofi’, in merito posso anticipare un pensiero che si troverà nella parte successiva a L’Art Nouveau: «è segno di un certo decoro, irrinunciabile per un letterato, manifestare più che apprezzamenti per i capolavori, delle critiche per alcuni classici.»”.


Un’attenzione per tutto il mondo classico, dunque, ma anche un’espressa attenzione per l’approfondimento del senso critico, senza mera accettazione di un patrimonio “dato”.


Ero un amante di Dante, Petrarca e Leopardi; ora preferisco l’angoscia e la sensibilità di Tasso e di Foscolo. Adoro inoltre la poesia simbolista francese, Lautréamont e Mallarmé in primis, oltre che Proust – che considero un poeta. Trovo comunque di una poeticità disarmante molte pagine di Mishima. Mi preme sottolineare l’importanza di Pound nella mia formazione poetica, non a caso è una delle mie «guide» nel poema che sto stendendo.


La scelta del nostro, pertanto, non opera un netto rifiuto della letteratura del secolo scorso “saltandola a piè pari”: piuttosto una consapevole scelta, che non è frutto di un rifiuto aprioristico ed irragionevole, ma presupposto della sua determinazione e aperta opposizione, prima di tutto ideologica, in secondo luogo linguistica.


L’anzidetto legame con la tradizione, che viene riproposta e reinterpretata, è operazione effettuata con consapevolezza: come anzidetto, non è mero epigonismo o imitazione fine a sé stessa: “Ho sempre ritenuto di scrivere in maniera classica, pur se con varianti consapevoli […] c’è una diversa concezione del verso: in pittura Dalí ha riportato in auge la tecnica di Raffaello, eppure non è certamente un uomo del Rinascimento.


Potrei andare avanti a lungo ad analizzare tali scelte, ma farei un torto all’autore.


Il valore di questa “Art Nouveau” non risiede esclusivamente nelle sue caratteristiche meramente formali, lessicali o prosodiche, se non in maniera strumentale: per quanto chi scrive il presente intervento sia un sostenitore (e nel suo piccolo, un divulgatore) del classicismo e di quello che alcuni hanno chiamato “neo-tradizionalismo”, non si può nascondere che tale scelta porti con sé alcuni rischi.


Mi limiterò a evidenziarne due, che forse sono i maggiori, nonché la principale ragione dell’avversione dei più a tale “stile” (anche se di stili ce ne sono molti, variano da autore in autore, e nello stesso Petrella ve n’è la compresenza di più d’uno).


In primis, la distanza del linguaggio da quello di uso corrente e il pericolo che, ove lo stesso linguaggio sia il fine e non il mezzo di un’opera, i versi appaiano piatti e artigianali, senza comunicare alcunché, accentuando la distanza dal lettore e corroborando l’accusa di anacronismo.


Non è il nostro caso: la stessa opera avrebbe potuto essere redatta con diversi stili, ma quello utilizzato è assolutamente strumentale a enfatizzare ed evidenziare il messaggio di valore dell’intera raccolta, che è presente e ben strutturato. Pertanto, da questo punto di vista, ritengo il pericolo superato, anche perché non si raggiungono particolari vette di preziosismo o di ricerca linguistica esasperata, e lo stile utilizzato, più che un artificio, appare come l’abito che il Petrella più naturalmente indossa.


In secondo luogo, la possibilità di non realizzare la propria voce, ma di impostarne una epigonica che riproponga impersonalmente dei meccanismi di uno o più autori della tradizione, anche attraverso compresenze, con l’abuso di topoi.


Anche qui, il problema non credo si ponga; come evidenzierò in seguito, la voce del Petrella realizza, lungo il corso dell’opera, alcune riflessioni interessanti, che si manifestano in modo graduale e progressivo.


Analizzerò alcuni passaggi della raccolta in esame, cercando di evidenziare quelli che, a mio avviso, sono gli elementi di unità e il messaggio sotteso a tutta l’opera, che riassumerei ne “la poetica del sogno lucido”.


Il canto del Petrella parte dall’amara constatazione del mondo in cui viviamo, dalla sua interpretazione più meccanica e scientifica, dalla caduta di ogni valore e dal trionfo dei nichilismi – tali elementi sono appena accennati, con una punta di distacco (“non consolazione / alcuna al perpetuo considerare / lo sconfinato universo dei numeri; / dannoso e inutile contare il tutto”, “Al vivere / inutile il conto; né della ratio / lo sguardo abbisogna”, “Per la maggior parte dell’universo, / membrana di energia su onde, v’è ‘l vuoto”, “Terminerà / il mondo, e non è dato di vedere / alle stelle il termine delle cose”).


Immediata conseguenza di questa consapevolezza così moderna, è l’annientamento della coscienza, lo sgretolarsi delle memorie di fronte al tempo e, in ultima istanza, l’oblio che attende ogni attività umana (“gli infernali cani smembrano le ultime / illusioni”, “molti poeti / che furono illustri uomini la polvere / li agghiaccia nella terra”, “e ovunque spazia, libero, l’oblio”, “All’oblio tutto cede”) a cui sembra cedere la stessa dimenticanza, in una voragine che sembra divorare sé stessa (“nulla si salva, neppur l’oblio stesso”).


“A che tante conoscenze?” chiedono i fanciulli curiosi alla Sibilla, donna sapiente e di esperienza, desiderosi di sapere, dopo aver conosciuto il vero volto del mondo e dei fenomeni, cosa ella desideri maggiormente: “desidero, / tra tutte le cose / solo il perire”. Questa sembrerebbe la destinazione della conoscenza “scientifica”, dell’assoluta ragione, del trionfo del pensiero.


A tali fenomeni l’autore oppone, accordando il proprio strumento con cadenze preziose (in contrasto con la nostra epoca, e occasione di denuncia sin dalla forma) il proprio senso di estraneità, il proprio distacco, che si enfatizza in due momenti principali di liberazione dal reale: il desiderio e il sogno.


Il primo viene vissuto come aspirazione assoluta al diverso da ciò che ci circonda (in particolare alla bellezza), e il secondo appare come un momento sacro, raggiungibile attraverso il sonno, portale per accedere ad una realtà alternativa di assoluta realizzazione.


Tale esperienza viene impreziosita di elementi in netto contrasto con il nostro tempo, e affidato a chi, come il Petrella, può apprezzare gli elementi di un mondo che appare lontano e inaccessibile. L’operazione è svolta con lucidità disarmante, e con elementi quasi sacrali, al punto di apparire, in qualche frangente, rituale.


Il desiderio, “più che ‘l pensare, parte / noi dagli altri”, diventando esperienza personalissima, preludio all’immaginazione, che “prende l’istante / dal nulla e, non altro vedendo” è “pago / nel godere il presente e mai l’avante”.


Lo sguardo diventa simbolo del desiderio e dell’immaginazione, che ha bisogno solo di sé stesso: “Nessun perché, serena voce, solo / il desiderio”, “perché necessità altro non significa / che desio retro linee celato”, ma soprattutto: “il desio / si muove e nel suo talento rimane / unico, come colei che si ama”.


Molteplici e frequenti sono i riferimenti allo sguardo, agli occhi, alla vista, che è forse il senso, o meglio, il gesto, più ricorrente nell’opera.


Ma il vero protagonista, come anticipato, è il sogno, e prima ancora il sonno, che ne rappresenta l’anticamera idealizzata, stilizzata in immagini suggestive.


Il primo a nominare il “sogno” nei versi del Petrella è Pound, il miglior Fabbro, che sostiene: “<<cantiamo: altro non ha valore>>, / e <<solo i sogni esistono>>; con tali / meridiane stendi il Poema”, nella “Ouvertüre” che funge da protasi: sin da subito tale elemento viene riferito come di primaria importanza. Subito dopo “vagano melodiosi metri e il canto / si mesce col sogno tutto d’intorno”.


Il primo momento “religioso” è probabilmente nella “Canzone”, che segue poco dopo, dove l’immagine di Irene, “Fata dello sbadiglio”, viene descritta dal Petrella, che si rivolge ad ella direttamente (“i capelli simili ad arpa scendono, / declini la testa e un sogno sospiri”), dipingendola quasi come una sacerdotessa, che consente, attraverso la sua danza “sonnifera”, di accedere alla realtà onirica, poiché “è un carcere la vita / diurna” e il “desiderio albeggia nella mia bocca / che si disseta di sogni”.


“Il primo violino di questo canone / divino è uno sbadiglio” e, mentre procede l’allegoria musicale iniziata con una Accordatura, protratta poi nella Ouvertüre, e nei molteplici ulteriori riferimenti, scrive l’autore: “ricado / nel sogno inaspettato.”


Ma quale il valore di questo sogno?


“M’assonna questo reale amaro”, dice il Petrella, evidenziando come “ogni / uomo, di neve fiocco che ristoro / non trova, cada in assenza di sogni”.


Il sogno prima di tutto è necessario ad evitare la caduta.


La realtà e le cose, che prima sembravano non avere senso, con la lente dell’uomo moderno e del pensiero razionale, attraverso il sogno “grazia e bellezza e cortesia formano”; possibilità, questa, aperta ad ogni essere umano, sicché “Tutti sognan, l’istante tutti avvolge”.


Nel componimento “Et in Arcadia ego” questa componente viene sviscerata con attenzione, e l’autore rivela la funzione del sogno, secondo la sua visione.


“Colui che immagina, al tempo non cede”. Dopo una descrizione della condizione dell’uomo, “stirpe penosa ed effimera”, lo sbadiglio di donna, leggiadro e dolce, viene indicato come “segno e indizio del termine del reale”.


L’immagine femminile, invocata e idealizzata in diverse altre occasioni (al punto di “non essere umana”, ma pura idea, desiderio, e bellezza cristallizzata che vince il tempo e il divenire che tutto trascina), conosce “più sogni che cose”, e accoglie i versi del Petrella, le sue aspirazioni, e le sfoglia “come lirica di un sogno”.


“Lievi le tende qual sbadiglio”: si conferma l’ingresso al mondo del sonno, ed eccone il riscoperto valore, in uno a quello del desiderio: “non solo eterno / il desio è”, ma soprattutto “non v’è / eternità senza sogno”.


Attraverso il mito di Orfeo, cui il dio sentenziò che mai più “alcun mortale / felice sarebbe stato” l’autore vede il momento in cui “gli sguardi / degli uomini si conversero ai sogni”.


Si affaccia di nuovo la dimenticanza e la dissoluzione (“All’oblio tutto cede”), e questa volta, con esplicito atto di forza, si afferma: “ma ‘l mio sogno si è ribellato”.


Nella parte finale della lirica, arrivano riferimenti diretti all’aspetto religioso e sacrale (“Caccia gli

ostrogoti da questo altare”, “Il tempio più sacro evoco”) contribuendo a rendere l’esperienza un’occasione di aperta opposizione alla visione razionale, e molto più prossima ad un’aspirazione spirituale.


Altro momento di particolare interesse è la lirica dedicata specificatamente al mito di Orfeo, dove si assiste a un utilizzo del metro particolarmente ondulatorio e dinamico, attraverso endecasillabi di varia natura, nonché versi dissimulati.


Qui la valenza semantica del nome di Orfeo si richiama all’oscurità, da cui il suo nome, e l’origine del canto viene fatta risalire al buio, da cui la fantasia creativa attinge.


La tensione mortale vede l’arte come anelito all’eterno, che sopravvive all’autore e diventa appendice più longeva del cantore.


contiene de la sua cetra un sol spasimo;

eppur a lui siedesi accanto il Nulla,

ma lo addestra, lo governa, lo impèra

perché ne conosce ‘l valore


Il nulla viene ammansito dalla lira, che davvero ne conosce “il valore” e può governarlo piegandolo ai fini del proprio cantare. Orfeo, paradossalmente nato dall’ombra (ulteriore rifermento alla notte ed al sonno del sogno), diventa Sole, diventa centrale: “sole solitario, nato dall’ombra”.


La raccolta sembra quasi una preghiera di conforto per accedere alla realtà del sogno, unica salvezza, e per mostrare la chiave a chi, come l’autore, può comprenderne il disperato e fiducioso appello.


Non a caso, nella propria introduzione, lo stesso parla di “onore”, e così chiarisce: “Chi legge accetta di divenire parte dell’autore, chi scrive accetta che un lettore fruisca di sensazioni altrui. L’onore potrebbe considerarsi come costanza, ma quel che percepisco con la parola onore è fedeltà; ho scritto, in un lavoro poetico che sta per essere compiuto, «la fedeltà non si misura», neppure l’onore. V’è un’amicizia segreta fra il lettore e l’autore, se per amicizia si intende la pura condivisione dei propri pensieri.


Innumerevoli i riferimenti simbolici e filosofici, i richiami storici e letterari, i personaggi illustri che intervengono come ombre nei sogni e nelle visioni, nei dettagli dei versi che compongono quest’opera, formando una fitta rete di rimandi e di suggestioni che si incrociano, come in un unico grande componimento.


La sensazione che si ha, nonostante ciò, dopo aver letto questa “Art Nouveau”, è quella di una maestosa sfiducia verso il pensiero razionale, intellettivo e sistematico, e, in netta opposizione, l’aspirazione verso una cristallizzazione del desiderio puro, idealizzato, eternato nella dimensione sacra del sogno, fino al punto di condizionare la stessa realtà prima negata.


Lo conferma lo stesso autore: “Il sogno si rivela l’unico modo per sfuggire al quotidiano, alla banalità delle cose. […] Il sogno ci condiziona nelle scelte, l’attività onirica non solo ci può dare delle risposte, ma ci dona sollievo – infine immobilizza, contro il tempo, i nostri desideri, l’autentica nostra natura è nei sogni.


La potenza suggestiva di tale messaggio supera ogni sterile diatriba sulle scelte prosodiche o stilistiche, consegnandoci un’opera lucida, certamente non per tutti, ma confezionata con autentica dedizione – quasi devozione – che trasuda dai passaggi più intensi del testo, dal messaggio che si forma nelle risonanze e i rimandi tra una lirica e l’altra, imprimendosi nel lettore più attento.


Non mi resta che consigliare la lettura di questa “Art Nouveau”, restando in attesa, per quel che mi riguarda, di poter vedere quale sarà l’evoluzione di questo autore, che ritengo persino attuale (nonostante le apparenze), e capace di trasmettere più di una occasione di riflessione, davanti alla contemplazione di una bellezza ormai perduta, che appare – forse – senza tempo, ma non irraggiungibile, in un’epoca dove la meccanica del pensiero sembra non avere spazio per gli ideali, ma il cui peso, pur attraverso la dimensione del sogno, può rivitalizzarne il valore più intimo.


Voglio concludere citando il celebre passo dell’Endymion di John Keats, che trovo assolutamente calzante:


A thing of beauty is a joy for ever:

Its loveliness increases; it will never

Pass into nothingness; but still will keep

A bower quiet for us, and a sleep

Full of sweet dreams […]


Mario Famularo

 

È possibile leggere la "Art Nouveau" di Giancarlo Petrella su questo link.

 

1) Chi è Giancarlo Petrella?


È sempre difficile ‘il dirsi’. Essenzialmente mi definisco un lettore e scrittore; le due cose non sono scindibili: quel che leggo spesso è “materia del mio canto”, quel che scrivo viene imbevuto dai miei studi. I miei interessi sono, a parte la poesia, la storia medievale – da un punto di vista simbolico e nobiliare – la cultura Giapponese, la filosofia – non integralmente: sono uno studioso che non riesce a leggersi ‘tutti i filosofi’, in merito posso anticipare un pensiero che si troverà nella parte successiva a L’Art Nouveau: «è segno di un certo decoro, irrinunciabile per un letterato, manifestare più che apprezzamenti per i capolavori, delle critiche per alcuni classici.»


2) Quale il suo rapporto con la poesia?


Da quando ho ‘memoria letteraria’ leggo poesia, ovviamente col tempo i miei gusti sono mutati: prima ero un amante di Dante, Petrarca e Leopardi; ora preferisco l’angoscia e la sensibilità di Tasso e di Foscolo. Adoro inoltre la poesia simbolista francese, Lautréamont e Mallarmé in primis, oltre che Proust – che considero un poeta. Trovo comunque di una poeticità disarmante molte pagine di Mishima. Mi preme sottolineare l’importanza di Pound nella mia formazione poetica, non a caso è una delle mie «guide» nel poema che sto stendendo.


3) E con la tradizione?


Ho sempre ritenuto di scrivere in maniera classica, pur se con varianti consapevoli. Certamente non utilizzo un linguaggio atavico in maniera coatta, anzi – quando è possibile – impiego un neologismo. All’apparenza sembrano versi neoclassici quelli che si trovano nei miei lavori, ma v’è una diversa concezione del verso: in pittura Dalí ha riportato in auge la tecnica di Raffaello, eppure non è certamente un uomo del Rinascimento.


4) Qual è il rapporto, infine, con la bellezza?


L’arte è bellezza, è ciò che risveglia l’anima dalle bassezze della vita. Sono conscio dei dibatti post ottocenteschi e contemporanei secondo cui l’arte debba solo comunicare o tutto ciò che comunica stati d’animo veementi possa considerarsi arte, ma la vera Arte è ciò che supera l’atto comunicativo, e diviene fruibile per culture diverse. Altrimenti, come si potrebbe provar un piacere per una poesia di un versificatore scritta secoli or sono casomai in un’altra nazione totalmente diversa dalla nostra? Si può comunicare anche col ‘semplice’ linguaggio quotidiano, ed è quel che si fa; l’arte e la bellezza sono altra cosa.


5) Come giustificheresti le scelte estetiche nei tuoi versi? E quelle formali? Quanto è importante l’aspetto ritmico ed eufonico nei tuoi versi?


Si spiegano da sé, cioè se è una composizione ben riuscita, ben fatta, avrà le sue ragioni che possono essere percepite da chi “ha occhi che vedono”. L’aspetto ritmico è talvolta così importante da sembrare un mio verso semplicemente una musica composta con parole, ma ovviamente possiedo un orecchio diverso dalla maggior parte dei lettori per i quali i versi sono musicali se hanno delle rime, se il tempo della lettura coincide con l’immediata comprensione.


6) Nella prefazione si parla di onore. In cosa si differenzia l’onore dello scrittore da quello del lettore?


C’è una reale differenza? Chi legge accetta di divenire parte dell’autore, chi scrive accetta che un lettore fruisca di sensazioni altrui. L’onore potrebbe considerarsi come costanza, ma quel che percepisco con la parola onore è fedeltà; ho scritto, in un lavoro poetico che sta per essere compiuto, «la fedeltà non si misura», neppure l’onore. V’è un’amicizia segreta fra il lettore e l’autore, se per amicizia si intende la pura condivisione dei propri pensieri.


7) Sempre nella prefazione spieghi di aver preferito endecasillabi con accenti fissi non canonici “per depotenziare l’endecasillabo canonico a maiore e a minore” – a me è sembrata una volontà molto novecentesca, e mi chiedo: sono davvero così potenti da meritare un riferimento diretto, a tuo avviso?


Chi inizia a scrivere in endecasillabi deve conoscere molte cose; chi inizia a studiare composizione non può non conoscere le chiavi o le scale. È pur vero che se uno possiede un ottimo orecchio, non abbisogna – nei limiti del possibile – di tanti manuali e percepirà da sé le differenze dei versi. L’endecasillabo canonico credo sia saturo di idee e rischia di divenire monotono se uno non possiede una grande padronanza stilistica, bisogna ritornare alla totale sperimentazione nella metrica – qui ritorna il mio amore per Pound, che componeva i suoi versi con un laborio costante. Inoltre, l’impiego degli endecasillabi presentanti schemi metrici fissi può facilitare il sapere dove posizionare le parole, come in una fuga molto è condizionato dalle prime battute.


8) Parliamo dell’aspetto musicale dell’opera. Le analogie con l’esecuzione musicale sono diverse: a che genere di opera musicale paragoneresti il tuo poema, e perché?


Forse una Sinfonia di Mahler – ove classicismo, inquietudini moderne, fantasie paesaggistiche e foriere si mescolano – potrebbe far comprendere le mie intenzioni poetiche.


9) “Al vivere inutile il conto; né de la ratio lo sguardo abbisogna” – quanto è presente l’aspetto tecnico nei tuoi versi, per quale ragione e a che fine?


Ci fu un tempo in cui ritenni che la mia poesia potesse sembrare, persino a un ottimo lettore, un esercizio o un virtuosismo; ma rileggendo con il senno di poi e avendo apprezzamenti da studiosi di diversi campi o con un diverso approccio ho capito che la mia tecnica poetica sussiste, ma non è la chiave di volta dell’intera mia produzione. È credenza di molti che espressioni a loro giudizio arcaiche, ma che personalmente ritengo più ‘attuali’ – di fronte alle Grazie del Foscolo sento più familiarità che di fronte alle composizioni di Ungaretti, – siano impiegate per sbalordire. V’è in questa considerazione anche la concezione che nell’arte del verso sia la parola ad essere ‘utilizzata’, e non il valore di essa a dettare la propria presenza; come se si utilizzasse la parola aura per una volontà atavica, e non perché possiede un altro suono, e di conseguenza un altro valore – le parole ne la differiscono da nella, – un altro fenomeno evocativo. A sentirli, costoro che credono nel progresso nella poesia, sarebbe un delitto leggersi gli antichi in quanto antiquati? Per loro, un pittore che dipingesse seguendo uno stile impressionista, sarebbe un emerito imbecille, pur se fosse abile quanto Renoir? Tuttavia ho ricevuto ultimamente anche delle critiche di mancanza di tecnica, di incapacità di gestire il verso. Sempre per anticipare quel che ho scritto, nella prefazione al secondo volume de La Morte del Tempo: «I miei versi non saranno apprezzati perché ripropongo forme tradizionali; non saranno amati dai classicisti puri perché tratto l’endecasillabo con sinalefe, dialefe, inarcature, cesure, accentuazioni diverse rispetto alla tradizione. Molti avranno da ridire sui termini impiegati, molti sulle associazioni, sulle contaminazioni. Pur quel che resta è la poesia così come generata, l’altro è vana parola.» Aggiungo che, come ho detto in un’altra sede: lo scrittore non organizza la forma ed il contenuto sul tavolino, egli li percepisce come unica forma e unico contenuto per lui possibili.


10) Passiamo a un altro argomento. Come definiresti la tua poetica? C’è un legame contenutistico in tutta la tua produzione?


Quando *** lesse alcuni canti de La Morte del Tempo, non mostrò molte riserve sullo stile, ma sugli stili; la costatazione che in essa non vi fosse un unico modo di poetare, ma una moltitudine di concezioni di scritture che, a suo avviso, denunciavano l’incapacità dello scrittore di essere completo, costituiva la ragione delle proprie perplessità. Sostengo esattamente l’opposto; che la costatazione della peculiarità che l’opera sia in sé anche un insieme organico di stili e metriche differenti – le quali rispecchiano la necessità della materia trattata, – costituisce un elogio. Comunque sia, per ora, Art Nouveau rimane il termine più consono, non solo perché arte nuova, o perché le linee, i fiori e le decorazioni sono elementi portanti, viepiù perché portavoce di una tradizione che vede nel futuro dell’arte un sogno del passato. Il legame contenutistico è il tempo, la mia poesia si rivela una battaglia disperata contro il tempo. Che l’Inizio in ogni composizione poetica o filosofica sia fondamentale e spesso ne stabilisca a priori l’importanza è una particolarità che non abbisogna di dimostrazione alcuna; come della peculiarità che qualsiasi opera dica molto di più di quello che v’è scritto. Non è il mio compito interpretarmi, tuttavia sento come un mio dovere rendere impossibile qualsiasi riduttiva e fuorviante interpretazione che la mia opera potrebbe far nascere. L’opera inizia con un fenomeno fondamentale non solo per la vita umana, ma, parlando per simboli, per il mondo intero: il desiderio. Il desio è l’inizio di tutto e giustamente coincide con l’inizio stesso dell’opera. Il desiderio è senza fondamento, dunque si dà immediatamente, con la stessa immediatezza con cui si dà il cambiamento; per tale ragione metamorfosi e desiderio sono i protagonisti del primo canto. Desiderio che si identifica con una fanciulla danzante, a cui persino il «vuoto» è «impaziente»; desiderio che deve eliminare ogni pudore e mostrarsi nella propria nudità. Desiderio che giustifica la metamorfosi dello spazio che «afflitto» dalla mancanza della sua assenza diviene «puro» e «roseo» come l’incarnato di una fanciulla che danza. Il desiderio altera la natura dello spazio stesso. Invece, un pacato erotismo è uno dei temi del secondo canto; nel quale si apprende come la natura, pur se evocata continuamente, risulta essere un corollario per l’emozione: essa ha valore solo in quanto oggetto, stimolo, alla manifestazione degli stati d’animo? La filosofia, come accade nel mondo, nel testo è sempre postuma: si danno prima le immagini attraverso i suoni (le sensazioni attraverso altre sensazioni), per mezzo di una sempre ricercata eleganza musicale, rispetto ai pensieri; come nella vita, i pensieri possono solo commentare. Tempo, eternità, sogno, immaginazione, desiderio e una natura simbolica sono i temi dei miei versi; ovvero, dal primo canto del secondo volume: «La spirale or si mostra; il desiderio,/l’amore, la giovinezza, la morte,/l’arte, l’Eterno, il dolore, la fede,/la fantasia, l’ïo e il verbo, l’istante,/la memoria stendono lo spazio ove/la spirale giace: la tracotanza/di significati una valle crea/d’abisso ove la spirale si stende. »


11) Qual è il tuo rapporto con il novecento e la contemporaneità?


Per me il Novecento poetico occidentale si riduce a Pound e a Valery, non sono un lettore troppo curioso, preferisco tornare sugli autori che conosco. Non a caso interi versi di Foscolo o di Tasso li ho quasi appresi a memoria. Almeno che uno non abbia l’intelletto di Pound, dubito che si possano realmente leggere ‘tutti i poeti’ con la medesima attenzione e che li si possa interiorizzare. Qualcuno potrebbe sostenere che sia stato il mio tecnicismo, la mia febbrilità metrica a non farmi interessare alla poesia del Novecento, ma credo sia stata per un’incapacità comunicativa: i miei temi sarebbero stati più apprezzati da una cultura diversa, in cui l’elemento poetico non consiste in un passatempo, né in un vaticinare o in un criticare, ma in un essere meditato da pochi: una cella di un tempio che tutti sanno dov’è, ma a cui nessuno può accedere. L’interno della Ka’ba.


12) “questa odiosa morte è solo un pensiero, non altro: non si ha d’essa un’esperienza” – da questo passaggio (e molti altri) è evidente un’influenza filosofica nei tuoi versi. Hai voluto dare una specifica impronta di pensiero o è solo un’influenza generica?


Domande che richiederebbero quasi un saggio a sé. Certo è che avendo studiato per molti anni filosofia, qualcosa emerge; ma non mi definirei un allievo di qualcuno, né tantomeno etichetterei i miei pensieri con l’espressione infantile “ho la mia filosofia”. Il fatto è che su alcuni aspetti della vita ho realmente dei pensieri, su altri non me ne sono posti e dunque rimango in silenzio. Certo è che La Morte del Tempo, nella sua prima stesura, e in questa che sto per continuare, ha una visione del mondo ma credo che travalichi la semplice razionalità, non a caso è stato detto dei miei versi che «Chiunque ad una prima sommaria lettura capirebbe che il libro si fonda su una totale programmatica svalutazione dell’attività umana del pensiero».


13) Il vuoto, l’assenza, il nulla: “il dir protegge l’essere dal nulla” – “nulla si salva, neppur l’oblio stesso”. Qual è il tuo rapporto con il pensiero esistenzialista e con il generale moto nichilista del secolo trascorso e del nostro tempo?


Forse stupirà quel che mi appresto a dire, ma non sono un amante della filosofia esistenzialista, né nella versione ‘letteraria’ di Sartre, né in quella potente e monolitica di Heidegger. Il nulla a cui mi rifaccio è un nulla vero, sentito, percepito, non ragionato o postulato; è un nulla più simile a quello espresso in qualche pagina di Leopardi, se vogliamo rimanere nel mondo occidentale. Altrimenti è sempre dall’Oriente che possiamo trarre insegnamenti: la saggezza proviene da lì.


14) “ma ‘l mio sogno si è ribellato” – “e gli sguardi degli uomini si conversero ai sogni” – “bellezza assecondando; impera un sogno” – “pel sogno le cose grazia e bellezza formano” potrei andare avanti, ma credo di essere stato chiaro. Qual è il tuo rapporto con il sogno, e che valore ha esso nella tua opera?


Il sogno si rivela l’unico modo per sfuggire al quotidiano, alla banalità delle cose. Qualunque genio di fronte al proprio maggiordomo appare un piccolo borghese. Il sogno ci condiziona nelle scelte, l’attività onirica non solo ci può dare delle risposte, ma ci dona sollievo – infine immobilizza, contro il tempo, i nostri desideri, l’autentica nostra natura è nei sogni.


15) Cosa pensi della situazione della poesia contemporanea in Italia? E all’estero?


Un disastro, non per il vetusto detto “erano migliori gli antichi”, ma perché i poeti se ci sono, sono in silenzio e vivono la poesia o come un passatempo o come un salotto letterario (il che è la stessa cosa). I peggiori, invece, ci guadagnano: scrivono prodotti che servono alle case editrici per poter sostenere di dar spazio “anche” alla poesia. Che la scienza non sia una speculazione sul nulla, una speculazione su realtà esclusivamente umane, è un dato di fatto che l’uomo comune tiene in sé sempre come vivo. Il processo tecnologico, così «tangibile», dimostra inesorabilmente che la scienza non consiste semplicemente in una dottrina umana, in un insieme di teorie convenzionali che l’agire ha reso vincolanti (mutandole in «convinzioni»), ma in un sistema articolato di enunciati pertinenti alla realtà, inferiti da essa. Il processo tecnologico dimostra il valore ontologico della scienza; negli stessi termini la grammatica, il linguaggio, dimostra l’esistenza in essa di un ordine: potrebbe anche darsi che il mondo sia totalmente un regno del caos in eterno, ma la sintassi non declinerebbe. Non v’è una forma d’espressione più razionale di quella poetica, giacché in essa non solo il cosiddetto mondo oggettivo è presente come dileguato, ma in quanto rifonda un «proprio» logico. I poeti hanno costituito, in molte culture, il reale valore delle cose; si potrebbe osservare che se qualcosa possiede un valore essa è già-stata decantata (da qui lo sconforto per questa società odierna che inverte i valori).


16) Credi nella mercificazione della poesia? Meglio cento libri venduti a buon prezzo o mille libri letti senza alcun ritorno economico?


La cultura e il denaro non dovrebbero mai unirsi, un autentico maestro non si fa pagare perché riconosce che l’allievo merita gli insegnamenti. I libri dovrebbero essere fruibili, si dovrebbero pagare solo quelli pregiati, cioè il lato strettamente tipografico. I lettori li preferisco studiosi dei miei versi, piuttosto che “tanti” e distratti; il canto su Archia mostra pienamente il mio pensiero a riguardo.


17) A cosa serve la poesia nel 2016?


“A nulla. Come del resto la vita. Ma in questo nichilismo è bello sognare con accenni di lira.” Avrei potuto dire, ma mi vengono in mente i passi di Giorgio Colli in cui sostiene che esistono uomini che compiono le cose per utilità, ed altri che non riescono a comprendere il concetto di utilità, ma sono come mossi da spiriti – una visione semitragica dell’esistere. Ecco come ho sintetizzato questa visione nei miei versi: «[…]Pur è più certo che uomini/nascan diversi, che maggiore peso/all’utile pensiero danno alcuni;/mentre altri, non conoscendolo, compiono/cose sospinti dal nobile petto,/così come chi legge senza fine,/così come chi canta senza teatri,/così come chi studia e custodisce.» Si può dubitare delle leggi naturali, e gli scettici lo fanno quotidianamente come anche chi aspira alla scoperta di nuove teorie scientifiche; ma non si può dubitare di che la vita degli uomini abbia avuto un valore proprio col nascere delle arti, dell’arte per eccellenza; ma non si può dubitare che la poesia abbia custodito e tramandato lo spirito dei popoli (giacché possiamo gustarci il mondo dei Greci o degli Indiani o di qualsiasi altra civiltà grazie ai loro monumenti; ma qualche verso poetico dei loro poemi, dei loro testi sacri, dei loro canti popolari svela molto di più sulla loro essenza, sul come vedevano il mondo – il proprio mondo che rivive in quegli scritti – rispetto ad un complesso di rovine in rovina). Nel quindicesimo canto della prima stesura de La Morte del Tempo scrissi: «Omero, che sovra li altri com’aquila vola, nominò per la prima volta Achille glorioso, dando al mondo una ragione d’essere.» Invano si definisce la poesia come arte irrazionale, giacché un passo di Lautréamont contiene più raziocinio di “molti discorsi sensati”: in quel passo la razionalità è la vita, l’impulso ad esistere. Solo coloro che non hanno mai scritto un sonetto non comprendono qual difficoltà un singolo verso possa donare (Valéry docet); un poeta della portata di Pound ha avuto il coraggio di richiamare all’attenzione la poesia nel suo essere scienza, con tanto di metodo e di “sapere d’apprendere”, e il verso libero non in quanto forma caotica di parole gettate a caso, bensì costituzione, rispetto al verso metrico classico, di nuove prospettive metriche: chi padroneggia il verso “classico” può permettersi di disfarlo. Ad una macchina è possibile insegnarle il metodo matematico, giacché esso è limitato e, per l’appunto, meccanico, ma non mostrarle la bellezza di un verso; e questo pone termine alle diatribe su cosa realmente sia il valore.

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