"Il tempo che si forma" di Luca Lanfredi - a cura di Luca Cenacchi
È difficile cercare di commentare il libro di Luca Lanfredi, Il Tempo che si forma, L’Arcolaio 2015. Sin dalle prime pagine questo è un libro che manifesta una forte indipendenza, non volendo essere intrappolato nella gabbia di interpretazioni facili, e quindi si aggrappa all’indefinito per rinnovarsi continuamente in n sfaccettature. Dunque l’essenza del poetare dell’autore, come suggerisce l’editore stesso, può essere solo intuita abbandonandosi alle sue ombre.
Lanfredi ha uno stile pulito che fa leva su un lessico frugale per presentare l’immediatezza di un istante in cui, talvolta, i limiti della realtà vengono “sfocati”, come dice il prefatore, da un orizzonte interiore, il quale poi prende il sopravvento. Questa tuttavia, non è la sola declinazione che gli istanti lanfrediani assumono. Altre volte, proprio da questa dimensione intima, finiscono per riemergere dalla memoria dettagli significativi della realtà che si scorciano, da una parte, in una veloce pennellata “elencativa” (cfr. L’Impazienza), dall’altra strutturano autonomamente il componimento (cfr. L’ottavo mese dell’anno). Oltre questo sento la necessità di rimarcare che, in alcuni componimenti, tra la dimensione reale e quella emotiva c’è uno iato: una separazione manifesta non solo dalla divisione strofica, ma anche dal cambio repentino del discorso, che improvvisamente si chiude in se stesso, nel senso che si astrae dalla descrizione (cfr. L’Accento).
(l’Accento)
Si è come gli alberi infilati, questo si. Sotto, l’asfalto che diradica e indosso le cortecce da sbalzare. Dicevamo di noi, un tempo, con quell’accento allegro che colora e solo la realtà può fare lingua.
Proprio in questo componimento si nota una certa tendenza “sapienziale” e assertiva nella prima strofa ed è come se l’autore stesse dialogando, attraverso il ricordo, per rimarcare quel che credo si possa chiamare una rivelazione. Infatti lungo tutto il libro l’io lirico scompare e riappare nella trama dei dialoghi, di rievocazioni, rivelazioni e asserzioni che costituiscono costanti di un “flusso narrativo intermittente”.
Questa incostanza, detta narrativa solo per intendersi, tende a disfare la dimensione temporale per come la conosciamo, al fine di pervenire a una dimensione intima, frutto di quella che ritengo sia una selezione di oggetti, gesti e corpi all’interno delle luci e delle ombre di ricordi o momenti significativi, che poi vengono dilatati lungo tutta la durata del componimento in quel che talvolta pare un eterno presente, nonostante le precisazioni temporali dell’autore. Perché alla fine quando Lanfredi ricorda, in realtà rimugina sempre in funzione non tanto del presente, ma di una immediatezza: per questo il lettore – almeno io – ha sempre l’impressione che la specificazione temporale rimanga nei confini della parola e quindi, all’interno del testo, non abbia alcuna valenza o effetto. Questo entrare e uscire da sé impone sempre un “momento” interiore che distrugge la normale esposizione / concatenazione delle azioni, danneggiando irrimediabilmente la percezione del tessuto temporale. Forse è proprio questo, alla fine, il tempo che si forma: ovvero quella dimensione indefinita e interiore dell’immediatezza, ma non inconscia, in cui si addensa la poesia.
Altresì, il momento del concepimento dell’azione per, forse, sfuggire, a quello “slabbrato sentimento dell’istante” che obbliga a “parlare in sottrazione” e in cui si dispiega inevitabilmente il nulla. Un certo sentimento che riattualizza, se si vuole, certi echi keatsiani, cui Lanfredi dimostra di non essere estraneo.
Quella, per dirla con le parole dell’autore, “eterna indecisione” in cui si inscrivono “la porta leggermente schiusa”, “il penultimo confine dell’autunno”, ecc.
Alla fine ritornare insistentemente su eventi già compiuti, oggetti o gesti, cos’è se non il tentativo di estendere i confini della loro esistenza?
Detto questo è necessario attestare la caratteristica esistenziale che percorre il libro e ha il suo picco più puro ne “Lo spazio geografico”: sezione sospesa tra le tinte lugubri della coscienza del vuoto, del nulla e della morte; sezione in cui l’autore non nasconde una certa positività trincerata dietro la significatività di vari particolari “e, poi attento al sorgere / dell’ora, il quotidiano gesto / che stupisce”.
Gesti attraverso i quali si tenta sempre di testare i limiti della condizione in cui ci si trova assieme al mondo. In queste pagine si assoda l’importanza di questo elemento significativo, fatto poesia, il quale sembra avere valenza assoluta per l’autore rispetto alle parole / segni, attraverso una rievocazione estremamente suggestiva: “il segno del vino che bevemmo / rosso le labbra /ci attramonta”.
(la Presenza) inoltre l’esplosione questa notte, rancorosa, dell’una e venticinque che mi ha aperto gli occhi, ma accanto già la pace del tuo traverso ridere sognando. E attorno al giorno la risicata gioia del panneggiare rosso degli incroci e il minimo cortile, ingigantito da un azzurro – sole.
Ne “la pronuncia del nome” sembra che l’assenza si configuri come assenza degli altri, quegli sguardi trincerati dietro ai corpi, e si addensa quindi la necessità di vedere cosa rimane dopo l’apparenza: “la sete, che rimane tra le dita / quando l’aria ne asciuga / l’apparenza”.
Per la necessità di stabilizzarsi, allora “si compilano le liste, sai, per una necessità profonda: / scrostare i ritratti che stiamo interpretando / doppiare il movimento inseguito dai cronisti”.
A quel che si trova dopo la nebbia ci si aggrappa saldamente, come in quel luogo che pare irreale (in extremis) dove si afferma definitivamente il primato dell’esistere sopra la parola: “Forse, come nel posto dove tutto / esiste senza una parola, dove il tempo / scola senza una nuova sosta. / Di quello starsene seduti dentro il / giorno: il margine riarso della strada chiusa, / la mano tesa col segno d’infinito.”
Ma quell’eterna indecisione fuga solo la domanda senza rispondervi adeguatamente. Allora alla fine di tutto cosa rimane? Quello che rimane è l’istante significativo, come si è già detto, composto da oggetti, corpi, gesti e, perché no, anche luci e ombre.
Questo non è tanto l’esistere, ma l’esistenza depurata dalla contingenza: il particolare significativo che si sbozza sullo sfondo di un colpo d’occhio, ma facciamolo dire all’autore:
(e un biglietto della lotteria) E ancora (lo sai?), ho bisogno dei tetti che da quassù si vedono e di quel cielo provvido che serrano così, come l’andare roncato dei tuoi fianchi, come le gru e le antenne che si sbozzano sullo sfondo di questo colpo d’occhio. ci sarà, la fortuna – dimmi? (Dimmi): ne avremo?
Luca Cenacchi
Luca Lanfredi è nato nel 1964. Abita e lavora a Brescia. La sua prima raccolta è A mezza luce (Clepsydra edizioni). Con L'Arcolaio, nel 2015, pubblica Il Tempo che si Forma con cui ottiene diversi successi, tra cui spiccano: secondo classificato al premio Città di Como 2016, finalista al premio Solstizio dell'associazione libero de libero.
Luca Cenacchi è nato a Forlì nel 1990. Nel 2011 la poesia Laocoonte – ovvero di se stesso è stata selezionata per essere pubblicata nell’antologia del Premio letterario Ottavio Nipoti – Ferrera Erbognone. Ha contribuito a fondare e sviluppare il forum letterario i Gladiatori della penna. I suoi testi sono stati presentati nella serata Arcadie Invisibili all’interno del progetto La Bottega della Parola, organizzata dalla Associazione culturale Poliedrica di Forlì. Nel 2016 il blog letterario Kerberos ha pubblicato un articolo critico su alcune sue poesie inedite, Valore-contenuto e valore-bellezza: il senso del sacro attraverso la trasfigurazione dell’immagine e la neutralità del messaggio. Nel mese di Aprile dello stesso anno tre sue poesie (La Perla, Anoressica e Francesca) sono state selezionate per essere inserite nella antologia La mia sfida al male, pubblicata a seguito della terza edizione del concorso letterario Come Farfalle Diventeremo Immensità, in memoria di Katia Zattoni e Guido Passini, indetto da Fara Editore. Aspirante critico letterario, è ansioso di contribuire al dibattito sulla poesia contemporanea attraverso la rubrica critica Gli Specchi Critici realizzata in collaborazione con il blog Kerberos Bookstore, Fara Poesia e L'Arcolaio. Nel 2016 è stato giudice presso il concorso Faraexcelsoir 2016. Ha partecipato alla rassegna poetica di Pianetto Poeti alla finestra presentando una serie di poesie inedite. Per ulteriori informazioni sul progetto: glispecchicritici@gmail.com