Il Beat toscano di Massimiliano Bardotti - di Luca Cenacchi
“L’uso originario nel linguaggio di strada significava quindi esausto, che ha toccato il fondo del mondo, e da li guarda fuori o in alto, insonne, con gli occhi ben aperti, percettivo, respinto dalla società, che non ha nessuno su cui contare […] In molti ambienti, beat era quindi interpretato con il senso di svuotato, esausto e al tempo stesso aperto e ricettivo alla visione. Un terzo significato di beat, come in beatifico, fu formulato in pubblico da Kerouac nel 1959 […] Kerouac cercò di indicare il senso corretto della parola sottolineandone il nesso con parole come beatitudine e beatifico – la necessaria beatness o oscurità che precede l’aprirsi alla luce, al superamento dell’io, al dare spazio all’illuminazione religiosa. […] Alcuni ideali essenziali del movimento artistico originario […] un interesse per l’indagine della natura della coscienza, che ha condotto alla conoscenza del pensiero orientale, alla pratica della meditazione all’arte come manifestazione dell’esplorazione della coscienza e, come conseguenza, alla liberazione spirituale. […] L’arte è concepita come pratica sacra, con un atteggiamento sacramentale verso ciascuno di noi in quanto personaggi. Il tono di schiettezza emerge con buonumore e con una disinvolta franchezza spontanea, l’immediatezza non premeditata nella vita e nell’arte […] e infine la rivalutazione dell’eros, l’atteggiamento sacramentale verso la gioia sessuale. Questi sono i temi principali che hanno intessuto tutta l’arte e la poesia e la prosa […]”
premessa di “Allen Ginsberg” a “The beat Book” A cura di ”Anne Waldman”
In virtù di una più agile e lineare presentazione dei nessi tematici dei lavori di Massimiliano Bardotti ("Fra le Gambe della Sopravvivenza", Thauma 2011 (finalista al Premio Mario Luzi), "A Cieli Aperti", Thauma 2013 e "L’Abbraccio", Fara Editore 2015, opera selezionata dalla giuria del concorso Faraexcelsior nello stesso anno) ho ritenuto necessario prendere le mosse da questa premessa di Allen Ginsberg che delinea, in maniera lucida e sintetica, il discorso sulla beat generation.
La poetica di M. Bardotti ha esiti eterogenei e di difficile catalogazione, ma condivide alcune tendenze, per lo più ideologiche Beat. In particolare, l’autore è vicino “all’arte come pratica sacra, alla rivalutazione dell’eros e l’atteggiamento sacramentale verso la gioia sessuale”. Temi che ha sviluppato, nelle “stilizzazioni” più mature, con una sensibilità tematico-tecnica legata alla cultura italiana e non.
"Fra le Gambe della Sopravvivenza”, diviso in sette parti (lieve, inquietudine, contro-verso, incessante, requiem, risorgere, memoria e speranza), incarna toni corrosivi di critica alla società massificata, dove le immagini, carattere fondante di altre poesie, vengono dissolte in favore di una soluzione cronachistica che se, da una parte, dialoga con il lettore; dall’altra, nella sua icasticità tagliente, quasi fosse una rapsodia nevrotica di testate giornalistiche, denuncia crimini e squallore che man mano passa in rassegna.
“Fuga di cervelli verso la civiltà. / la ricerca del nuovo porta esaurimenti nervosi. / nel paese delle meraviglie. / Schiaffi sulla nuca invece delle carezze. / accanimento terapeutico. / Chi paga il conto in sospeso di dio? / Nelle prigioni cattoliche sentinelle col cilicio. / In libertà provvisoria tutti i condannati a morte. / Controllare le nascite / bambini prefabbricati. […]”.
Negli aspetti spigolosi della retorica di questo lavoro si delineano già le fondamenta tematiche su cui si baseranno le esperienze più mature.
L’ideale della figura poetica che già da questa raccolta va delineandosi, similmente a Emanuel Carnevali, è quella di un escluso: colui che vive ai limiti della società e pur la osserva criticamente in lontananza.
Tuttavia, lungo il percorso di questo libro, Bardotti sembra coesistere, il più delle volte a malincuore, con la stessa realtà che ripudia. Quindi, nonostante sottolinei la sua presa di distanza, essa rimane tuttavia su un piano progettuale.
“dentro / ci sono io / e un film di David Linch. / Ma fuori è anche la piazza / la manifestazione / i colori della pace / nel tempo della guerra. / fuori è l’inciviltà globalizzata / fuori i serial killer fanno politica.”
Un’incoerenza necessaria, perché è fra lo squallore che Bardotti riesce a ritagliare uno spazio per la sua visione della bellezza come innocenza pre-strutturata (dalla contemporaneità). Visione che se, da una parte, si sostanzia in un “presente” di simbologia visiva della delicatezza pura (la sera, la notte, il limbo fra fine della notte e inizio del mattino, la carezza, la neve, la donna e i suoi candori, la natura generatrice, l’atto sessuale, ecc.), dall’altra viene espressa meglio e più sinteticamente nel ricordo dell’infanzia: quel momento, quel limbo se vogliamo, in cui la meraviglia magica possiede gli occhi del bambino, il quale, attraverso di essa, codifica la realtà.
Abbandonati i toni dissacratori e critici, la sintesi più alta e originale della raccolta vede la dimensione infantile, rievocata attraverso il ricordo, manifestarsi in slanci di visionaria ed intima quotidianità:
“Una mano / rammenda lo strappo tra notte e mattino. / Quest’ora io vivo. / Qui mi accorsi della morte / sulla bocca di mia nonna. / Nella camera accanto / con un soffio / abbandonò la povertà. / Prese il volo / ineffabile / verso il Segreto. / Da quella notte / ogni notte / la sua mano sapiente / rammenda lo strappo tra notte e mattino / ed io / seguo la linea che traccia / il suo ago sottile.”
Massimiliano Bardotti è dunque il bambino che vive ai limiti dello squallore, protetto dalla sua bellezza ingenua, la quale è fonte della sua massima forza. Il poeta che per perpetuare e rievocare la magia della “stasi infantile” sceglie di vivere nel limbo fra notte e mattino, attraverso il quale, anche se per poco, può ritornare a vivere per un istante, pacificando gli slanci corrosivi in quella dimensione sacralmente magica e visionaria di limbo che è l’infanzia.
Se “Fra Le Gambe della Sopravvivenza” ci ha lasciato in quel limbo di ricordi, “A Cieli Aperti” riporta il lettore nella dimensione del reale. La prima parte del libro, “A Cieli Disperati”, si presenta come un poemetto, strutturato in sette parti, che alterna a una versificazione breve, con ritmo febbricitante e martellante, una versificazione più distesa, man mano che ci si avvicina al sonno rivelatore.
Nel suo complesso “A Cieli Disperati” riprende i toni di sofferente denuncia della raccolta precedente, chiudendo nel canovaccio della formula “A Cieli” l’universo in cui si svolge non solo il conflitto umano, ma anche il conflitto residuo che l’autore ha con l’umanità.
Anche se i toni sono ancora pervasi da una corrosività polemica, si nota già, anche a partire da questa prima parte, come l’autore veda l’umanità: come un blocco unico da cui non si riesce a staccarsi totalmente. Nel procedere forsennato del poemetto, infatti, riaffiora dalla mescolanza di eventi esterni il vissuto personale dell’autore.
Ciò è importante, perché è in questo poemetto che l’autore riunisce, sotto un unico cielo, la totalità delle miserie umane. In questo impianto germina, dunque, la volontà di ambientare il tutto in un unico spazio; operazione che sarà la base delle proposte della raccolta successiva.
Riaffiorano così le simbologie già annunciate precedentemente e, talvolta, alcune vengono sviluppate con maggiore coscienza (è il caso dell’apocalisse, la quale viene rappresentata compiutamente, in questa prima parte del libro, come fine dell’umanità, ma per converso anche come liberazione dell’autore).
La carezza e la purezza, assieme alla figura materna, prima elementi che godevano di una propria autonomia, ora vengono sporcati dal fango delle miserie umane. La figura del bambino riaffiora qua e la in una maniera apparentemente maleducata:
“Posso leggerti queste pagine / leccarti fa le gambe / i seni/ i capezzoli”
la quale tuttavia non è altro che la maniera priva di filtri propria dei bambini. Egli non può far altro che immergersi, talvolta in modo poco elegante e goffo, nella vita allo stesso modo in cui, anche nella raccolta precedente, ha affondato le mani nella marmellata:
“Affondare in queste specie di serenità con mani / sporche di marmellata alle mele”
Nella settima parte, l’autore saluta il mondo per dipartire e pervenire in una dimensione di onirica rivelazione dei “Cieli Sperati”. Momento in cui si arriva a una sorta di nuova declinazione del limbo (notte-mattino) e si manifesta il miracolo e la meraviglia verso la creazione in cui anche gli opposti, nei loro conflitti, sembrano fondersi in un’armonia superiore:
“ora si giunge ai cieli sperati / capovolti gli alberi e i prati. / Ora la Pioggia si appresta a salire / anime aperte a bagnarsi di luce. / Qui tutto nasce trabocca sboccia oltrepassa. / siamo in una regione rigogliosa”
Una specie di Eden, dunque, governato da una natura tutta femminile:
“Natura scorbutica femmina / al pari d’ogni dio nostro”, un giardino in cui può brillare “Finalmente sole di mezzanotte”.
Alla luce delle raccolte precedenti si può comprendere come le quattro parti che compongono il libro “L’Abbraccio” (Patria notte, Febbre di Neve, Gli Esclusi, La Vita Vista da Qui) ereditino, dalle altre raccolte, una simbologia che viene sviluppata nel canovaccio programmatico dell’abbraccio.
La versificazione si piega alle necessità espressive dell’autore: da una parte è frammentata, per far fronte a un’esigenza programmatica di raccontare o definire piuttosto che descrivere.
Frammentazione cucita assieme da un procedere elencativo di aggettivi o sostantivi in assonanza e rima fra loro (sulla scorta di Campana).
Ciò imprime un ritmo quasi sospirato, ma estremamente calmo, anche se non manca di essere affrettato, qua e la, da enjambement.
Dall’altra, si distende per reggere le descrizione del poeta bambino che riempie, trasfigurando, la quotidianità con elementi magici e fantastici. Nella poesia di apertura, il poeta si stabilisce nella notte: nuova dimensione di limbo, festante di vita e memorie, in cui egli entra in comunione con gli elementi naturali, trasformandosi in essi.
In questo momento, sopra alla consueta simbologia della “lieve carezza” presentata precedentemente, si sviluppa e addensa la figura della Fata, conservatrice dello slancio vitale notturno e della speranza, nonché dell’individuo stesso: poiché “ciò che siamo è una promessa”.
La Fata compie la sua magia dopo che i sogni si sono perduti al primo sbadiglio durante il mattino:
“Buon giorno mia piccola fata / acrobata fra tavole calde / esaudisci gli altrui desideri / La sera / ti prende rubina. / Altrove / con occhi di maga / inventi la vita. / Pensi a ogni cosa conosciuta / e la elimini. / In quello che resta / l’universo si espande / e le promesse si mantengono.”
Il poeta, attraverso la notte, si prefigge di vivere quel momento di limbo di eterna incompiutezza dell’atto, quella promessa, che, precedentemente, era simboleggiata nel momento in cui la notte si faceva mattino e che ora è riproposta in una gamma di declinazioni più varie:
“Il principio / la fine / ci stiamo in mezzo”
In questo senso si sviluppa una specie di estetica dell’attesa, in cui Bardotti trova confortante somiglianza con la sua natura di “promessa” e di cui si meraviglia.
Anche la sofferenza viene riprogrammata e, in “Febbre di Neve”, essa diviene quel fermento vitale che, se pur testimonia la sofferenza di un individuo, allo stesso tempo ne sottolinea la lotta per la sopravvivenza.
In questa seconda parte si ripropone un ritmo febbricitante, che dimostra di essersi lasciato alle spalle gli eccessi corrosivi delle raccolte precedenti. In questo tumulto si ripropone la figura femminile, a cui il poeta tende come un balsamo, la quale incarna il candore e la leggiadria, oltre che essere promessa e speranza della vita stessa.
Ogni poeta, dunque, soffre, ma soffrendo si rafforza e sottolinea la sua vitalità fuori dal comune. Nella terza parte del libro, “gli esclusi”, si struttura definitivamente la figura e funzione del poeta rispetto alla società. Il poeta è l’eterno bambino, il quale abita nella notte; egli soffre e, soffrendo, non si rassegna più al suo destino, ma lotta e alimenta la sua febbricitante vitalità di neve: pura come lui. Così diventa un escluso che, idealmente, vive ai bordi della società, con cui però entra in conflitto. Non riuscendo a distaccarsene, con essa ingaggia una lotta in cui egli cerca di sovvertirla e lei di appiattire il suo estro creativo conformandolo attraverso processi educativi. Il poeta, qui inteso in senso generico, dunque, è colui che ha sviluppato quella facoltà immaginativa propria dei bambini e che in sua virtù si assurge a creatore di universi e mondi interiori. Nell’abbraccio, dunque, l’autore lancia il suo gesto sovversivo, in cui punta a riunire tutti questi abitanti della notte (che siano già vissuti o viventi) per innalzare il loro canto di protesta inascoltato, e profetizza il loro esodo:
“Per andarcene useremo astronavi. / sui marciapiedi del tempo faremo capriole / per restare bambini/ per non peggiorare.”
Nell’ultima parte del libro, “La Vita vista da qui” viene riscoperto Dio nelle piccole cose, nella bellezza sovversiva creata dai poeti e, più in generale nell’indefinito di quella “intera pianura di orizzonti che si / rincorrono”, perché “Non c’è gloria sul traguardo per chi ama la / creazione”, per sfociare nella dichiarazione di amore generale che vuole abbattere il fattore di estraneità tra gli esseri umani: “Eppure ci scambiano nelle culle. / Non conoscerò mai mia madre / Né tu la tua. Siamo fratelli. / Ti amerò per sempre”
In questa ultima istanza, quel noi che percorre tutta la raccolta, quell’abbraccio, viene allargato all’intera umanità, e finisce per essere atto e codice della lingua dell’amore, che si andava cercando in tutte le raccolte.
Luca Cenacchi
Fra le Gambe della sopravvivenza Thauma, 2011 – esaurito
A Cieli Aperti – Thauma 2013 – esaurito
Massimiliano Bardotti è nato a Castelfiorentino, dove vive, il 18/10/1976. Nel 2011 è uscito il suo libro “Fra le Gambe della Sopravvivenza” (Thauma ed., finalista al Premio Mario Luzi), quinta opera poetica edita. Nel 2013 pubblica “A cieli aperti” (Thauma). In Collaborazione con Genny Carusi cura la rubrica “IO SONO TE TU SEI ME”, sulla rivista on-line “L’Olandese Voltante”. Ideatore e docente del laboratorio di scrittura ri-creativa “Cut-up, la Sartoria delle Parole”. Con Giacomo Lazzeri e Sara Giomi (musicisti) porta avanti il progetto “LaMinimaParte”, musica e parole che si incontrano e diventano teatro. È presente in “Letteratura… con i piedi” (Fara 2014) e in numerose altre antologie, oltre che in blog letterari e social network.
Luca Cenacchi è nato a Forlì nel 1990. Nel 2011 la poesia “Laocoonte – ovvero di se stesso” è stata selezionata per essere pubblicata nell’antologia del “Premio letterario Ottavio Nipoti - Ferrera Erbognone”. Ha contribuito a fondare e sviluppare il forum letterario “I Gladiatori della Penna”. Nel 2015 I suoi testi inediti sono stati presentati nella serata “Arcadie Invisibili” all’interno del progetto “La Bottega della Parola” organizzata dalla “Associazione culturale Poliedrica” di Forlì. Nel 2016 il blog letterario “Kerberos” ha scritto un articolo critico di alcune sue poesie inedite “Valore-contenuto e valore-bellezza: il senso del sacro attraverso la trasfigurazione dell’immagine e la neutralità del messaggio”. Nel mese di Aprile dello stesso anno tre sue poesie (“La Perla”, “Anoressica” e “Francesca”) sono state selezionate per essere inserite nella antologia “La mia sfida al male” pubblicata a seguito della terza edizione del concorso letterario “Come Farfalle Diventeremo Immensità ”, in memoria di Katia Zattoni e Guido Passini, indetto da Fara Editore. Aspirante critico letterario, è ansioso di contribuire al dibattito sulla poesia contemporanea attraverso la rubrica critica “Gli Specchi Critici” realizzata in collaborazione con il blog “Kerberos Bookstore” e “Fara Poesia”.