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La vitalità del quotidiano in Filippo Amadei - di Luca Cenacchi

Inauguriamo una rubrica di articoli, in collaborazione con Fara Poesia e Fara Editore, che ha come obiettivo principale quello di mediare in modo chiaro e puntuale, il più profondamente possibile, l’opera poetica contemporanea italiana, nel rispetto delle intenzioni dei singoli autori, che saranno, con il loro consenso, presi in esame.


L’obiettivo è di restituire a ognuno il suo profilo ed inserirlo in un discorso di relazioni storico-stilistiche affinché si riesca a intravedere, durante l’espansione e crescita del progetto, una sorta di mappa, il più possibilmente precisa, delle voci della letteratura odierna, al fine ultimo di alimentare e arricchire il dibattito poetico.


In una prima parte si cercherà di delineare, con strumenti neofenomenologici, in termini di evoluzione tematica e stilistica, il profilo, il più rappresentativo possibile, della visione che il poeta ha della sua poesia.


Successivamente, si affronterà un discorso meno particolare e più generale, cercando di comprendere quest’ultimo in un quadro che parte dalle influenze poetiche del soggetto, per arrivare a delineare le eventuali consonanze che egli intrattiene con l’immaginario odierno; o di come in generale egli si possa situare al suo interno (non necessariamente per consonanza, ma anche per rifiuto o semplicemente come presa di distanza).


Più precisamente il lavoro non termina una volta delineato il profilo poetico, ma continuerà, in una sorta di appendice, in cui si parlerà delle influenze (storiche) di ognuno e, solo dopo che si sarà acquisita una mole di profili sufficiente, si comincerà a mappare le varie voci in relazione fra loro.

Inauguriamo dunque questo ambizioso progetto con due raccolte importanti dell’autore forlivese Filippo Amadei: “Saperti a piedi nudi” e “Oltre le ringhiere”.

– Saperti a Piedi Nudi – Lieto Colle, 2009

La prima volta che Filippo Amadei mi ha parlato sinteticamente delle peculiarità della sua poesia, ha sottolineato la necessità comunicativa cui faceva fronte, la quale si traduceva in un calco della vita, intesa come vissuto.


Il linguaggio si presenta semplice, pulito, senza sbavature artificiose che, altrimenti, intaccherebbero inevitabilmente la fruibilità e l’immediatezza della sua poesia.


Nella seconda raccolta, Saperti a piedi nudi, edita da Lieto Colle nel 2009, ovvero quando l’autore aveva 29 anni, il primo impatto è sicuramente questo.


Il linguaggio semplice subisce raramente delle inarcature, non ci sono particolari complicazioni a livello grammaticale, anzi – i periodi principali di molte poesie sono spesso dilatati, per mantenere i vari elementi tutti sullo stesso piano, nonostante la versificazione.


Il ritmo scivola in enjambement, che ampliano i confini logici del verso, per poi arrestarsi in poche, ma necessarie pause (grafiche e semantiche), dove esso sembra quasi riflettere con l’autore.

È proprio in queste pause che “Saperti a piedi nudi” diventa qualcosa di più che un arazzo del vissuto dell’autore, il quale acquisisce una dimensione di riflessione latente. Il modo riflessivo e interrogativo è invece un modus più palese nella raccolta successiva.


Ambedue, in modi diversi, portano alla luce, primariamente, il sostrato magmatico dello stile di Amadei: pulsante ed irrequieto. Per essere più precisi, si potrebbe dire che soffre, sotto la superficie della cordialità dei toni.


Una sofferenza sempre in rapporto con il mondo e che poi, in “Oltre le ringhiere”, si specificherà in rapporto con la contemporaneità, percepita negativamente rispetto al sostrato culturale, non solo nativo romagnolo, ma anche, in senso lato, naturale.

Quando il tempo cambia e dal cielo cade l’umido che accompagna la sera la mia caviglia fratturata punta il dito, punge nella carne – è tutto uno strillare di tendini e ossa a ricordarmi il dolore vivo del corpo, così sta il mondo su assi terrestri traballanti, siamo noi fragili le sue deboli caviglie

“Il gioco dei confini” è composto dal fatto e dagli oggetti: dall’avvenimento, dall’esperienza, i quali vengono diluiti, in alcuni testi, in modo quasi sistematico.


Inizialmente la dimensione lirica, personale, tende, se non a sfaldarsi, sicuramente a perdere centralità.

Così come da una parte “la caviglia fratturata”, in realtà è simbolo particolare dell’universale condizione umana e planetaria, dall’altra l’autore si confonde con il tramonto per rinascere.


Almeno questo è il progetto iniziale che, per essere attualizzato, richiederà un lungo percorso: “il tramonto confonde il gioco dei confini […] / anche lo spazio del mio corpo ritorna / tutt’uno, senza equatori ne divisioni /di luce, senza ferite – è cosi che rinasce”. Dalla frattura (ferita) alla quieta rinascita, in opposizione alla citazione di Valerio Magrelli, cui è comunque debitore non solo stilistico, “la terra è viva perché è ferita”.


In questo modo Amadei riesce ad ingannare il lettore con i suoi giochi di immagini che, facendosi simboli, superano la semplicità, la caratteristica della parola apparentemente piana: la complicano, caricandola, all’occhio del lettore attento.


Inquietudine, dunque, una delle dimensioni dominanti e principali di questa raccolta, assieme alla sensazione traballante, non equilibrata, nel momento in cui l’autore cerca di delineare il proprio profilo umano, cui si unisce quella del sogno, dove gli scorci per lo più naturali assumono una funzione positiva, pacificatrice e accogliente (dimensione che rappresenta l’autore e forse quelle in cui istintivamente si riconosce maggiormente ed in cui più soventemente egli trova asilo).


Talvolta questi momenti si scontrano, altre vengono invasi, vengono fusi con la dimensione urbana ( “i fari ai bassi della galleria /nera gola di roccia proiettano fasci / di luce, sembrano costole / o l’esofago screziato di un enorme dinosauro”) tutte insieme queste dimensioni formano l’esistenza percepita dagli occhi dell’autore.


In questa esistenza, talvolta, la Poesia dell’immagine, non più esclusivamente della parola (linguaggio), sfiora dimensioni surreali da cui trapela la necessità viscerale – assieme al travaglio necessario che questa scelta imporrà – di essere ricompreso, diluito, digerito, quasi partorito nuovamente dalla natura, per potersi maggiormente avvicinare a lei, entrare in comunione: “in galleria assaggio il buio della roccia / quando ci rigurgita e torna la luce / mi sembra la prima volta”. Questa volontà si oppone al demone accumulatore della “modernità”, che senza memoria distrugge e soffoca: “la modernità / invece non ha memoria, è malattia / febbre del costruire.”


Fino a questo punto il poeta cerca una radice, quella matrice di origine in cui essere accolto, in cui confortarsi e, forse, in cui potersi riconoscere; dimensione che sarà presentata più compiutamente solo nella raccolta successiva. Qui resta un esigenza di pace, tranquillità e comunione quasi sempre naturale; naturalità che ancora non è platealmente ascritta alla condizione natia romagnola.


Emblematico di questo momento embrionale diventa l’immagine simbolica del “porto buono” con le grandi mani di pietra.


Man mano che si va avanti nella lettura, l’inclinazione alla visività detta precedentemente comincia a subire qualche sporadica contaminazione da quel modo di approcciare il quotidiano più diretto, che avrà solo compimento successivamente.


A un certo punto, la poesia di Amadei fa i conti con l’inaspettato, quell’entità altra, quella persona che problematizza in un cortocircuito, in un “tilt” lirico, l’alternarsi degli equilibri di forze e sensazioni precedenti.


Viene dunque riesumato quell’io latente, il quale ora si impone e prende spazio; allo stesso tempo si perde quell’alone di consapevolezza “giovanile” precedente, quella tensione universale: “è già sera / nelle serrature del pensiero / e questa stanza già piena di te / si ostina a restare indecifrabile, chiusa / nella sua perfetta estraneità”, “ quando cerco di dormire e chiudo gli occhi / il tuo volto è tumulto non autorizzato / l’insurrezione improvvisa dei pensieri / nella piazza del mio cervello”.


Nella seconda parte, “In un sussulto sugli alberi aperti”, la poesia dell’autore perde non tanto la consapevolezza, ma la sicurezza nel presentare le situazioni, che sembravano essersi affermate precedentemente nella tensione universale di chi ancora osserva da fuori.


Il risultato è una immersione più intima e totale nella problematica di quel “tilt”, il quale darà nuova forza e maturità alle poesie. Le dimensioni precedenti, che caratterizzavano quel sostrato “primordiale” di Amadei, ora vengono accompagnate da una coscienza molto più specifica: la sofferenza del momento in cui deve delineare se stessa. Il poeta cerca la sua funzione nel mondo, ma la percepisce come sfuggente. Restano indecifrabili e problematiche le persone più vicine, da cui la quiete del poeta è stata originariamente invasa.


Tale problematica troverà soluzione intuitiva nella comprensione del sé che si fa poetico e che, quindi, non può tracciare i confini o bilanciare la sua equazione; essa resterà sempre incompleta poiché è in continua comunione con la vitalità di ciò che è attorno a lui: “mi è sembrato / di bere dagli occhi di tutti stasera”.


Conclusione che sarà molto più chiara nella raccolta successiva, in quel crescere dell’erba, quel sorpasso in verticale del perimetro, ma non manca di fare la sua apparizione anche in questa sede.

Dal lontano sembra una nuvola dal mare sommerge i palazzi disabitati delle vacanze e il suono di una nave mi richiama il largo canto di una sirena, aspro anticipo del naufragio, l’isola ha il perimetro delle mie orme non ricordo più nemmeno il nome che mi davano, così simile a questa nebbia sono, ogni istante dimentico la forma

Chiarito questo aspetto, la dimensione del sogno, assieme a quella lirica, prende il sopravvento completamente nella terza ed ultima sezione del libro.


È infatti “nel grembo del sogno” che Amadei compie la regressione alla matrice tanto sospirata che, come si riscontrerà meglio successivamente, è ricerca della condizione originale e vitale. Genesi inversa è il simbolo programmatico di questa aspirazione.


Nella poesia “Verso la mattina del tuo compleanno”, la quotidianità diventa insignificante davanti alla sacralità laica del sogno o del dormiveglia.


Quella dimensione dove non esistono esigenze di comprensioni, auto-strutturazioni o confini, le quali portano inevitabilmente al conflitto, ma in cui esiste solo la persona che si affaccia al mondo senza nessuna pretesa, come viene espresso nella poesia “Saperti a piedi nudi”, in cui la nudità dei piedi può essere interpretata come un modo per radicarsi con più forza.


In tal senso questo passo è veramente glorioso: “ma il tuo / saperti a piedi nudi, ancora un pochino / teneramente assonnata / nell’increspatura del mattino che nasce.”


Saperti a piedi nudi appare, nel suo svilupparsi, una raccolta travagliata in cui lo stile maturo traccia chiaramente un percorso allo stesso tempo di arrivo e partenza.

– Oltre le ringhiere – Raffaelli Editore, 2014

Ci sono voluti cinque anni di silenzio e un premio nazionale (Premio Rimini per la poesia giovane) per portare al pubblico la terza raccolta di Filippo Amadei, che aggiunge maggiore sicurezza, coscienza di sé e nuove dimensioni stilistico-tematiche alla precedente.


Chiarissimi, ormai, risultano i debiti che Filippo deve alla tradizione, a cui ho scelto di dedicare un discorso a sé stante a mo’ di appendice a questi due articoli, che si concentrano per comodità esclusivamente sull’autore forlivese.


In questa terza raccolta, il linguaggio diventa più colloquiale (anche se non mancano le eccezioni) e l’io lirico si impone ulteriormente, rispetto alla prova precedente, in una dimensione di dialogo e riflessione manifesti che, se prima cercava per lo più la sua funzione nel mondo e vedeva spesso quest’ultimo come strumento di ricerca, adesso esso viene analizzato più genuinamente.


Quel domandare, quel riflettere incessante è la necessità di comprenderlo, più che comprendere sé stesso attraverso di esso.


Solo alla fine i tormenti e le domande vengono sublimati, dopo il ritrovamento della limpidezza, in un rapporto, in quel io/tu, in quel “riconoscere l’uomo / nell’uomo di fronte” fuori dal “ buio della galleria”, fuori “dal gorgo del traffico”.


Si potrebbe dire fuori da quella parte della contemporaneità meccanica che appiattisce e soffoca la sensibilità e il rapporto umano che l’autore cerca lungo tutta la raccolta.


Le immagini perdono quella condizione centrale e totalizzante, per lasciare fiorire le rivelazioni portate dall’impianto stilistico della riflessione, le quali si manifestano, a seconda dei casi, con il registro più appropriato.


L’inquietudine ora si presenta genuinamente nel momento in cui esprime la sua critica alla contemporaneità e alla violenza che essa fa al sostrato culturale, percepito dall’autore come sincero ed originale.


Così si impone una nuova dimensione tematica: la ricerca della bellezza attorno alla quale graviteranno tutte le altre riflessioni.


Che cos’è la bellezza per Filippo Amadei?


La bellezza secondo Amadei è la sincerità di quello che è originale (nel senso di quello che era in origine), è la matrice vitale che sta alla base di ogni cosa e la fonte della stessa meraviglia che imperversa nella sua poesia.


Attraverso il ricordo, importante momento di rivelazione nel corso della raccolta, l’autore evidenzia questa sua personale estetica delle origini; teorizzazione poetica incarnata da quel sostrato culturale romagnolo di cui l’autore, nostalgicamente e paradossalmente, prende atto, sancendo, contemporaneamente, la sua inattualità o meglio, delineando il suo dissolvimento graduale.


La poesia “Verso Cesenatico” testimonia perfettamente questo aspetto, ma l’idea era nota forse a un livello viscerale e non conscia al 100% all’autore già prima e forse la lirica della precedente raccolta “che case nuove a Villagrappa”, nella sua potente sintesi, è ancora più adatta per esemplificare quello che solo alla fine del testo “Verso Cesenatico” sembra noto.

Quando arrivava l’estate dei compiti in giardino quando era ancora toppo presto per i baci alle ragazze facevo le gite fuori porta con mio padre sveglia all’alba e subito sui pedali l’avremo fatta solo sul porto canale la colazione, ricordo il fiato corto e l’aria aspra dei primi raggi, la sua voce grossa che mi incitava di stargli a pari. Non mi abbandonava l’idea di un me stesso ancora beato nel letto mi chiedevo il perché di tanta fatica, solo dopo seduto al Vecchio Lampione davanti a un cappuccino ogni cosa sul porto era tutta una festa, le bestemmie in dialetto dei pescatori, la confusione felice dei turisti nel viavai delle stradine laterali, anche l’indecifrabile ansia di mio padre, ogni bellezza creduta perduta era allora ritrovata, esisteva già da prima esigeva una mancanza. Ma questa non è solo che una delle declinazioni possibili della bellezza vista dagli occhi di Amadei, perché la stessa lirica, nella dimensione del ricordo percepito nostalgicamente come confortante e sicuro, estraniandosi, cerca di liberarsi dell’oppressione del gioco di perimetri in cui egli si sente intrappolato.


Così se, da una parte, la critica a quest’ultima è la strada che porta alla rivelazione suddetta, dall’altra, traccia quel percorso di liberazione; la ricerca della limpidità si sostanzia proprio così: in quel liberarsi dalla contemporaneità, dal dovere non essenziale e opprimente, per penetrare nella dimensione esistenziale di bellezza dell’origine che, fino a quel punto, esisteva solo nel conforto del ricordo, alla radice del proprio passato personale e culturale.


Questa riflessione si trova nel percorso di Amadei attraverso le visioni naturali delle belle stagioni e “del risveglio degli alberi che santificano il giorno”, ancorati alla terra, proprio come l’autore è radicato nello strato culturale romagnolo.


Allora la bellezza che “esplode fuori dalla galleria” obbliga il corpo a un corto circuito necessario per svegliarlo “dopo il torpore del buio”, e Amadei cerca sempre di rendere attuale questa sua consapevolezza, che è estetica ed esistenziale; cerca come l’erba del giardino dell’hotel diroccato di uscire dal perimetro, superarlo in altezza, trascenderlo.


L’erba supera il suo confine similmente alla poesia di Amadei: “come cresce in verticale il mio verso”.

Egli, come le piante, non si arrende. Il suo destino non è segnato come quello del “gigante pietrificato” (l’hotel), che pur nella sua resa è sincero; sincero nel suo degrado, nella sua sconfitta: con quei mattoni fuori dalla calce, i vetri in frantumi, ed è per questo che il poeta lo tributa, come si tributa un eroe caduto, ma allo stesso tempo si distacca da quella carcassa.


Come affermato in una poesia della raccolta precedente, l’autore sceglie di disegnare il proprio destino e, dalle ceneri della sconfitta di quel costrutto abbandonato, si dirama la crescita verticale ed eroica dell’erba.


Dunque giungiamo all’ “ultima lingua / di terra delle Eolie” poiché l’autore desidera rifugiarsi in “una vita d’isola” per lasciarsi alle spalle l’inutilità dei “PC e piani aziendali”, che si attualizza, nella lirica immediatamente seguente, attraverso la cancellazione di “tutti i file del lavoro” per guardare “il mio passato svanire così / con un click – come non esserci mai stato / in mezzo ai grafici e ai gantt di programmazione”.


Anche se solo per qualche minuto, Amadei può così affermare “la mia identità che scivolava dalla mano”.


Dopo questa liberazione, “ le cose mi vengono / in modo semplice” e “un varco di luce / rende chiara la prospettiva”, “le persone non hanno paura / di ascoltarsi, parlano senza fretta / fuori dal supermercato, oggi”.


L’autore ritrova l’umanità che cercava nella disattenzione di colui che pulisce il vetro.


In questo senso “i tuoi panni / nel vento, contro ogni logica / saranno presto asciutti”: i panni sono come l’erba che supera il perimetro del cancello; la speranza in cui il sole ha fede è la volontà di ingannare il perimetro della previsione meteorologica.


Così, dopo la negatività delle pozzanghere, la pioggia denuda il mondo e lo rinnova, riportandoci alla dimensione del sogno ad occhi aperti, il “dormiveglia estivo”, in cui si dispiega quella complicità di io/tu, quel “noi” inscritto nell’ “altro azzurro che dilaga a macchia e ci ingloba”, divenuto tutt’uno, ancora una volta, coerentemente alla riflessione suggerita dalla raccolta precedente, col bello naturale.

Il bello naturale è percepito come possibilità presente, e si rivela nella sua doppia veste di matrice (cioè bello naturale e allo stesso tempo bello natio), in cui Amadei riconosce quel sostrato culturale personale che appartiene al suo presente; quel presente d’origine, il quale sembra quasi riecheggiare quello ingenuamente primordiale “Baudelaireano”: quelle “Epoche nude”, quella sincerità perduta e antica, che l’autore riattualizza nei suoi diversi modi di tendere alla Bellezza, di vivere la Bellezza.


Allora perveniamo alla comunione sacrale dei corpi nella poesia: “Ce ne stiamo accoccolati sotto le coperte”, la quale rivela quella “felicità / che io e te ora siamo”.


È qui che Amadei, attraverso le lenti dell’innamoramento, vive il suo sogno e vede “rivivere i muri, la piscina secca”, “gli oggetti prendono vita, si alzano” per lanciare “a riva il ricordo di te”.


Quel te, quella persona, che al poeta serve per tornare a sé stesso. Quel sé stesso è l’umanità, la quale si dispiega ed è allo stesso tempo veicolata dalla capacità che permette all’autore di vivere cogliendo la vitalità delle cose, apparentemente inanimate; di cogliere altresì la vita per dimostrare a sé stesso, forse, di essere ancora umano.

Luca Cenacchi

 

Filippo Amadei è nato a Ravenna nel 1980. Ha vinto la “Sezione Giovani” del Premio nazionale di Poesia “Aldo Spallicci” 2004. Suoi versi sono presenti in rete, su riviste ed in alcune antologie. Nell’estate 2005 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie “La Casa sul Mare” (Casa Editrice “Il Ponte Vecchio”). Nella primavera del 2009 ha pubblicato la seconda raccolta poetica, “Saperti a Piedi Nudi”, con la Casa Editrice Lieto Colle Libri. Insieme ad un gruppo di poeti e amici ha fondato l’Associazione Culturale “Poliedrica”. Nel 2014 ha vinto la prima edizione del premio Rimini per la poesia giovane, con la terza raccolta di versi “Oltre le Ringhiere”, che è stata pubblicata presso Raffaelli editore. (Foto: "Credits: Daniele Ferroni")

 

Luca Cenacchi è nato a Forlì nel 1990. Nel 2011 la poesia “Laocoonte – ovvero di se stesso” è stata selezionata per essere pubblicata nell’antologia del Premio letterario Ottavio Nipoti – Ferrera Erbognone. Ha contribuito a fondare e sviluppare il forum letterario “I Gladiatori della Penna”. Nel 2015 suoi testi inediti sono stati presentati nella serata “Arcadie Invisibili” all’interno del progetto “La Bottega della Parola”, organizzata dalla “Associazione culturale Poliedrica” di Forlì. Nel 2016 il blog letterario Kerberos Bookstore ha scritto un articolo critico di alcune sue poesie inedite “Valore-contenuto e valore-bellezza: il senso del sacro attraverso la trasfigurazione dell’immagine e la neutralità al messaggio”. Nel mese di Aprile dello stesso anno tre sue poesie (“La Perla”, “Anoressica” e “Francesca”) sono state selezionate per essere inserite nella antologia “La mia sfida al male”, pubblicata a seguito della terza edizione del concorso letterario “Come Farfalle Diventeremo Immensità”, in memoria di Katia Zattoni e Guido Passini, indetto da Fara Editore. Aspirante critico letterario, è ansioso di contribuire al dibattito sulla poesia contemporanea, attraverso la rubrica critica “Gli Specchi Critici”, realizzata in collaborazione con il blog Kerberos bookstore e Fara Poesia.

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