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Valore-contenuto e valore-bellezza nei ritratti di Luca Cenacchi: il senso del sacro attraverso la t


Luca Cenacchi non è uno scrittore particolarmente prolifico: si potrebbe dire che ogni parola e verso che produce sia frutto di un parto lento, ponderato e millesimato.


Ho avuto l’occasione di seguirne l’evoluzione, negli ultimi anni, e, nonostante le trasformazioni formali e stilistiche, le scelte di fondo dell’autore hanno conservato la propria identità e personalità.


Dalla lettura delle sue opere, e in particolare di quelle che questo intervento tratterà, emerge un interessante spunto di riflessione sulla poesia contemporanea, e, in generale, su alcuni degli obiettivi dell’urgenza alla comunicazione, che la poesia non può ignorare.


La prima riflessione – forse una delle più importanti – è la relazione tra la comunicazione di un valore-contenuto e la comunicazione di un valore-bellezza nell’opera poetica: la principale necessità che guida la penna dello scrittore, e in particolare di chi scrive versi, tende inevitabilmente ad influenzare l’opera che ne è diretta conseguenza, in base al fine specifico che chi la crea si pone nei confronti dell’eventuale fruitore, destinatario del valore mediato ed immediato di cui l’opera si fa carico.


Nei versi del Cenacchi è necessario evidenziare il suo particolare rapporto con la visività della parola, con la ricerca della bellezza estetica, plastica, “grafica” della parola poetica.


“Io e il contenuto – da me inteso come concetto, messaggio – abbiamo una storia tumultuosa. Ho sempre cercato di dimostrare a me stesso come il contenuto di una poesia non solo fosse slegato dall’esperienza estetica, ma che da solo è irrilevante alla manifestazione della poeticità”, evidenzia l’autore stesso.


La questione è di enorme attualità: l’epoca contemporanea penalizza in modo impietoso la letteratura, e in particolar modo la poesia, perché tutti i mezzi di comunicazione di massa, che monopolizzano l’attenzione del pubblico, sono di natura primariamente visuale.


Siamo abituati, sin da quando siamo nati, a vedere tutto, e prima di tutto: il cinema, la televisione e internet ci hanno educati (ed assuefatti) a forme di comunicazione diretta, rapida, immediata.


In questo contesto, la riflessione che scaturisce dallo stile del Cenacchi trova una ragionevole raison d’etre: potenziare l’aspetto visuale della parola poetica, per “adeguarla” a questa moderna abitudine, rendendola, di fatto, un’alternativa solida e convincente, anche per il casual reader.


Entra in gioco dunque il valore di una serie di fattori espressivi, che rendono “poetica” la parola e l’opera, al di là del contenuto che, a questo punto, diventa secondario, complementare, e verso cui l’autore, in prima battuta, può essere legittimato ad assumere un atteggiamento neutrale.


Dunque il valore-contenuto non diventa irrilevante, slegato dal valore-bellezza, ma si rivela non essere il principale ingrediente della cd. “poeticità” di un brano, nella visione del nostro.


“Poiché la mia poesia è stata sempre tesa a un approccio quasi esclusivamente visivo nel corso del tempo mi sono accorto che, così facendo, non escludevo affatto dal mio iter creativo il contenuto per approdare in quella dimensione di pura bellezza cui credevo di tendere come “neoclassico” e a cui credevo tendessero anche i neoclassici, ma semplicemente ho scoperto che descrivendo davo, si, più priorità alla parte visiva del componimento, ma che allo stesso tempo trasformavo in simboli quelle stesse immagini creando parallelamente anche un’architettura contenutistica.”


L’autore definisce tale fenomeno con sufficiente precisione: la neutralità alla ricerca del contenuto diventa, in seconda battuta, possibilità di scoperta di un contenuto che dipenda direttamente dall’esperienza estetica della parola, diventandone conseguenza possibile, non necessaria, che può arricchire un’opera poetica, di per sé già valida e legittimata dall’intrinseca poeticità dell’esperienza visuale che l’autore vi ha instillato.


Il messaggio diventa il punto di arrivo, eventuale, e non il punto di partenza del comunicatore:


“Perché la comunicazione se non è diretta essenza della poesia è comunque essenza del linguaggio di cui è composta. Così come un tramonto non ha significato ma è semplicemente bello a priori così anche una poesia può essere bella (ne sono ancora convinto) ma non deve essere necessariamente avulsa da un apparato contenutistico più o meno visibile. Dico più o meno visibile perché quand’anche non appaia manifesto nelle singole opere una certa intenzione, un certo contenuto, può affiorare da una visione più ampia delle opere di uno scrittore. Il contenuto acquisisce dunque valore poetico quando mediato dall’espressione stilistica che lo rielabora e gli conferisce la forma poetica. Poiché quello che cambia da un trattato sull’amore a una poesia è proprio la modalità espressiva.”


Pertanto il Cenacchi, nei suoi versi, vuole ricreare la purezza dell’esperienza estetica visuale. L’esempio del tramonto è calzante: il contenuto di tale esperienza, il messaggio che residua al fruitore, è secondario ed eventuale; il tramonto non deve avere un significato, può piacere “e basta”, mentre ad altri può lasciare riflessioni dai sapori più disparati, diretta conseguenza del suo valore estetico, in quanto esperienza.


Allo stesso modo, l’autore intende ricreare nel lettore una serie di suggestioni puramente visuali ed espressive; il contenuto dei suoi versi non diventa prioritaria necessità comunicativa, ma eventuale conseguenza dell’esperienza estetica, la cui urgenza principale è la ricerca dell’anzidetta poeticità, e il valore-messaggio diventa esclusivamente una conseguenza dell’esperienza della bellezza.


Lo stesso autore lo conferma: “vedendo la poesia come un organismo costituito da parti che si armonizzano a creare poeticità non credo di poter privilegiare o perfino togliere le componenti che la compongono.”


Analizzando i versi di “Come ti vedo – Ritratto” questa concezione trova giustificazione e conferma.

Spiòvono neri volteggi di ricci

sul tuo viso, fatto più morbido

dall’ombra che vibra tra quei pallori

incrinati sotto il peso di lacrime

taciute dove anneghi il passato,

mentre dal tuo sguardo attonito

albeggiano non so che sogni e speranze

schiudendo l’umanità di quei rossori

che ti fanno più bella.

Il chiaroscuro estetico del viso dell’amata rimanda luci ed ombre, plastiche, agli umori della stessa, che sono ora sereni ora lacrimosi.


Questo estetizza il lato interiore del soggetto ritratto, in una rappresentazione dove l’aspetto estetico si interseca a quello interiore, rendendo il ritratto in uno visuale, in uno “riservato”.


Le lacrime sono intese da chi ritrae, anche se taciute, come un’interpretazione del gioco di chiaroscuri che compone l’architettura del volto; tali lacrime confliggono con lo sguardo speranzoso, e da questo conflitto interno emerge un’innocenza limpida, che si concreta nel rossore (che ben si ricollega a quell’ “albeggiano”) del volto del soggetto.


Tale è l’aspetto del soggetto ritratto, e obiettivo del Cenacchi è materializzarne la bellezza estetica: ogni altro contenuto ne è solo diretta ed eventuale conseguenza. L’obiettivo di questi versi non è quello di fare dissertazioni su un argomento specifico, comprovare o dibattere su una qualsiasi tesi, ma mostrare un soggetto, così come si mostrerebbe una fotografia o, appunto, un ritratto, enfatizzandone gli aspetti ed i dettagli, con attenzioni espressive, per mostrare anche ciò che, in prima battuta, è nascosto.


Ogni altra considerazione, pur sottintesa nei dettagli che vengono evidenziati, è secondaria, ed è neutrale al fine principale dello scrivente, che è quello di “mostrare”, di “visualizzare”.


Un’impostazione di questo genere, dove il soggetto e le proprie considerazioni vengono messe in secondo piano, insieme al significato ed al messaggio che l’autore potrebbe trasmettere al fruitore, tende a rendere l’immagine fornita di un sapore sacro, quasi religioso, trasfigurando i soggetti che vengono ritratti in un’idealità di bellezza, di cui l’autore si fa sacerdote.


Per tale obiettivo, la scelta dei vocaboli e la ponderazione dei lemmi diventa primaria, sia per le accezioni di colore e di suggestione visuale sottesa alle parole scelte, sia per evidenti ragioni espressive: “le parole hanno un elevata importanza per ogni poeta. Ogni poeta nel momento della composizione credo sfrondi il vocabolario in suo possesso, andando a selezionare quei vocaboli più atti a soddisfare la necessità espressiva del momento. I poeti che si approcciano alla poesia in modo primariamente visivo non fanno eccezione. Quando scrivo compio ogni volta una selezione “spietata” fra i vocaboli in mio possesso, affinché il verso possa avvicinarsi il più possibile alla necessità espressiva. In generale la buona riuscita dell’immagine è primariamente dettata dal buon uso, nella frase, di vocaboli intrinsecamente visivi, che vanno ad inscriversi in un’organizzazione logica della frase semplice (come esempio mi viene da pensare a “Soldati” di Ungaretti). Dunque la visività più o meno riuscita dell’immagine non è che dipenda dalle parole in sé, ma ne è generata poiché a loro volta le parole formano frasi, e le frasi sono costruite mediante idee stilistiche ed espressive personali – dunque non c’è una vera e propria tassonomia dietro l’immagine: la vedo più come un organismo o un ente cui la manifestazione è resa possibile dalla compresenza armonica di più fattori che la compongono.”


In un altro breve componimento, “Il desiderio”, tale ideologia poetica è confortata con coerenza.

Allo sbocciare della rosa notturna

brìnano sui pètali gocce di luna.

Le chiare allusioni erotiche sono umettate, accennate con timidezza, rese meno volgari da attenzioni specifiche e rispettose: la rosa sublima il colore della pelle, lo profuma; lo sbocciare suggerisce l’insorgere del momento amoroso, senza mostrarlo; quel “brinano” comporta una suggestione di contatto e di umidità, rafforzato dal successivo “gocce”, trasparendo le immagini del contatto desiderato in una rappresentazione della proiezione di esso.


Anche l’autore sceglie questo distico per rappresentare la propria poetica: “questi ritengo siano versi che nella loro semplicità neoclassica schiudono una potente visività, soffusa da un’atmosfera che sacralizza la materia distintamente erotica contestualizzata dal titolo. Allo stesso tempo anche se lo slancio del verso è distintamente visivo, credo che non cada nell’aridità dell’esercizio stilistico, perché l’immagine si conforta nella freschezza di espressioni e vocaboli esterni alla tradizione di partenza (ad esempio quel brinare che è un vocabolo quasi popolare) che contribuiscono a dare un sapore se non maturo sicuramente diverso. Detta in altri termini: il candore eccessivo dei marmi neoclassici si effonde di una dolcezza che li fa arrossire.”


Eppure c’è anche qualche altro scorcio più personale, meno visivo, in altri episodi: in “La Perla”, ad esempio, il Cenacchi scrive: “non ho saputo vedere la donna”, il che ci porta a dubitare, insieme a lui, di quanto ci ha mostrato:


Nascosta dietro la principessa

non ho saputo vedere la donna

scorticata dai granelli di sabbia

che insanguinano la sua grazia

fatta più severa da una vita

vissuta in quelle ingenuità da ninfa.

L’efficace immagine della grazia insanguinata, quasi rovinata dalla ruvidità dei grani di sabbia, sembra alludere al tempo e alle esperienze vissute, che hanno reso la vita di quella donna meno ingenua di quanto non sembri, in uno più profonda e severa, anche se ciò che appare è magari più semplice, “da ninfa”, come suggerisce l’autore.


L’illusione dell’immagine, la possibilità di un significato differente al di là di quello meramente estetico, suggerisce l’inganno che può celarsi dietro una visualità incantevole, che nasconde però il dolore, la sofferenza dell’esperienza, la profondità tutta umana dei suoi travagli.


Non c’è, in fondo, un messaggio assoluto che il Cenacchi vuole trasmettere al lettore, al di là della sua limpida attenzione all’aspetto delle cose che lo circondano, ad imprigionare la fragilità delle donne che ritrae in cerchi di parole, che ne circoscrivano l’immagine, che appare sacra e trasfigurata nel tempo. Questa bellezza è per l’autore foriera di significati più profondi, suggerisce l’umanità delle relazioni, della contemplazione degli sguardi, della tenerezza degli amanti.


Un ulteriore appunto è il caso di fare sulla forma e sul ritmo utilizzati: non siamo di fronte all'uso di versi o di andamenti consolidati, anche se si rinviene una sorta di impronta ritmica specifica data dall'autore. Qui e lì si legge qualche endecasillabo, qualche verso composto o dissimulato, ma in buona sostanza l'andamento dei versi, pur non rispecchiando in maniera pedissequa alcun verso canonico, neppure di origine barbara, è libero e improntato all'orecchio compositivo dell'autore. Una scelta che si qualifica come contemporanea in senso ampio, nonostante l'attenzione lessicale; che può piacere o meno, ma che certo non è frutto del caso o di mera disattenzione formale, e che dà alle composizioni un tono ora alto (cfr. il primo verso di "Come ti vedo - Ritratto", dal chiaro andamento dattilico) ora colloquiale, avvicinando la parola al lettore meno esigente, e creando una continua modulazione ritmica.


Purtroppo le opere esaminate sono molto poche per confermare o smentire quanto sostenuto sin qui, e non consentono un’analisi più approfondita; si può, tuttavia, azzardare qualche parallelo con altri immaginosi ritrattisti di sensibilità femminili, come ad esempio Charles Baudelaire, nel suo “Serpente che danza”:

Quanto mi piace vedere, cara indolente, del tuo splendido corpo come una stoffa ondeggiante luccicare la pelle

sulla tua chioma profonda, dagli acri profumi, mare odoroso e vagabondo, dai flutti azzurri e bruni,

come un vascello che si sveglia al vento del mattino, la mia anima sognante s’appresta a un cielo lontano.

I tuoi occhi, nei quali nulla si svela di dolce o d’amaro, sono due gioielli freddi in cui si unisce l’oro col ferro.

A vederti procedere ritmicamente, bella d’abbandono, ti si direbbe un serpente che danza in cima a un bastone.

Sotto il fardello della tua pigrizia la tua testa di bambina si dondola con la mollezza d’un giovane elefante.

E il tuo corpo si piega e s’allunga come un bel vascello che bordeggia e tuffa le sue antenne nell’acqua.

Come un flutto ingrossato dalla fonte di ghiacciai grondanti, quando l’acqua della tua bocca risale al ciglio dei tuoi denti,

mi pare di bere un vino di Boemia amaro e vittorioso, un cielo liquido che semina di stelle il mio cuore!


Anche qui il rapporto tra lo scrivente, ciò che vede, e il piacere che ne trae è dichiarato, come l’intenzione di trasmettere la stessa visione al lettore.


Cercando invece qualche parallelo con autori italiani, si potrebbe azzardare un’ulteriore similitudine con i versi di “Bellezze”, del Govoni, o di “Donna in Pisa”, di Luzi:

Il campo di frumento è così bello

solo perché ci sono dentro

i fiori di papavero e di veccia,

ed il tuo volto pallido

perché è tirato un poco indietro

dal peso della lunga treccia.

[…]

Donna altrimenti – e niente più simile alla vita – calda d’impercettibili passioni velata da un vapore di lagrime ideali nel vento, sui ponti ultimi al fuoco delle stelle apparivi dai portali, dietro i vetri di croco.

Anche qui vi è un parallelo tra bellezza naturalistica, messa in primo piano attraverso qualche dettaglio semplice, che si trasfigura nel ritratto femminile; anche qui il particolare estetico della donna diventa simbolo della sua interiorità, suggerita e non esplicitata.


È possibile anche tracciare un legame con autori più risalenti, che presentino caratteristiche compatibili con quanto evidenziato sinora: un esempio, tra tanti, può essere riscontrato nel “Ritratto” del Cardarelli:

Esiste una bocca scolpita, un volto d’angiolo chiaro e ambiguo, una opulenta creatura pallida dai denti di perla, dal passo spedito, esiste il suo sorriso, aereo, dubbio, lampante, come un indicibile evento di luce.


Di nuovo il dettaglio estetico, visuale, diventa vivo attraverso l’esperienza estetica, che suggerisce senza dire, in un’allusione trasfigurativa che diventa simbolo, icona, cammeo.


In conclusione: l’unico rischio di tale impostazione stilistica è quello di realizzare un’opera – nell’insieme, e non nei singoli componimenti – che non sia legata da un univoco e identitario “valore-messaggio” – inteso come dichiarazione di poetica, sia esso lirico, esistenziale, didascalico, narrativo, ecc., affidando l’intera “poeticità” delle composizioni all’esperienza estetica, e alla sensibilità dei lettori, che devono immergersi nel sacrario simbolico offerto dall’autore.

Questo non è certamente possibile dirlo con certezza, esaminando così poche opere, ma è una curiosità che una silloge del nostro potrebbe soddisfare.


I successivi passi compositivi permetteranno pertanto di comprendere se i tramonti e i ritratti del Cenacchi sono in grado di far dono di una bellezza fine a sé stessa o che sia l’ampio spettro di un più denso sistema di simboli, coerenti nel loro insieme, che possano definire una precisa e inequivocabile personalità poetica, già accentuata nei versi qui presi in esame dal punto di vista formale e programmatico, per la strenua coerenza con cui sono state portate avanti le proprie convinzioni letterarie, artistiche e comunicative.


In ogni caso, varrà certamente la pena di seguirlo con attenzione.

Mario Famularo

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