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Un beat che per poco non scrive in aramaico - Inquadramento generale della poetica e breve analisi d

Nonostante la densa espressività ipersperimentale, l'influenza della modernità novecentesca (soprattutto quella beat americana e surrealista) più eclettica e una vocazione mistica sia congenita che orgogliosamente esercitata -tratti evidenti tanto al lettore celere e approssimativo quanto a quello più riflessivo e rigoroso- le poesie di Andrea Peverelli non si pongono mai l'obiettivo di scalfire ogni fondamento di senso, né, a ben vedere, quello di una destrutturazione/ristrutturazione eversiva o perturbante di ordine teologico, filosofico od artistico del reale. Il motore alla base del meccanismo della sua scrittura in versi è una religiosità nomade, trans-etnica, sincretista e metastorica, parallela ma non speculare al dato brado lampante della sua fede cattolica. Questo è già materiale sufficiente per constatare l'impossibilità, nel discorso dell'autore, di abolire o svalutare ogni accezione, ogni sfaccettatura di un logos che non solo deve continuare a esserci e a essere principio, ma in quanto tale deve proseguire, perseguire e comunicare tutti gli attributi di grandezza e bellezza dogmatica della divinità. Ci spingiamo ancora più in là per allegare subito un ulteriore corollario: quanto, cioè, a nostro avviso, sarebbe scorretto sconnettere il tessuto poetico dell'opera di Peverelli dal caposaldo platonico, ma soprattutto giudaico e cristiano, della suddivisione binaria e distintiva di cielo e terra, oltre che, naturalmente, da quella tra creatura e creazione, con annessa opposizione a ogni eventuale ipotesi di identificazione panteistica spinoziana. Quello che stupisce di questi presupposti di partenza è la loro genuina e assoluta arcaicità, il loro rifarsi romantico e orgoglioso solo a testi spirituali e sacri immensi della storia umana, ma soprattutto l'apparente contraddizione col modo enormemente innovativo in cui, nella pratica, queste nozioni ormai senza tempo sono sviluppate ed elaborate, prendendo vita in una materia creativa dell'aspetto accattivante, non soltanto "moderno" ma ipermoderno o "catamoderno", spesso incomprensibile, sempre ultraimmaginifico (per quanto riguarda quest'ultimo carattere è da sottolineare un'altra influenza importante, l'imperitura fascinazione del poeta per i giochi concettisti del barocco). La risposta a questa (fittizia) contraddizione va ricercata, oltre che, ovviamente, nella trasversalità delle sue letture, anche nelle pieghe più recondite del misticismo di Peverelli, che, con lo stesso vigore con cui rifiuta di disperdere la virtù dogmatica "classica" del cristianesimo, preserva gelosamente la sua allergia, come dichiara egli stesso, contro "l'accidia di chi si rinchiude nella torre d'avorio", si parli dell'asceta eccessivamente sdegnoso nel suo anfratto in pietra o, in ambito sociale e culturale, del risibile snobismo dell'establishment intellettuale della sua Milano. Il fatto di credere a un Dio creatore nell'alto dei cieli non fa che acuire la necessità di un attivismo, attivismo cristiano, sì, ma totalmente terreno, agente col corpo e nel corpo: la mancata immanenza della sostanza divina nel creato non è un deterrente per l'azione e un incentivo a proteggersi dietro ai canonici bastioni dello spavento lirico e alla mortificazione del religioso che disprezza la vita terrena, quanto, al contrario, una sollecitazione antiplatonica al parallelismo fra la sensualità mondana e la sensualità divina dei mistici: la dianoia del cristiano non è figlia della ratio, è sensuale, è nei sensi, e agendo e dipingendo coi sensi Peverelli vuole delineare, contemporaneamente, come in un'immaginaria trasposizione e copia pittorica con carta carbone, la tela del cielo e la tela della terra, strutturalmente separate ma misticamente collegabili dal ponte della poesia. Da qui la natura intrinsecamente sinestetica, fino alla saturazione, di quasi tutti i componimenti. Il cardine della sinestesia spesso ha il ruolo più o meno inconscio di porsi come elemento di riequilibrio rispetto alla furiosa pesantezza concettista ugualmente propria all'autore, impedendo ai versi di sprofondare nel grigiore completo cui ogni anelito mistico che si rispetti conduce spontaneamente (giova ripeterlo: quello di Peverelli non è un anelito rivolto al cielo e non alla terra, quanto piuttosto un anelito rivolto al cielo attraverso la terra). Come abbiamo già accennato, tornando a un'angolazione più strettamente filosofica, c'è un'implicita volontà di rifiuto dei due estremi teorici tipicamente occidentali: l'idealismo trascendentalista platonico e l'immanentismo spinoziano. E' per questo che la scrittura in versi libera il cavallo del senso e del logos cosmico-divino-evangelico dalle briglie della logica classico-occidentale e della ratio greca e latina, restituendo il dualismo cielo/terra a un universo non più univocamente e chiaramente esprimibile, ma dalle radici salde ed esclusivamente cristiane. La prima conseguenza importante è che questa deoccidentalizzazione della sostanza cristiana deve comportare un rivolgersi alle sconfinate praterie del novecento nordamericano più folle - per attingere strumenti letterari adatti a questa catarsi -, e, per quanto riguarda l'aspetto etnico-etico-spirituale, all'integrità semitica e aramaica, agli studiosi e ai padri della Chiesa delle origini, oltre che ai misticismi di altre etnie e altre religioni (con particolare predilezione per il derviscismo islamico, come la poesia che fra poco analizzeremo, "Bismillah", non manca di testimoniare fin dal titolo). L'operazione forse più rilevante e da prendere in esame nell'agire poetico di Peverelli è dunque una distillazione essenziale di un principio religioso , se così possiamo esprimerci, un atto poetico di depurazione dalle scorie temporali insanguinate con cui la storia e gli uomini di ogni secolo non hanno mai cessato di sporcare e violare la pura gratuità sacrificale (ma attiva) incarnata dal duro e liscio legno della croce. --- In "Bismillah" il tema, in senso anche lato e più ampio, della purificazione redentrice, leitmotiv immancabile in numerosissimi altri frammenti del corpus completo dell'opera di Peverelli, si esplicita con decisa programmaticità fin dall'incipit ("Misi ciabatte di cotone / alla mia vecchia supponenza, / la confinai in un gineceo di coperte e monocolture senza mercato"): il mettersi in discussione, la catarsi e la rinascita spirituale vengono affrontati come eventi già trascorsi prima ancora di iniziare qualsiasi tragitto; essi non sono un arrivo, ma un mero punto di partenza, un processo ciclico creativo-distruttivo che il mistico deve essere in grado di inglobare in sé come un automatismo organico autosufficiente. Già dal quarto verso questa purificazione viene configurata secondo una procedura tipicamente peverelliana; cioè attraverso la geografia dei luoghi dello spirito : luoghi mai abbastanza esotici personificano un affetto o uno stato del mistico, e i suoi slanci pindarici impensabili si dipanano così attraverso l'ecumene ("e me ne andai nella notte boreale / masticando cicche ed Orse Minori / [...] così nella notte guardai i suoi occhi d’Islanda, / sprecammo anche molti sguardi / finché il cemento artico si appese alla linea tra noi /e penetrò tutto il sospeso"). Come si può ben vedere, è al silenzio ghiacciato dell'ecosistema artico che è affidato il ruolo di comporre la scenografia della rinascita interiore del poeta, di un suo nuovo fecondo rinchiudersi dentro il silenzio, con tanto di effetti speciali come la "tramontana jazzista d'autunno" soffiata da Dio fra le "veglie amarena" (per quanto sia un dettaglio, le note cromatiche insolite sono così diffuse nelle poesie di Peverelli che meritano una sottolineatura dedicata). Si possono prendere queste escursioni geografiche in senso più o meno letterale, credere con volontaria ingenuità alla verità della loro spregiudicatezza favolosa, nonostante il relativo attributo fantastico sia non solo presente ma esibito, oppure intenderle più realisticamente come derivazioni di viaggi nel corpo, fra i nervi, il cervello e la mente del poeta, e cambia poco, visto che tanto il corpo del mistico è comunque corpo della terra; quello su cui conviene concentrarsi è infatti, in tutti i casi, l'elemento concreto, materiale, terreno di questi viaggi, che viene mantenuto senza ambiguità: si conferma l'idea di un misticismo che non esclude un valore e un ruolo rilevante alla materia mondana (come confermano i coraggiosi versi: "piovi i tuoi 99 significanti terreni / nella forma umana che contiene tutte le forme"), ma che per l'appunto, più sottilmente e raffinatamente di quanto qualsiasi sdegnoso e mortifero puritano di parrocchia ecclesiastica e non sarebbe capace, proclama necessario un "passare attraverso" il mondo, un ponte con cui attraversare, o, per meglio, dire, trapassare la materia, bucandone i limiti. Questa "traiettoria parabolica" dell'orientamento mistico è espressa con sublime originalità da questi altri versi: "non permettere l’inizio e la fine per il nome con il nome nel nome / ma prendi il nostro sguardo a strattoni / coi morsi della fame / e sputaci al di là come semi di senape al vento -". La contingenza nominale, formale ed esistenziale della vita non si supera sognando ad occhi aperti un "di fuori" da questi recinti (di per sé ineffabile e inconcepibile), ma brucando così a lungo e con tanta convinzione i prati di questi pascoli limitati che, quasi come un miracolo, con un inconsueto gesto inaspettato, sarà il pastore ad ammazzarci a morsi e, così facendo, a "sputarci oltre".


Pietro Bariola

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