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"Di memoria in memoria a dirti amore" - Riflessione sulla poetica di Alfonso Gatto - di Dy

Dal silenzio per il silenzio; non stupisce allora perché spesso passi inascoltata l'esperienza di missione veramente umana che compie la poesia di Alfonso Gatto (Salerno 1909 - Capalbio 1976), titanicamente umile fino a donarsi come una delle voci più autentiche del Novecento italiano.


L'irrequietezza del secolo si incarna dentro l'omnipervasiva voce di un uomo in silenzio con le sue contraddizioni e le sue certezze, eppure sempre in movimento - fisico e spirituale - nell'altalenante gioco della forma, che in Gatto diviene "costrutto" della volontà, la realtà più profonda perché viva sul piano mentale quanto su quello della percezione sensoriale.


Proprio la dedizione ad un progetto di missione umana, per una vita più importante della poesia, una vita "da salvare fino all'ultimo e che permetta di scendere nel giorno della nostra morte senza viltà", spinge Gatto a cercare un appiglio che, nel prevedibile e mai abituale smarrirsi, lo mantenga fedele a se stesso. Così scopre il vocabolo, quello basilare, da rimodellare coerentemente con la propria sensibilità di artigiano perché risuoni come una voce amica pronta a richiamarlo a se stesso e alla "grazia stupita d'essere la vita".


La parola per Gatto è dunque un mezzo, il costrutto per eccellenza, con entità mentale e fonica, in grado di rendere l'uomo presente alla propria esistenza e quindi al proprio silenzio, in cui si può affermare l'"ostinazione a vivere", la "felicità di vivere", la "lealtà di vivere".


Nello spazio lunare pesa il silenzio dei morti. Ai carri eternamente remoti il cigolìo dei lumi improvvisa perduti e beati villaggi di sonno. Come un tepore troveranno l’alba gli zingari di neve, come un tepore sotto l’ala i nidi. Così lontano a trasparire il mondo ricorda che fu d’erba, una pianura.


Carri d'autunno da Poesie (Isola)


L'atmosfera che si respira nelle liriche di Isola, raccolta del 1932 che sembra anticipare l'ufficiale inizio della stagione ermetica con il Sentimento del Tempo ungarettiano dell'anno successivo, è quasi rarefatta, scevra da legami troppo espliciti con la realtà più immediata, per essere intimamente collegata ad un profondo e unitario spartito segreto del mondo, afferrabile nel silenzio. Così la melodia arcaica che anima i testi di Gatto permette al lettore odierno di sentire come "indugia raro nel silenzio un alto / silenzio e lascia scorrere la pace", perché quest'ultima corrisponde al desiderio naturalmente insito nelle profondità che vengono evocate da un'eco di lontananze stranamente presenti.


Spingendo il proprio sguardo verso un oltre indistinto nello spazio e nel tempo, dopo la morte o prima della vita cosciente del momento, "Gatto ha dovuto restituirci, prima di tutto, il senso stesso di un'incalcolabile lontananza dagli oggetti" (Giuseppe Langella - Alfonso Gatto, il poeta del canto fioco) per cui l'uomo si trova in una solitudine apparentemente vuota, ma ricca di ogni realtà che trova raccolta in sé, un insieme di colori: "Io sono bianco di memoria". In questo modo il silenzio si afferma come la vera melodia del mondo e dei singoli, perché "... nell'imbuto / dell'anima, in quel raggiro muto / di falde e specchi, tace la parola. [...] Il primo freddo è l'anima che coglie / il suo silenzio..." e, dopo il brivido di spaesamento ed euforia, comincia ad avere coscienza della più intima realtà.


La lirica gattiana allora vuole porsi come il diario di un'anima che si riconosce viva nell'incontro con altre sue simili e - in parte - insite in lei come anima del mondo; si tratta di un dono del proprio percorso interiore formulato invitando all'ascolto per evitare una degenerativa incomunicabilità col prossimo ma soprattutto con se stessi, in una realtà dove "tutti parlano del proprio cuore, / tutti tacciono col proprio cuore".


Con questo il poeta non intende però chiamarsi fuori dallo spasmodico e fragile bisogno di un comune parlottio, anzi riconosce i propri limiti e le proprie colpe, mostrandosi innanzitutto un uomo (sua è la definizione del poeta come "un uomo mortale che vive con tutta la sua morte e con tutta la sua vita"), fermo nella convinzione del valore superiore della vita rispetto alla poesia. Perciò è chiaro quanto propriamente nel silenzio si affermi, per Gatto, la volontà di vivere appieno, e non in quello che sembra delineare come l'andamento inerziale delle parole, dando tuttavia anche a questo un qualche valore. Nella poesia Colpa infatti viene riconosciuto alla parola affannata nel coprire i vuoti il ruolo di espressione del limite, in cui l'uomo d'ascolto può captare il richiamo del silenzio e disporsi a questo ("Io mi dicevo ch'ero stato buono / tutta la vita / ma a chiedere perdono / salivo in sogno").


Oltre i mari d'autunno, nell'alone

delle polveri cieche

tutta la notte nella pioggia ho visto

sparire la città, tremava il palco

il fradicio dei legni sul mareggio

della laguna, la lumaca cieca

intrepida sbavava la sua strada.

L'amore era il sudario dei miei volti

affacciati da sempre,

le palpebre pesanti, il naso duro

come il silenzio fermo sulle labbra.

Mi dicevo, di me, ch'ero al tuo riso

lontano l'ombra che scavalca i ponti,

il dannato che insegue la sua fuga.

Sugli occhi le tue ciglia da moscone.

Era la pelle azzurra dell'immoto

un agguato di brividi


Pelle azzurra (seconda versione, interrotta) da Desinenze


I paesaggi spesso naturali che ci vengono presentati da Gatto attraverso i sui occhi luminosi - perché intimamente illuminati da uno sguardo pervaso di ogni tempo, quello di una morte mai in opposizione alla vita, anzi ad essa coesistente - tendono ad avvitarsi su se stessi, spingendosi verso profondità ignote, così il loro incunearsi è proprio dell'anima. Per tale ragione risulta perfettamente calzante l'appellativo di "surrealismo d'idillio" coniato da Giansiro Ferrata in riferimento alle liriche di Isola e ben adattabile a buona parte della produzione gattiana.

Nelle ultime sue raccolte (Rime di viaggio per la terra dipinta e la postuma Desinenze) Gatto elaborò ulteriormente la propria peculiare forma "surrealista" regalando al lettore un esempio di pedagogia del perdersi e del ritrovarsi, fedeli a se stessi perché "tu sai ch'è inquieta l'anima, se pura". Alla base di questo sviluppo poetico sta un movimento dell'anima, tra "alberghi, città, scale sempre in sogno / varcati al dir: «qui resterò e la pace / mi sarà data alfine»", rispecchiato dal "dolce e lungo errore" del poeta, che dagli anni Trenta fino al termine della Seconda Guerra Mondiale, tra spostamenti lavorativi, collaborazioni culturali e politiche, finanche all'arresto per antifascismo, visse un'esistenza irrequieta.


Così si fondono immagini cittadine e litorali, sempre sorprese dallo sguardo limpido di un uomo affacciato alla vita, ricco dei propri volti, quelli di personali forme inquiete e di un passato che il poeta sente proprio e universale, perché con esso condivide la volontà di trovare "... prova su prova / la sua ragione d'essere nel fiore, / nel seme, nella terra, nella morte".


Viene evidenziato come a smuovere l'uomo siano essenzialmente due componenti sempre misteriosamente compresenti, la morte e la vita. Se la prima spinge al movimento nell'anziana paura di un "agguato di brividi" che altro non è se non "la pelle azzurra dell'immoto", la seconda è l'istinto primario di avventura come l'attitudine propria dei bambini che "tuffano il capo nel mondo". Da questa spinta bivalente è generato un ossimorico intrepido fuggire; dopotutto, "passeggia l'uomo che cerca una storia".


Perdersi allora è il fondamentale preambolo della salvezza, perciò il partire da se stessi può divenire - secondo l'insegnamento di Gatto, dopo un lungo percorso poetico che aveva conosciuto dapprima come spontaneo questo altalenarsi della coscienza - anche, in parte, volontario, se questa volontà assume in sé la determinazione a tornare. Come esemplifica chiaramente in una sua intervista: "È come se io stesso partissi e ritornassi ai miei stessi occhi che mi vedono partire e mi vedono ritornare [...], un poeta [...] è un po' padre e figliol prodigo di se stesso".


I gesti lasciati nell'aria

i cenni che chiamano ancora,

sola ogni voce che non s'ode più.

E il sonno che non ha notte,

la pallida ombra che legge

al pallido sole.

Quei ragazzi nudi mai così rosa

nel tonfo della mezzanotte.

La vecchia dietro la cattedrale

spazza la tomba di ferro.

C'è chi muore d'estate

o aspettano calmi l'inverno?

Un pattino è fermo in salita,

tutti hanno lasciato qualcosa

per correre incontro alla vita.


La notte di Trondheim da Osteria Flegrea


Ad accompagnare i viaggi di Gatto si trova un'importante intensità melodica, di cui sono pregne le sue poesie, testimoniando un desiderio - che si fa necessità - di cantare, il che è proprio degli "uomini limpidi", coloro che "vuotano / le case nel canto, / al cerulo sogno dell'alba".


E limpido come un apparentemente immobile vetro d'acqua è il porsi del poeta davanti all'ineffabile segreto del silenzio armonioso tra profondità marine e sospensioni celesti, tra vita e morte. In questa atmosfera pare impossibile l'affermarsi anche di un singolo vocabolo, laddove la poesia giace, ineffabile, sul velo d'acqua che è il poeta, immobile, senza parole. Sarà allora nel canto, nella più fluida capacità di sciogliere melodicamente il mistero, che si riuscirà a manifestare la poesia. A quel punto le parole innalzate dalla musica saranno state propriamente quelle "poche, timide, ma come sospese nel silenzio che c'era intorno, [...] proprio quelle con cui la sera voleva essere amata dal suo grande bambino".


La spontaneità dell'espressione è però suggerita da una melodia, infatti secondo Gatto la poesia vive "il terrore delicato in cui essa è sospesa ogni volta a trovare la sua voce al momento in cui tutte le parole tacciono". Non esiste scavo ermetico nel proprio segreto che affermi la parola in Gatto, non c'è educazione che strappi dall'anima il vocabolo, perciò si rende necessario un addestramento presso la palestra della comunicazione, specialmente quella letteraria, caricata di nuove possibilità.


In questo senso assume maggior valore l'azione del poeta tesa a ridare vitalità ad un vocabolario nobile ormai morente e la sua difesa della rima in modo non aprioristico ma valutando le possibilità che questa offre per la costruzione di cortocircuiti semantici, secondo una visione per cui "la rima corrisponde all'antico richiamo che le parole hanno tra loro come due occhi che sono necessari allo stesso sguardo".


Questo lavoro trova una sua ulteriore giustificazione nella convinzione della possibilità delle parole di imprimersi nei petti altrui, portando talora anche angosce, come afferma il poeta parlando del terribile racconto del comandante delle SS Kappler sulla strage delle Ardeatine ("E nulla andò perduto / di quelle parole, io non le riesco / a staccare da me - e non da me, ma dal fitto / del petto con cui le respiro").


Tuttavia l'intento della poesia gattiana è di fare "costrutto", così la forza creatrice del poeta viene esaltata e, di pari passo, anche la parola, che non si esplica come punto d'arrivo e manifestazione della connessione intima della realtà - comunque resistente nella poetica di Gatto - ma come forte mezzo esploratore e, semmai, manifestazione dell'umile lavoro di un uomo ostinato e impegnato con la vita.


Una madre che dorme

piove in dolcezza dentro di sé

come una grotta

e in fondo al lume ha il suo bambino.

Una madre che dorme

dorme al panneggio ardente d'una fiera

che la guarda mansueta.

È una dolce sera

in mezzo alle pupille

della sua onda quieta.


Una madre che dorme da La forza degli occhi


Emblema dell'impegno con la vita è la figura materna, che compare in tutte le sillogi di Gatto come mito primitivo e tensione presente, in quanto espressione del rapporto da "poveri di spirito" con il mistero dell'esistenza.


Tale immagine estende la sua valenza durante la Seconda Guerra Mondiale, non tanto tramutandosi in una madre patria, quanto in un forte senso di umanità. In questo Gatto prende le distanze dalle posizioni ben più note di Salvatore Quasimodo per difendere una bontà familiare, più intima e allo stesso tempo universale. In riferimento agli anni della Resistenza, che - più evidentemente agli occhi del lettore - risvegliano "in Gatto l'amore per la vita" (Giuseppe Langella - Alfonso Gatto, il poeta del canto fioco), il poeta ha specificato che "non si trattava di lutto o di lutti, non si trattava di occupazione o di 'piedi stranieri'. Era qualcosa di più: era la natura umana offesa".


In questo senso Gatto fa tesoro delle propria esperienza come cantore delle morti, celebrate secondo la ferma convinzione che nella povertà si trovi la serena relazione tra vita e morte, e diviene un poeta della Resistenza, ma estendendone la valenza ben oltre il momento storico così che potesse essere concepita come una condizione duratura dell'esistenza umana, infatti resistendo con coscienza si incomincia "finalmente a durare in noi stessi, a essere".


La voce dei morti è un canto di madri e figli - soprattutto per un poeta che conobbe la perdita di entrambe le figure -, "il fermo legame" e la speranza per la vita perché questa venga educata alla responsabilità; perciò Alfonso Gatto, in quanto uomo d'ascolto, sembra chiaramente dirci, come rileva con acume Massimo Bontempelli, che "noi siamo ognuno responsabile della vita degli altri".


"Ebbi il mio cuore ed anche il vostro cuore, / il cuore di mia madre e dei miei figli / di tutti i vivi uccisi in un istante", così, parlando Per i martiri di piazzale Loreto, il poeta fa emergere un profondo senso e bisogno di fratellanza, senza mai sottovalutare la propria responsabilità anche retorica per "... una memoria / che mai giunge a sbiadirsi, che mai perde / la traccia immaginosa", ma che in questa - manifesta nell'azione del poeta - trova il modo di eternarsi e di eternare una componente impercettibile perché intimamente conservata negli animi. Così si rafforza ulteriormente l'immagine arcaica di cantore della morte per Alfonso Gatto, il quale rimane comunque un poeta inneggiante alla vita e all'amore umile; tuttavia l'usuale espressione lirica - nella raccolta La storia delle vittime, secondo le esigenze del momento - si conforma ad un'epicità e coralità capace di innalzare il canto fino a caricarlo di un'aura mitica, perché si potesse "resistere all'empiria", lavorando "permanentemente per una rivoluzione che avesse nell'uomo il suo centro" - secondo una modalità antica e nuova in un Novecento ricco di singole trivellazioni d'anima.


Così il topos della morte si rinnova, caricandosi ulteriormente della propria ambivalenza. La morte è chiaramente costante e sorprendente; anzi, proprio nella sua rilevata costanza si manifesta la sorpresa, che spesso muove il meccanismo poetico come espressione di attaccamento alla vita nell'emersa coscienza che "tutto di noi gran tempo ebbe la morte".


La meraviglia - gridala - è del cielo

aperto a dirsi cielo dentro il cielo.

La meraviglia - tacila - è del cuore

richiuso a dirsi cuore dentro il cuore.


Allegoria delle meraviglie da Rime di viaggio per la terra dipinta


Delle due vie meravigliose gode tutta la produzione gattiana, espressione uniforme di realtà che, per quanto apparentemente contrastanti possano sembrare (come la meraviglia del cielo e del cuore, la vita e la morte...), si scoprono a convivere, intrecciate perfettamente nel tessuto di un'esistenza sospesa e indicibile, "dopo la vita, prima della morte", per cui è proprio il tremore della sospensione a restituire il senso della fragilità insieme all'orgoglio della resistenza - resistenza in una realtà altra ma soprattutto in noi stessi, che dobbiamo ciascuno dirci "... sono / la vita, il soffio che ti chiama in dono".


Sul tema del dono Gatto torna a più riprese perché in esso si può riassumere il completamento dell'agire poetico; così, ribaltando gli stereotipi, si dipinge come un uomo cui i morti parlano e dedicano attenzioni (non è lui a portare i fiori sulle tombe, ma li raccoglie: "... prendo un fiore / dalla sua tomba..."), e nel privilegio di queste attenzioni ricevute e richieste, ancora e ancora, sempre in spasmodico movimento, può permettersi di dar via ciò che non ha, come la pace, poiché "solo chi non ha pace può darla".


Se la pace è - come detto inizialmente - intimamente conforme alla natura dell'uomo, la tensione ad essa è rappresentata dall'approccio più umano, secondo Gatto, all'esistere, ossia la resistenza; una autentica, che sia povera, perché la povertà ha la capacità di "stringere nel nulla la... gioia".


Pertanto il compito della poesia gattiana, poiché arte veramente umana, è di manifestare la conformità al desiderio di pace e caldeggiare la resistenza: "vi provoca, vi mette di fronte al bisogno della lotta". Ma la poesia è innanzitutto dono, e quella di Gatto vuole fare dono di speranza agli umili "per qualcosa che verrà / e che sempre sta per accadere", se non addirittura di pace, nelle atmosfere idilliche e rarefatte, vuole far dono del mondo, vuole far dono di ciò che il poeta non ha ma è pronto a regalare, fedele alla propria umanità e al più profondo spartito segreto.


"Non t'accorgi che è l'amore / il tuo ridere futile, la mano, / la mano aperta per dar via il mondo?"


"Gli innamorati non sanno

sparire, affermano un bacio

che solo perduto

avrebbe a suggello

lo stacco delle sue labbra.

Così bacia l'aria e l'oblio

così vive Dio

del nulla che secca la bocca

e versa la sete dell'aria nell'aria"


Dietro i muri eterni (tentativo di finale alternativo) da Desinenze


Gatto propone dunque che la sfida alla scoperta delle segrete connessioni esistenziali sia il motivo del nostro resistere e si esplichi con profonda passione e umiltà, perché nell'ascolto del silenzio si riconosca immediatamente l'uomo e si possa dire: "l'anima è sul volto"; un volto che muta e rimane sostanzialmente lo stesso (è proprio il poeta a dichiarare di giungere sempre "al punto di risolversi in un volto sereno e di temerlo").


L'ideale equipaggiamento proposto per la ricerca ostinata è la costruzione di una "natura di idioti", l'essere "imbecille quel tanto che [...] dà gioia", identificandosi con "la bontà quale forma suprema della ragione". Così, armati di modestia, sincerità e determinazione, si andrà in contro a continui dubbi. Ma proprio il "dubbio intero", così lo chiama Gatto, costituisce il più forte agente modificante un amore serrato in se stesso, in modo che possa essere sviscerata una rete di rimandi ricca di ipotesi positive ("forse l'amore è sempre un altro amore / e l'odore al ricordo un altro odore").


L'unico imperativo riguarda il modus operandi, che deve essere caratterizzato da passione, o meglio, da amore, laddove amare è "invocare fisicamente tutto l'essere per una goccia di vita". Allora, specialmente alla luce delle parole di Eugenio Montale, incise sulla lapide dell'amico poeta ("Ad Alfonso Gatto / per cui vita e poesie / furono un'unica testimonianza / d'amore"), non può che levarsi un nuovo dubbio nel sospetto che proprio la sfida autentica alla connessione abbia in sé il senso del traguardo.


In ogni gioia breve e netta scorgo il mio pericolo. Circolo chiuso ad ogni essere è l'amore che lo regge. Tendo a questo dubbio intero, a un divieto in cui cogliere il sospetto e la lusinga del mio movimento. Universo che mi spazia e m'isola, poesia.


Poesia da Poesie (Isola)

Dylan Ruta

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