La prospettiva di un nichilismo olistico “vitale” come superamento dell’esistenzialismo nichilista “
1. Una premessa
Questo articolo non si propone di prospettare una visione solutiva dell’ampiamente discusso problema del nichilismo di matrice occidentale, emerso dalla filosofia, in particolare esistenzialista, del secolo scorso, che ha portato a vivere l’improvvisa mancanza di riferimenti certi, di natura metafisica e permanente, come la sensazione di un precipizio vertiginoso: la stessa che ha causato, nei diversi pensatori, quella sensazione che alcuni hanno chiamato nausea, alcuni angst, e che indica, in buona sostanza, l’avversità esistenziale di un principio oggettivo, avvertito come una minaccia per il soggetto-essente, o, con le parole di Heidegger, per il soggetto nel suo da-sein – esser-ci – o essere-nel-mondo.
L’intento principale di questo intervento è quello di riportare, con sforzo di estrema sintesi, le riflessioni di una scuola di pensiero che è arrivata a interessantissimi spunti di criticità, partendo dai testi della filosofia occidentale del secolo appena trascorso, ed in particolare dai testi di Nietzsche, Heidegger, Stirner, Lacan, ma prendendo in esame anche autori come Descartes, Schopenhauer, Kierkegaard.
Perché le riflessioni di Keiji e di Kojin sono diverse da quelle cui avrebbe potuto arrivare un qualsiasi filosofo occidentale? Il sostrato culturale da cui partono questi autori è molto diverso dal nostro. In primo luogo, la visione orientale dell’ontologia e della metafisica, derivata dalla loro cultura di matrice scintoista e buddista, è di natura olistica: e difatti, la prima critica che viene avanzata all’impostazione occidentale verte sul nostro dualismo, e sulla natura divisa del sé-soggetto.
La metafisica occidentale, sin dagli albori, ha distinto nettamente una dialettica tra l’essere e il non essere, tra l’essere e il nulla; invece, la metafisica giapponese parte dal presupposto della non dualità tra sostanza e non-sostanza, tra permanenza ed impermanenza.
Già dall’introduzione dei precetti del buddismo Madhyamika in Cina e successivamente in Giappone, la realtà veniva definita come vuota (cfr. il concetto di sunyata), concetto condiviso anche con la cultura indiana e dei paesi adiacenti. Invece in Europa, l’essere, il logos dei greci e del nuovo testamento, si oppone fermamente ad un concetto di nulla che appare come un oggetto separato dal soggetto-essente, avvertito come entità distinta che minaccia il soggetto e lo de-limita, prospettandogli la fine della propria coscienza e determinando la sua esistenza nell’inizio e nella fine, quasi come negazione, ed entità negativa.
Esemplare in tal senso è la visione parmenidea, che già distingue l’essere come ciò che è e il non-essere come ciò che non è, operando un distinguo che di fatto è sempre rimasto nel sostrato della metafisica occidentale, fino all’immagine heideggeriana dell’essere, visto come un pesce che emerge, per un tempo brevissimo, dall’oceano del nulla (del non-essere), per poi ricaderci e risolversi al suo interno, perdendo ogni traccia di individualità e di coscienza (cfr. i concetti di essere-per-la-morte e di essere-nel-mondo).
Invece, il concetto orientale di eterna caducità-permanenza di tutte le cose, chiamato argutamente da Otto Lehto transpermanenza, per indicare un’impermanenza di natura trascendente ma in ogni caso permeata da caratteristiche di eterna caducità, che caratterizza ogni cosa in modo assoluto, è concetto di difficile comprensione per la metafisica occidentale, che è portata a distinguere con sistemi dualistici l’eterno dal passeggero, mentre è invece punto di partenza della filosofia giapponese.
È per questo che, dopo l’occidentalizzazione del Giappone, lo stesso problema del precipizio angosciante del nichilismo, affrontato da una cultura sostanzialmente con radici differenti, ha portato a considerazioni di natura molto diversa, e di indubbio interesse per alimentare un dibattito che, a tutt’oggi, non si è ancora esaurito (ma cfr. ad esempio le teorie di E. Severino, per il superamento dell’angoscia nichilista, sull’eternità di tutti gli essenti, che si risolve con una sostanziale negazione del nulla, visto come apparenza ed illusione temporanea).
2. “Il Giappone è il paese dove l’immanenza diviene vuoto. Il Giappone è il paese dove il vuoto è immanente.” Differenze preliminari tra sostrato culturale del pensiero orientale e occidentale
Dopo l’esistenzialismo europeo, il punto di riferimento principale della metafisica occidentale (chiamiamolo Dio, come Nietzsche) è venuto a mancare. Il realismo di matrice materialista, frutto dell’illuminismo e della rivoluzione tecnica, ha spodestato quella proiezione degli ideali umani in un’entità perfetta ed assoluta antropomorfizzata, di feuerbachiana memoria, lasciando un trono vuoto – Dio è morto – e noi l’abbiamo ucciso!
Una critica della scuola di Kyoto al nichilismo occidentale è quella di avere assunto come nuovo punto di partenza quello del soggetto-essente, in aperto contrasto con una proiezione oggettivata del nulla, visto – molto materialmente – quasi come un’entità, proiezione del concetto di nulla e di vuoto, che minaccia il soggetto-essente, delimitando la sua esistenza, e prospettando la fine della sua coscienza e della sua individualità.
Praticamente viene osservato che, a causa della cultura cristiana da cui partiamo, sostrato se vogliamo anche inconsapevole, siamo stati portati a proiettare il concetto di nichilismo in una specie di divinità negativa, che ha tutte le caratteristiche della morte (e non della vita) – e dalla dialettica con la stessa sono nate le sensazioni sartriane di nausea, heideggeriane di angst – o angoscia esistenziale, la follia stessa di Nietzsche, che ha opposto un soggetto eroico – l’oltre-uomo – come soggetto-essente nuovo, autentico, in grado di affrontare e vincere questo nulla oggettivato che lo minaccia, rivalutando i valori in base alla nuova dialettica dualista che ne è emersa (sovversione di tutti i valori – dopo aver sovvertito l’oggetto-antagonista che minaccia e delimita il soggetto, da dio al nulla).
Il problema è proprio questo. Per l’occidente il nuovo punto di partenza è il soggetto, e il nulla diventa l’attitudine che il sé assume (separato dal sé, come sé-oggetto, come pensiero distinto dal pensatore), dopo aver provato ogni altra alternativa, dopo avere sperimentato lo scontro immanente con l’abisso. Per il Giappone, il nulla è il punto di partenza che dissolve ogni altro punto di riferimento, immanente e trascendente, e il vero punto di partenza deve stanziarsi da una assenza del sé – prima vera illusione che rende ogni riflessione soggettiva e capziosa.
Il concetto di essere come nulla, di natura orientale, appare all’occidentale come un controsenso, come una vittoria del secondo sul primo, e non come transpermanenza; il nichilismo concepito in questi termini diventa assoluto potenziale, e non assoluto potere (parleremo a breve della volontà di potenza nella visione di Kojin come volontà di architettura) – ma andiamo con ordine.
La visione occidentale parte da un primo presupposto essenziale, di natura cartesiana: la costruzione di un punto di partenza solido: “io sono”. Il sé coincide con l’essere. Cionondimeno, il nulla viene incontrato sovente: il nichilismo diventa l’incontro tra l’essere (il sé) e il nulla (il non-sé, o meglio la negazione del sé).
Per questo il nulla non viene concepito come nulla assoluto, ma bensì relativo, in quanto in relazione stretta e diretta con il sé, e l’occidente lo concepisce come un nulla sostanziale, oggettivato, che minaccia il sé. Il problema principale di quasi tutto l’esistenzialismo europeo è quello di superare l’angoscia esistenziale e di proporre una soluzione per superarla; ma il problema, secondo la visione orientale, è proprio alla base.
Il sé occidentale vuole conservare la propria essenza, asserendo la propria esistenza, e vuole divenire qualcosa, anche se questo significa divenire il nulla stesso. Nella cultura giapponese, non c’è nessuna volontà di conservare il sé, (il sé in senso stretto non esiste affatto, fa parte di una percezione soggettiva e capziosa). Pertanto, nella visione occidentale-platonico-cristiana il sé diventa un anti-nulla, un non-nulla, che si erge contro il nulla-oggettivato, quasi come a negarne l’inconsistenza, rendendolo palpabile.
La cultura giapponese vede invece il nulla come verità dell’essere, come mistero e risposta all’apparente contraddittorietà tra eternità ed impermanenza. Apparente fintantoché il sé, il soggetto-essente, vive questa divisione interna tra soggetto-essere e oggetto-non-essere, che minaccia il soggetto costringendolo ad ergersi, quasi come un guerriero a difesa dell’essere, contro un’entità-nulla che lo minaccia.
3. Karatani Kojin: struttura e decostruzione
Il libro del 1995 di Kojin, “Architettura come metafora: linguaggio, matematica, economia” è una dettagliata analisi di quella che il filosofo ha definito “volontà di architettura”, ovvero la volontà di costruire solide basi in ogni campo del sapere. L’autore sostiene che tale caratteristica appartiene al pensiero occidentale in larga misura, ritenendolo fattore di determinante distinzione con la cultura e la filosofia giapponese.
“In Giappone, la volontà di architettura non esiste – una circostanza che ha permesso al postmodernismo di fiorire in un modo tutto suo. A differenza che in occidente, le forze decostruttive sono costantemente in opera in Giappone.” (Karatani, 1995)
Cos’è la decostruzione?
La decostruzione e il nichilismo sono due aspetti del medesimo problema: il nichilista viene visto, infatti, come critico di un egoismo trascendente, in quanto distruttore di valori prestabiliti. “I filosofi, sin dai tempi di Platone, sono tornati a ricorrere ancora ed ancora a figure architettoniche e sistemiche, metaforiche, come una via per trovare una base solida e stabile, senza la quale i loro sistemi filosofici sarebbero stati invero instabili. Non è una coincidenza, se definiamo decostruzione quel movimento che cerca di criticare la metafisica che si è sviluppata sin dai tempi di Platone.”
Ma tale procedimento non parte dall’autore, o da chi voglia abbracciare le sue idee: difatti la volontà di costruire un edificio solido, in ultimo luogo, non realizza la fondazione di una base stabile, ma rivela invece la reale assenza del proprio fondamento.
In tal senso, Karatani ritiene che il sé si trova ad affrontare una mancanza di fondamento come un risultato del suo sforzo di creare una solida base al proprio sistema. Il tentativo di creare qualcosa dal nulla, in sostanza, non fa che far risultare con maggiore evidenza il nulla che ne è alla base.
In questa relazione, a Karatani appare logica conclusione fare coincidere la decostruzione del pensiero metafisico occidentale con quegli stessi sistemi che intendono decostruire; in questo senso afferma: il nichilismo è il platonismo, l’ateismo è la cristianità (in quanto dirette e inevitabili conseguenze – ricordiamo – nell’ottica del pensiero orientale di natura olistica e non dualistica).
L’eccesso di costruzione viene interpretato come una reazione al rapporto tra soggetto-essente e oggetto-nulla, come tentativo di annientamento del vuoto (così come supra, un nulla oggettivato e antagonista del soggetto).
In questo senso, il nulla deve essere annientato per fare spazio all’essere; e questo obiettivo viene visto come il fine ultimo di questi sistemi, realizzati attraverso l’anzidetta volontà di architettura (che si richiama alla volontà di potenza di Nietzsche).
La critica di Karatani al pensiero occidentale è vicina a quella di Heidegger, che difatti cita con approvazione: “L’essere non ci offre nessuna base o fondamento su cui possiamo costruire, e alla quale possiamo aggrapparci. L’essere è il rifiuto dell’urgenza di tale fondamento; rimuove ogni base, è abissale.” Heidegger arriva a conclusioni molto vicine al pensiero giapponese: “L’essere è per noi il più vuoto, il più universale, il più intellegibile, il più usato, il più affidabile, il più dimenticato, il più discusso.” Secondo Karatani, Heidegger non ha voluto sviluppare una risposta definitiva alla problematica, perché per lui, ciò che era più importante era non rispondere.
Nel libro del filosofo giapponese, viene affrontata una lucida critica al pensiero di molti filosofi occidentali, con argomentazioni e sviluppi di concreto interesse, attraverso l’appropriazione del pensiero occidentale come strumento per la sua stessa decostruzione; lo stesso metodo viene applicato ai campi della scienza, del linguaggio, della matematica, dell’economia, a riprova di un trend acquisito nel modus operandi occidentale, derivato da un sostrato culturale consolidato – e spesso addirittura inconsapevole.
La posizione di Karatani, nello scontro dialettico tra le due culture, è che solo il nichilismo (assoluto, e non relativo, vedi supra) e la decostruzione possono creare una turbolenza tale da superare il velo di illusione dualista e soggettiva che permea la nostra concezione dell’esistenza, della metafisica e dell’ontologia.
Tutte le basi crollano.
Tutte le strutture sono destrutturate.
Tutti i centri decentrati.
Tutti i soggetti si sono differenziati.
Il risultato dell’analisi di Karatani è un mondo senza basi, senza riferimenti, di pura differenza.
L’essere è differenza; la differenza è il nulla.
4. Nishitani Keiji: essere e nulla
Il libro di Nishitani, “L’auto-superamento del nichilismo” (pubblicato in inglese nel 1990), fornisce una lucida critica della storia del pensiero occidentale. Si propone di spiegare le tracce dello sviluppo dell’esistenzialismo in quanto nichilismo – o meglio – dell’auto-superamento di questo tipo di nichilismo.
Nishitani parte dall’idea centrale di un punto di partenza, che vede il vuoto come punto di riferimento iniziale (ku no tachiba), nel libro “Religione e nulla”. Nelle opere di questo autore il dialogo tra oriente e occidente non solo è possibile, ma pieno di spunti di indubbio pregio. Nishitani analizza con rigore scientifico ed oggettivo il pensiero occidentale, decostruendolo dal suo interno.
Nel capitolo iniziale della sua opera, analizza il nichilismo in quanto esistenza: “l’approccio adottato sinora nello studio del nichilismo non è invero nichilista”, in quanto condizionato dalla soggettività e dal sé che non si estrania dalla propria posizione di soggetto-essente, e per questo motivo l’autore propone di approcciarsi al nichilismo nichilisticamente. Suona davvero come una tautologia, ma non lo è affatto.
Questo approccio intende superare la distinzione tra soggetto e oggetto, tra il filosofo e la propria filosofia; osservare il nichilismo “dal di fuori” (da una distanza), crea una fondamentale divisione del sé: “fintantoché il punto di osservazione sarà presente, il sé rimarrà diviso in due: il sé osservante e il sé che viene osservato.” Nishitani fa proprie le riflessioni dell’esistenzialismo europeo, dicendo, prima di tutto, che “se il nichilismo è qualcosa, è certamente e prima di tutto un problema del sé”. Quindi, tanto per cominciare, il nichilismo e l’esistenza devono superare il punto di partenza del sé osservatore, e tutti i dualismi che di tale presupposto sono diretta conseguenza.
Il nichilismo, come dice Nishitani, “diventa un problema solo quando il sé diventa un problema, quando il punto di riferimento noto come sé diventa un problema per sé stesso.” Keiji si riferisce certamente alla manifestazione del nulla che invade il cuore dell’essere, raggiando una luce decostruttiva su tutto ciò che il sé aveva percepito come stabile e sicuro, esattamente come il punto di partenza occidentale dell’ “io sono”, in quanto base dell’essere.
Nel contesto dell’occidentale “io sono”, l’ego auto-affermantesi e autonomo, diventa un soggetto non più capace di differenziare sé stesso da sé stesso come un oggetto per sé stesso, incapace di vedersi separato da sé stesso. Questo porta al collasso della struttura logica soggetto-oggetto di cui abbiamo parlato, su cui si basa la struttura dell’epistemologia occidentale. Il soggetto collassa nella pura volontà di potenza, assolutamente libero nella sua pura soggettività: con le parole di Sartre, l’uomo diventa condannato ad essere libero. Questa è la conclusione logica della divisione del sé nel pensiero occidentale.
Vi sono, nell’opera di Nishitani, dimostrazioni lucidissime di questo dualismo, che partono da Descartes, Schopenhauer, Kant, e paralleli con la schizofrenia moderna di sorprendente interesse. Il filosofo ritiene che l’angoscia esistenziale dell’esistenzialismo del novecento sia il frutto di un collasso di questo sistema: il sé-soggetto e il sé-oggetto, distinti come il “vero” sé e il sé “ordinario”, quando la base ontologica viene a mancare (con la morte di Dio, con le parole di Nietzsche), costringono i due sé a diventare uno solo, e questo spiega, ad esempio, il concetto di essere-per-la-morte di Heidegger, o la scelta di libertà dall’abisso di Sartre, nella rivelazione di un’impossibilità ulteriore di qualsiasi distinzione tra soggetto e oggetto del sé.
Vengono ripresi i temi già trattati in precedenza, del nulla concepito come violenza del vuoto sul soggetto-essente, che non riesce ad abbracciare la totalità della transpermanenza in quanto eterna impernanenza. Keiji arriva persino a definire l’esistenzialismo come un “cristianesimo ateo per i letterati nichilisti”, in quanto eredita dei temi cruciali dal cristianesimo, come quello del pentimento, e un senso di costante tensione verso una redenzione liberatrice, nonostante molti esistenzialisti fossero dichiaratamente atei – rivelando nuovamente l’importanza del sostrato culturale, anche e soprattutto non consapevole, di molti pensatori europei.
Nishitani definisce il nulla del pensiero europeo come un “nulla-dio-salvatore, nell’età spiritualmente vuota del nichilismo”: nulla ha più valore in quest’epoca, il che significa che il nulla ha valore, diventando il depositario di nuovi valori, dopo la sovversione di quelli precedenti: il tipico pensiero che ne deriva, in Europa, si rispecchia in frasi tipo, come “non so cosa desidero o in cosa credere”, “nulla sembra avere senso”, “nulla importa”, e porta il filosofo esistenzialista ad affrontare un dilemma, che lo costringe a rifuggire questo stato di noia, di cadere-nel-mondo, cercando attivamente una liberazione trascendente. Questo progetto, ritiene Keiji, è tipicamente occidentale, ed è il risultato di un errore fondamentale a monte.
Nishitani ritiene questa tensione il residuo di una cultura che è portata a cercare, in ogni significato, un significante superiore, a ritroso, fino alla ragione prima, che comporta inevitabilmente l’esigenza di aggrapparsi a un fondamento dell’essere (che diventa il significante ultimo), che vede l’essere come opposto – attivamente e fondamentalmente – al nulla. Siamo tutti intrappolati in dei corpi, vivendo vite da peccatori, in un mondo senza dio. Questo porta l’uomo a trovare la liberazione solo nella morte: l’abisso esistenzialista è irraggiungibile, perché delimitato dalla morte.
Anche per Heidegger l’esser-ci era un essere-per-la-morte: l’ansia esistenzialista diventa molto simile alla paura della morte. Eppure il filosofo tedesco, se non fosse stato anch’egli vincolato a principi di natura dualistica, perché avrebbe parlato di esistenza “autentica” e “non autentica”?
L’esistenzialismo europeo non è riuscito a superare la contraddizione tra realtà e caducità, ed anzi, abbraccia il peccato originale come più alto dono e fardello dell’esistenza autentica, vedendo l’abisso del nulla come negazione assoluta della vita, come principio dell’annichilimento distruttivo: il nulla viene oggettivato come il grande altro: il dio che è morto. Dio è la morte.
Anche nella semiotica strutturalista e post-strutturalista, sotto l’influenza di Saussure e Barthes, il soggetto viene decentrato: “l’autore è morto, la storia è finita, e dio è morto…l’essere è nulla.”
Ma il problema persiste, non viene superato: il nulla è lì fuori, da qualche parte. La persistenza della differenza del nulla, come oggetto esterno dal sé-essente, permane, e il soggetto non è mai trattato come esperienza, ma sempre come soggetto separato dall’altro, sia esso dio, il nulla, o qualsiasi altra cosa – sia esso X oppure 0.
Il punto di riferimento principale di ogni sistema occidentale resta questo: il soggetto in quanto essere, cui si oppone un non-soggetto in quanto non-essere, di diversa natura. Fintantoché il soggetto resta limitato dalla morte (il non-soggetto assoluto) o dalla differenza (il non-soggetto relativo) la delimitazione del soggetto pensante non ha altre vie d’uscita dal cerchio che le seguenti:
a) affermare la propria progettualità attiva del suo mortale essere-nel-mondo in modo molto risoluto – la soggettività auto-affermantesi dell’individualismo; (cfr. Stirner)
b) negare qualsiasi direzione della volontà e responsabilità del soggetto, a favore di un’ermeneutica decostruttiva e transpersonale di assoluta altruità.
Ambedue questi approcci non esaminano, però, il rapporto tra pensatore e pensiero, e, citando Socrate, una vita non attentamente analizzata non merita di essere vissuta.
Tutte le illusioni della soggettività, che viziano l’approccio del pensiero occidentale, secondo Nishitani, derivano da un’illusione fondamentale: il desiderio del sé di auto-preservazione, per cui, secondo gli occidentali, “la fine del pensiero cosciente diventa la fine della vita”. È per questo che per noi l’assenza e la morte diventano sinonimi di vuoto, e restano esterni all’esperienza dell’uomo in senso assoluto.
Il primo punto di incomunicabilità tra occidente e oriente è proprio questo: là dove noi diremmo l’essere è, e non è un niente, un orientale obietterebbe: “Non ha senso! Tu sei nulla.” Questo perché nella loro esperienza ontologica il sé deve prima di tutto separarsi da sé stesso, per vivere l’esperienza dell’altruità in prima persona. Solo così si può arrivare a sostenere “Mondo (non-sé) = Soggetto (sé) = Essere = Nulla”, relazione che, a prima vista, a un occidentale sembra priva di senso.
Ed è per questo che gli esistenzialisti, secondo Nishitani, non hanno potuto vivere l’esperienza dell’abisso come un’esperienza positiva, perché per loro il nulla non era collegato a significati di vita o verità, ma di morte. Questo perché questi pensatori non sono riusciti ad interiorizzare l’esperienza del nulla, interpretandola come un oggetto separato dal sé, che lo delimitava e violentava: il nulla come privo di vita, e sua negazione assoluta.
Questo anche e soprattutto per il nostro sostrato linguistico, religioso, culturale, filosofico, lo stesso che porta gli orientali a vedere la vita come potenziata dalla contemplazione del nulla eterno, invece che minacciata dallo stesso.
In questo processo, il nichilismo europeo viene visto come una fase ultima di un problema cronico, ma anche come la possibilità di superare lo stesso problema attraverso l’esperienza autentica del nichilismo. Per questo l’opera di Keiji si intitola “L’auto-superamento del nichilismo”, “The self-overcoming of nihilism”.
Un discorso a parte Nishitani riserva al valore del silenzio: l’esigenza occidentale, per cui ogni essente deve fondarsi su basi solide, impedisce di scoprire il valore del silenzio, che può essere compreso solo una volta che la mancanza di fondamenta è stata provata e consapevolmente acquisita: il nulla e l’assenza, e l’istinto iperprotettivo dell’ego contro la condizione zero, portano ad un eccesso di strutture, ad un’enormità di architetture dell’apparenza. Le menti occidentali vogliono infatti compensare la minaccia del silenzio (del vuoto in quanto oggetto) con un eccesso di essere. In questo senso, il nichilista occidentale, nell’affrontare il vuoto, finisce per feticizzare l’essere: la vita diventa qualcosa per cui combattere, l’essere diventa qualcosa cui dare forma e sostanza, nell’architettura delle apparenze.
Per questo Keiji ritiene il vuoto metafisico post-cristiano come una conseguenza logica della cristianità in quanto tale: la morte di dio ha portato ad un’era di nichilismo secolare; ma così la volontà di architettura rischia di diventare progetto della propria rovina.
Dopo un’attenta critica a Stirner e Lacan, e alle loro posizioni di individualismo – a conferma del problema persistente della relazione soggetto-oggetto – Keiji si sofferma su Heidegger: l’ansia – angst – esistenziale nasce dall’uomo che si ritrova “ad affrontare il nulla della possibile impossibilità dell’esistenza”. Da questo, il filosofo tedesco sviluppa un punto di partenza soggettivo attivo, solido, di “dialogo con il nulla”, e fermamente “resta su quel punto di sostegno” – in una posizione di attaccamento al sé, di auto-preservazione del soggetto-essente.
Nishitani non si approccia ai pensatori occidentali riservando giudizi o con un senso di superiorità, ma ritiene semplicemente che il nichilismo europeo difetti della capacità di auto-decostruirsi – o almeno di farlo in modo non violento. Fintantoché vedremo il nulla come una “cosa” a noi esterna, non potremo mai vivere il vuoto in quanto esperienza: fintantoché vedremo solo l’immagine ed il riflesso della verità, ne vedremo sempre solo una parte; fintantoché l’essere e il nulla saranno, per noi, ai due estremi di una corda, ai cui due poli vi sono il sé ed il non-sé, l’unità dell’essere e del nulla resterà un controsenso, vissuto con un’estrema tensione e un dolore senza fine.
Comprendere l’unità della natura illusoria dell’essere e di quella ineffabile del nulla si risolve in una rivelazione semplice, vissuta come orizzonte degli eventi del soggetto-mondo, non dualistico.
Secondo la visione giapponese, “il sé è una costruzione artificiale che inibisce la visione, e pertanto è meglio che sia dissolta.” L’interpretazione di Nishitani, un orientale con una pregnante formazione occidentale, che ha letto la storia del nostro pensiero con un punto di vista sia europeo che giapponese, lo ha portato a vedere il nostro nichilismo come una sorta di malattia mentale collettiva, simile alla follia, che porta ad un estraniamento radicale.
5. Conclusioni
Certamente il pensiero della scuola di Kyoto non vuole essere una soluzione o un superamento del pensiero occidentale: è però un utile spunto di riflessione, in un mondo dove ormai differenti visioni interculturali si sono intersecate, per valutare criticamente diverse problematiche, da diverse prospettive. La riflessione di questi autori giapponesi ha certamente dimostrato che la concezione dell’essere in quanto nulla non è impossibile né contraddittoria, (se non in apparenza) e soprattutto che è possibile vivere l’esperienza del nichilismo senza un opprimente senso di angst esistenziale, concedendo una nuova visuale di non-attaccamento al segno e alla struttura – sia essa X oppure 0.
Come ha scritto Karatani: “le architetture dell’essere hanno sempre nascosto l’assenza delle proprie fondamenta”. L’assenza di fondamenta è assenza di riferimento, e, in ultima istanza, assenza di assenza. La conclusione finale del pensiero olistico di questi autori è la seguente: soggetto (sé) = mondo (non-sé) – ego (sé) = altro (non-sé) – sostanza (sé-soggetto) = vuoto (sé-oggetto) – essere (permanenza) = nulla (impermanenza).
Un’ultima osservazione personale. Ho affrontato il tema del nichilismo da occidentale, come percorso conoscitivo, intimo e lirico, in alcune mie opere di poesia, e solo alcuni mesi dopo averle completate ho scoperto il pensiero di Keiji e di Kojin.
Con mia grande sorpresa, ho riscontrato che alcune delle loro osservazioni erano state fatte mie per chissà quale scherzo del destino. Forse il loro pensiero, in fondo, non è frutto di una cultura così lontana ed esotica (come anche ha ritenuto di osservare qualcuno), ma consente una critica oggettiva al pensiero occidentale, fatta da cittadini del mondo, che sono riusciti, forse meglio di noi, ad estraniarsi dal problema di fondo, permettendo una dialettica senza dubbio utile e costruttiva.
“[…] osservo cadere il mio corpo, il mio tempo,
il volto sorridere al cielo;
e mentre una lacrima graffia quel viso
l’eterno nel nulla si svela.”
(da “L’arco e la lira” – “La Lira”, M.F.)
Mario Famularo