Il postmoderno: crisi d’identità della società contemporanea - di Cristiana Lucidi
Nel 1979 fu pubblicato il volume del filosofo francese Jean-François Lyotard intitolato “La condition postmoderne: rapport sur le savoir”. Nella sua brevità, il saggio conduce un’approfondita e, aggiungerei, drammatica analisi dell’epoca contemporanea, soffermandosi soprattutto su quelle che sono state le cause scatenanti dell’attuale crisi di valori.
Fu Lyotard, per primo, a tentare di dare una spiegazione di quella multiforme e “mutaforme” realtà che è il postmoderno: è il momento storico che decreta la fine di “grandi racconti” dell’età moderna e, con essa, quella della storia. Fine dei grandi racconti e fine della storia non sono due concetti da prendere alla leggera e, soprattutto, ad litteram. Per “grandi racconti” Lyotard intendeva i grandi miti che i filosofi moderni posero a fondamento ontologico ed epistemologico del mondo: il mito del progresso, il mito della ragione e quello della sovranità popolare per gli Illuministi, il mito della lotta di classe e dell’egualitarismo sociale per i Marxisti, il mito dell’unitarietà dell’Essere e della assolutezza dello spirito per gli Idealisti. Per “fine della storia” intendeva la fine di quel particolare contesto che permise il sorgere e l’affermarsi di tali pensieri forti, ossia la storia intesa come progresso lineare e sempre teso ad un’evoluzione in meglio.
Il filosofo francese, ancora condizionato da una concezione eurocentrica dei processi storici, sociali, culturali ed esistenziali, pose come terminus post quem per l’avvento del postmoderno la shoah. L’eccidio degli ebrei da parte dei nazisti parve, ai suoi occhi, come l’evento che pose fine ai “grandi racconti” dell’Illuminismo: in primis, perché gli strumenti del progresso e della ragione furono sistematicamente messi al servizio del potere e per di più non con scopi positivi, ma al solo fine di operare uno sterminio sistematico; in secundiis, perché l’idea di sovranità popolare fu del tutto annientata dall’avvento simultaneo di regimi totalitaristi in Spagna (Franchismo), Italia (Fascismo), Germania (Nazismo).
A questo punto, un interrogativo si insinua nella mente del filosofo: cosa fare per porre un rimedio all’inesorabile instabilità derivante dal crollo delle nostre stesse fondamenta esistenziali e culturali?
Lyotard trova la risposta nella sostituzione delle “macrologie” immanenti, assolute, uniche ed universali con “micrologie” contingenti, relative, frammentarie e particolari. In altre parole, alla Verità adamantina dei grandi sistemi filosofici del passato contrappone molteplici e cangianti verità che potrebbero essere definite “liquide”, dal momento che la loro peculiarità è proprio nella capacità di adattamento ad ogni tempo, luogo, contesto e, addirittura, individuo.
Il nostro accademico Gianni Vattimo ha dato, qualche tempo dopo Lyotard, un’analoga interpretazione dell’età postmoderna, ma aggiungendo alcuni particolari per nulla trascurabili. Il filosofo, infatti, ha ravvisato i primi sintomi di tale malattia esistenziale (una sorta di “mal de vivre”, oserei definirla) nel pensiero di Friederich Nietzsche: la morte di Dio proclamata a gran voce da Zarathustra è da intendersi come il tramonto degli Assoluti, come il rifiuto dei valori che i grandi sistemi filosofici hanno imposto come supremi. Citando Vattimo nella sua opera “La fine della modernità” (1985), “In Nietzsche […] Dio muore proprio in quanto il sapere non ha più bisogno di arrivare alle sue cause ultime, l’uomo non ha più bisogno di credersi un’anima immortale ecc. Anche se Dio muore perché lo si deve negare in nome dello stesso imperativo di verità che ci è sempre stato presentato come una sua legge, con lui perde anche senso l’imperativo della verità […] E’ qui, in questa accentuazione della superfluità dei valori ultimi, la radice del nichilismo compiuto”.
A questo punto, la mia onestà intellettuale mi imporrebbe di riportare l’intero volume, ma mi limiterò a rimandare alla lettura del medesimo (il quale tuttavia poco aggiunge a quanto detto da Lyotard ed anche da Nietzsche nelle sue opere). Infatti, questo articolo ha il solo scopo di mettere nero su bianco un punto di vista, il mio, prendendo le mosse da voci ben più autorevoli della mia.
Dopo aver trattato dei prodromi del postmoderno, rinvenuti non solo in Nietzsche ma anche in Heidegger, Vattimo, analogamente a Lyotard, tenta di rovistare tra le macerie che restano dopo il rovinoso crollo dei “valori ultimi” alla ricerca di materiale per “ricostruire il mondo”.
Tale ricostruzione, tuttavia, non avviene tramite la riappropriazione dei miti moderni riproposti sotto mentite spoglie. Il filosofo postmoderno, tenendo presente che quanto più forte, monolitico, imponente è il pensiero, tanto più rovinoso ed irrecuperabile è il suo venir meno, deve letteralmente ingerire, metabolizzare e quindi espellere le idee e gli ideali che mossero i grandi sistemi del passato, per poi sostituirli con un pensiero eguale ma contrario. Così, Vattimo contrappone al “pensiero forte” dei filosofi moderni un “pensiero debole”, che, come già detto prima a proposito di Lyotard, deve qualificarsi come la nemesi e l’antitesi della Verità. E questo pensiero è definito “debole” proprio per la sua riconosciuta incapacità di trovare una spiegazione ultima ed universalmente valida del reale in quanto questo, per la sua intrinseca pluralità, non può essere sclerotizzato in una monade ermeneutica.
Quelle di Lyotard e Vattimo sono visioni positive del postmoderno, inteso come un “modus cogendi” che viene dopo il moderno e contro il moderno va. Alle loro voci si associa quella dell’olandese Hans Bertens, che nel 1995 pubblicò il suo saggio “The idea of the postmodern”.
Scarnificando il contenuto dello scritto, resta un’idea di fondo: a caratterizzare l’età postmoderna è un radicale dubbio ontologico ed epistemologico che si estende, per sua natura, ad ogni ambito dello scibile. Infatti, per “dubbio ontologico” si intende il radicale scetticismo nei confronti dello “stare al mondo” dell’uomo: è un dubbio irresolubile nei confronti del nostro ruolo nel mondo (ove per “mondo” si intende la realtà visibile); per “dubbio epistemologico”, similarmente, si intende il radicale scetticismo nei confronti dei mezzi di conoscenza della realtà. Conseguenza di tale demolizione è, ancora una volta, una visione del mondo frammentaria e discontinua, un “pensiero dell’erranza”, come argutamente teorizza Vattimo.
Tuttavia, Bertens non ha una concezione negativa di questa “deriva del pensiero” (una “quarta navigazione” che a me pare essere più un naufragio): egli, ottimisticamente, accoglie la frammentarietà e la discontinuità come valori che proteggono dal rischio di una verità assoluta, unica ed immutabile.
Come facilmente intuibile, non tutti si rivelarono concordi in toto con tali concezioni, e dal punto di vista della collocazione storica del fenomeno della postmodernità e dal punto di vista di una sua interpretazione positiva.
Per quanto concerne la collocazione storica, ossia il fattore o la concomitanza di più avvenimenti che permisero lo sviluppo di un pensiero “altro”, spiccano due eminenti voci italiane: Remo Ceserani, docente, critico letterario e studioso di letteratura comparata, e il collega Romano Luperini. I due, tuttavia, hanno postulato teorie diametralmente tra loro differenti. Infatti, se Ceserani pone il germe del postmoderno nell’avvento del capitalismo avanzato all’indomani del secondo conflitto mondiale, Luperini è più propenso a collocare il fattore scatenante del fenomeno (oserei dire “esistenziale”) addirittura al tempo delle grande Rivoluzione Industriale del XVIII secolo.
Un pensiero affine a quello di Ceserani si trova nello statunitense Fredric Jameson ed è già evidente nel titolo della sua più nota opera: “Postmodernism or the cultural logic of late capitalism”. Da marxista, Jameson attribuisce fondamentale importanza al contesto socio-economico in cui il fenomeno del postmoderno si è sviluppato: pertanto il “movimento culturale” altro non è che la sovrastruttura sorta sulla struttura del capitalismo avanzato postbellico, un capitalismo non solo globale ma anche decentrato, dal momento che ormai sfrutta quasi principalmente il World Wide Web. Quella del teorico statunitense si rivela una prospettiva distopica: la società in cui viviamo è frutto di una degenerazione capitalistica e la crisi dei “grandi racconti” moderni non è affatto positiva, in quanto ha portato alla proliferazione di molteplici verità parziali funzionali alla logica di mercato. In questo senso, la frammentarietà diviene un disvalore: i frenetici cambiamenti cui siamo quasi costretti (si veda la frequenza con cui le tecnologie vengono aggiornate) seguono unicamente la logica dell’omologazione. Ancora, Jameson sostiene che una prospettiva positiva quale quella di Lyotard si rivela nociva: porta infatti l’uomo a perdere del tutto il senso della storia, della profondità temporale, del contatto col passato, dimentico del fatto che la società, come un organismo, non è mai nuova a se stessa (una sorta di araba fenice), ma muta nella forma serbando sempre la medesima sostanza. Se ciò è deleterio in politica (ahimé, lo si sta notando), è altrettanto dannoso per la società tutta: il pensiero postmoderno non è liberazione dai sistemi assoluti, ma mortale appiattimento nel presente e nell’effimero ed infinita deriva relativistica. Con sorpresa ho notato che anche Luperini si dimostra in toto concorde col pensiero dello statunitense, al quale aggiunge una notazione non trascurabile: gli esponenti e fautori del postmoderno sia in Europa che negli Stati Uniti sono solo complici del potere e non hanno avuto la capacità di assumere una posizione critica nei confronti del pensiero dominante in quanto invischiati nella melma della logica del mercato globale.
Considerando i nostri due critici, ammetto che non è facile dissentire da entrambe le opinioni, anche se, a mio parere, un fenomeno tanto esteso e radicato quale il postmoderno necessariamente deve essersi sviluppato lentamente e, pertanto, trova i prodromi nei secoli addietro. Spiegherò meglio: negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale la società occidentale (cioè europea e dell’America del nord) sia nei fenomeni di massa, come lo sviluppo delle telecomunicazioni, l’omologarsi di gusti e tendenze (non a caso per essere socialmente accettati si era e si è costretti a rinunciare al proprio pensiero per lasciarsi assorbire dal senso comune), che nella sfiducia in se stessi, nell’umanità in generale, nella unitarietà e comprensibilità del mondo non emersero ex abrupto, bensì come piena realizzazione di un processo annoso. E tale processo, come spiega Luperini, ha il suo principio nella svolta epocale segnata dalla nascita della cosiddetta “società di massa” durante la suddetta Rivoluzione Industriale. Credo ci siano anche numerosi altri argomenti a suo favore: come si può collocare scrittori quali Proust, Svevo, Pirandello (solo per citarne alcuni) nel pensiero “moderno”? Eppure scrissero prima dell’avvento del secondo conflitto mondiale. Inoltre, la psicanalisi di un Freud o ancor più uno Jung può essere associata alla filosofia di un Kant o un Hegel? A me non pare. Bisogna poi inserire nel novero di coloro che si rivelarono postmoderni “ante litteram” i già citati Nietzsche ed Heidegger.
Oltre a questi illustri nomi, è necessario tenere in conto la società tra la Rivoluzione Industriale e la seconda guerra mondiale, società della quale i grandi filosofi, scrittori, scienziati altro non furono che portavoce. Se da un lato v’erano le masse di proletari indigenti, dall’altro si affermava una borghesia sempre più caratterizzata dalla frivolezza e fagocitata dalle ferree leggi dell’apparenza e del conformismo (si vedano a tal proposito i romanzi di Charles Dickens), che esprimeva i suoi malesseri sotto forma di nevrosi. E cos’altro è la nevrosi se non la reazione all’ansia esistenziale, il sintomo epidermico di un male interiore, per il quale non sembrava esserci, cura dal momento che le cause, oltre ad essere molteplici, erano allora ancora ignote?
Con ciò, si torna al paragone tra il fenomeno del postmoderno e la malattia, che da iniziale nevrosi degenererà in schizofrenia, ossia in una concezione distorta e frammentaria dello spazio e, soprattutto, del tempo (inteso come memoria storica). Va da sé, a questo punto, un cenno ad un filosofo francese che meglio d’ogni altro ha saputo vivisezionare la società contemporanea, analizzandone accuratamente i tessuti corrotti. Parlo di Jean Baudrillard, autore di numerose opere alla cui base v’è proprio la trattazione del postmoderno come fenomeno di massa e morbo epidemico. Sintetizzando il suo pensiero in merito, il filosofo e sociologo fu il primo a parlare di “società dei simulacra”, ove per simulacra si intende le immagini che del reale ci vengono fornite dagli schermi virtuali, dapprima dei televisori e in seguito anche dei computer. Nel pensiero di Baudrillard ho riscontrato un legame col filosofo Platone, vissuto nel IV secolo a.C., che definiva le arti figurative “mìmesis mimèseos”, ossia “imitazione dell’imitazione”, dal momento che esse imitano il reale che a sua volta imita il mondo delle Idee. Allo stesso modo, anche la rappresentazione della realtà riprodotta dai supporti virtuali altro non è che imitazione della realtà stessa, mera simulazione. Nel concreto, comunicare tramite telefono o messaggistica istantanea non esaurisce una rapporto umano, non sostituisce una relazione diretta e concreta con un altro individuo; guardare la tv non significa assistere direttamente a ciò che dallo schermo viene riflesso. Per questo il filosofo contemporaneo parla di un processo di derealizzazione: il rapporto dell’individuo con la realtà materiale ha bisogno di essere simulato prima di attualizzarsi; si vive in uno straniante stato allucinatorio in cui i simulacra hanno sostituito la realtà instaurando una catena di infiniti rimandi che però restano nell’ambito del virtuale.
Ho notato una interessante connessione tra l’analisi di Baudrillard ed un fenomeno linguistico che affligge un numero sempre maggiore di giovani: l’analfabetismo funzionale, detto anche analfabetismo di ritorno. Questo differisce dall’analfabetismo propriamente detto per il fatto che chi ne è affetto sa leggere e scrivere. Il problema sta nella capacità di comprensione ed assimilazione di quanto si legge, di interiorizzazione e valutazione critica dei contenuti di un romanzo, un articolo di giornale, un testo scolastico. Infatti l’analfabeta funzionale ha perso la capacità di porsi in una relazione bilaterale fatta di interscambi col reale proprio perché è del tutto incapace di comunicare con esso, di comprendere gli stimoli esterni e di valutarli criticamente. Così, non è sorprendente se un adolescente (ma anche, ahimé, un trentenne) è in grado di pubblicare “stati” apparentemente profondi e sensati sui social network o di rispondere ad un messaggio in una chat, ma fatica a capire quale sia la differenza tra una sottrazione ed una divisione, o il perché di un fenomeno storico, o addirittura perché bisogni usare un congiuntivo piuttosto che un condizionale.
Tale visione distopica può essere connessa a quella del sopra citato Jameson, al cui pensiero mi sento di aggiungere una notazione: se è plausibile il fatto che l’appiattimento nel presente e nell’effimero della società postmoderna sia frutto dell’omologazione imposta dal mercato globale, pertanto dal sistema economico internazionale, è altrettanto possibile che l’attuale crisi economica possa trovare le sue radici in una più profonda ed annosa crisi culturale. Rimanendo sempre nell’ambito del paragone col morbo, come i sintomi visibili di un’influenza sono causati da uno specifico agente virale invisibile all’occhio, così la crisi economica e politica ormai nota a tutti è provocata da un perire di cultura e valori che, se non invisibile, è quanto meno dai più ignorato.
La perdita del senso della profondità storica, cioè l’incapacità di mantenere un contatto col passato che sia costruttivo e non di nostalgico ed anacronistico rimpianto, è frutto del venir meno della profondità di pensiero prima autocritico, poi critico: una vera e proprie crisi d’identità della società. Il perché si trova senza grandi sforzi: conoscere se stessi e valutare il mondo circostante da più prospettive per poi scegliere, in modo del tutto indipendente dai vincoli della società di massa, quella che sembra essere la migliore è una conquista che richiede un duro, lungo, costante e talora frustrante impegno. In altre parole, è difficile.
Qui posso nuovamente riallacciarmi al pensiero di Jameson, ma anche a quello di Baudrillard. Posso infatti affermare che non solo la logica del “just in time” tipica del modello produttivo toyotista e l’estrema velocità con cui si ottengono risultati dai calcolatori automatici, ma anche l’immediatezza delle comunicazioni e la rapidità con cui circolano le cosiddette “news” a livello internazionale hanno portato ad un preoccupante impigrimento intellettuale, ad uno stato di letargia della curiosità, quella curiosità che porta (ed ha sempre portato) alla ricerca di conoscenza.
Non mi si metta alla gogna se alle cause dello stato larvale del sapere contemporaneo, di questo limbo di ignavi intellettuali, oso aggiungere il gravissimo errore di preferire un abbassamento della cultura, soprattutto a livello scolastico, per renderla a chiunque fruibile (un altro prodotto di massa, in altre parole) piuttosto che cercare di far assurgere i meritevoli ai più alti livelli dell’istruzione.
A questo punto mi si chiederà quale alternativa io proponga, dal momento che ho volutamente lasciato trapelare da quanto scritto la mia totale avversione ad una visione positiva del postmoderno.
Ritengo che il relativismo assoluto in cui si corre il rischio di inabissarsi cedendo all’illusoria e consolatoria prospettiva non di comprendere, ma di sopravvivere al reale tramite micrologie contingenti ed effimere sia un rischio mortale per la società. Con ciò, intendo dire che l’infinita catena di molteplici verità è latrice di una tanto fragile quanto apparente libertà, dal momento che finisce col fagocitare l’individuo nel labirintico sistema di continui rimandi, riducendolo ad un relitto fluttuante a pelo d’acqua ed incapace di scrutare l’abisso sottostante. Lungi da me la volontà di far rivivere ora sistemi filosofici di secoli addietro, posso tuttavia avanzare una proposta, sperando divenga una valida alternativa allo stato di desolante ignoranza e superficialità cui le micrologie ci han ridotti (e continueranno a ridurci): far proprio un po’ di sano scetticismo. Si faccia però attenzione: lo scetticismo da me auspicato non è quello comunemente inteso (altro errore frutto di ignoranza), ma quello che mantiene il significato originario. Infatti, il termine deriva dal greco skèpsis, ossia “ricerca” in senso lato, ricerca intesa come costante dubbio che porta con sé la voglia di conoscere. Se da un lato è vero che il “curioso dubbio” scettico non porta ad una verità assoluta, è tuttavia da escludere che porti ad una molteplicità di verità possibili e contingenti. La ricerca costante ed incessante, costruttivo stimolo alla conoscenza, può portare ad avvicinarsi al vero, senza tuttavia assurgere alla sua contemplazione diretta. È, per così dire, un idealismo ancorato alla realtà, ma non per questo si esaurisce nel materiale: facile cadere nell’errore che realtà sia solo il tangibile, escludendo gli ambiti del pensiero e dell’emotività.
In sintesi, la mia è una proposta macrologica che non imiti, ma prenda le mosse dai grandi sistemi del passato. Un’utopia, lo ammetto, ma resta la speranza che ci si stanchi di saziarsi al desco della cultura di massa come larve su una carogna e si torni ad aver fame di cultura, di quella cultura che non è sterile dottrina nozionistica, bensì germe fecondo che consente un’apertura mentale ed uno spirito critico tali da muoversi col massimo della libertà entro i vincoli della società ed i limiti del reale, senza abbandonarsi passivamente ad essi né lasciarsene fagocitare.
Difficile ma non impossibile: è sufficiente smettere di essere specchio che si lascia esaurire dalle immagini in esso riflesse dagli schermi virtuali e dalla doxa ed iniziare ad essere noi immagine alla ricerca di uno specchio in cui riflettersi.
Cristiana Lucidi