Il ciclo di Pigmalione: grazia ed estasi contemplativa della bellezza, nei versi di Carlo Ragliani -
Carlo Ragliani è voce rara nel panorama contemporaneo della poesia italiana: la sua sensibilità estetica rimanda senza troppe ambiguità a quella tardo settecentesca, tutta intrisa di un senso del bello, riverente al canone classico, ma ideologicamente trafitta da un moto dell’animo tormentato e languido, pervaso da conflitti e da tensioni tipiche del romanticismo più trasportato.
Queste componenti non hanno però nel Ragliani un mero esponente epigonico: la loro collocazione nell’evo contemporaneo assume un prisma di significati completamente nuovi, nel panorama attuale, sia poetico che estetico. Le scelte stilistiche adottate, la sapiente e, a tratti, disperata ricerca del bello, risuona come un’eco drammatica di valori ormai perduti, abbandonati, in un mondo dove i punti di riferimento, il canone, così vivo ed abbagliante nei versi del poeta, appare solo un idolo lontano che ha perso di significato.
Eppure la vita pulsa carnale nei versi che qui mi trovo ad analizzare, e mai mito fu più appropriato di quello prescelto dal poeta: se dovessimo paragonare infatti queste poesie ad una statua di marmo, essa sarebbe calda di lacrime, e pulserebbe del sangue vivo del suo autore. Forse è questa la componente più preziosa di questi versi: non si tratta di mero manierismo d’accademia, ma qui l’esperienza poetica ed estetica viene vissuta realmente dal Ragliani, e di tale esperienza si fa dono al lettore.
Il mito di Pigmalione e Galatea è stato più volte fonte di ispirazione di opere d’ogni sorta, dalla poesia al teatro, dalla musica alla pittura: il re cipriota, deluso a causa dell’audacia e dei vizi delle Propetidi, che avevano osato mettere in dubbio la divinità di Venere e si erano votate alla prostituzione, disgustato nei confronti del sesso femminile, decide, dopo un lungo periodo di astinenza e di solitudine, di modellare una statua di donna a immagine del suo ideale, della quale si innamora teneramente. Egli ottiene da Venere che questo simulacro sia dotato di vita e lo sposa. La dea diviene così il vero artifex di questa eccezionale metamorfosi che, invece di pietrificare la vita, vivifica la pietra, al fine di permettere la perfetta unione degli amanti.
Ecco perché pe ‘l tanto desiderio Dianzi agitava il martello costante Pigmalione; sollevando la polvere Dal nivëo marmo d'ignuda grazia, E quei sospiri suoi ondosi spargeva Sul candore dei seni ancor sperando: Lo struggersi appassionato del cuore A sempiterne età, ed a quelle sorti Imperiture sempre consacra Chi ritrae la vita dai suoi marmi, Per l’amor di lei, e del suo sorriso.
La speranza dell’ideale, che trascina l’artista, deluso, verso la creazione, intesa come esperienza di ricerca della perfezione, della vittoria dell’ideale del bello e del giusto sulle sorti del tempo, dai tratti di una tenerezza invincibile, lo strugge con dedizione unica verso la propria creatura. La connotazione religiosa, sacra, di questa esperienza, nasce da un profondo e quasi doloroso sentimento d’amore. Amore ideale, rivolto ad un viso perfetto, di una dolcezza ricercata e mai trovata, e trasfigurata nell’esperienza creativa, nell’estro romantico ed appassionato, che tramuta la fredda materia, tra i sospiri struggenti, nell’eternificarsi di un’idea prima.
Perciò andranno sempre incantando L’appietosirsi del viso di lei, Immerso nella quiete della grazia; E l’improvviso silenzio del marmo, Che impreziosisce il tormento dell’uomo Nell’agghiacciarsi di ogni suo nudo, Ancor ombreggiato da quei sussurri. Or l’irradiarsi dell’ingenuità Abbevera le carni, assopite Dal pacificarsi dei sospiri. Solo sulle nudità infreddolite Dalla fatica del dramma evocato Si posa il modularsi delle chiome, Mentre sul volto sfavilla Selene, Accasciandosi nel suo materno – avvilirsi.
L’opera è compiuta, Pigmalione osserva la silenziosa rappresentazione del suo ideale, ritratto nella fredda pietra. La quiete di quella pietà artefatta però alimenta il tormento dell’uomo, pur impreziosendolo per la possibilità, ormai concreta, di contemplarne lo splendore e la tensione ideale. L’avvilirsi accogliente dei fiochi bagliori lunari sembra suggerire al lettore i sommessi lamenti dell’affaticato scultore, che si strugge senza posa nel desiderio che il suo ideale possa trascendere la fredda rappresentazione, per incarnarsi nella bellezza reale della vita.
Già il fremito dei labbri, consacrato Al crepitar delle tremule torce, S’infiamma nell’affresco del tramonto Che si sparge sul candore del volto, Ove l’ammorbidirsi delle sete Or cede all’appassionarsi dei baci; Fiorisce delle camelie il vermiglio Nell’esaltarsi dell’estasi eterna.
Ed ecco che il miracolo si compie. Lo scrittore lo suggerisce attraverso una serie di abili scelte cromatiche, attraverso il crepitare delle torce, l’infiammarsi del tramonto – paragonato ad un affresco, quasi a confermare la compenetrazione tra rappresentazione artistica e realtà, metamorfosi della statua che viene confermata dall’affrescarsi del paesaggio – in netto contrasto con il silenzio, l’agghiacciarsi, le nudità infreddolite e la stessa luce lunare dei versi precedenti.
La passione tutta umana dell’incarnarsi dell’ideale la sentiamo nel fiorire vermiglio, che, attraverso l’emozione sanguigna dei sensi umani, concede il realizzarsi dell’estasi, frutto di un ideale plasmato nel mondo materiale, e già solo per questo degna di potere essere definita eterna, perché può permettersi di sfidare il tempo per la sua paradigmaticità, per il suo diventare canone ideale di bellezza e di tenerezza, trasfuso nella terrena materialità della carne.
Le capacità espressive ed eufoniche del Ragliani, sostenute da un impianto metrico solido ma mai invadente, permettono di creare un’abile struttura di suggestioni sensoriali, che lascia intendere solo parte del senso del discorso poetico, riuscendo però a raffigurarne la parte non detta, parzialmente per immagini – definite, plastiche, quasi affaticate nella loro umana condizione – e parzialmente per sensazioni – soffuse lievemente, direttamente al lettore, che può quasi avvertire le suggestioni tattili e sensoriali sottese ad ogni lemma e suono, studiato con precisione preziosa.
Anche l’amore, trasfigurato in questa dimensione eterea, si pinge di una tenerezza irresistibile, ingenua, primordiale; tratto, questo, sempre presente nelle raffigurazioni del mito, come anche nella versione arcadica della poetessa Etrusca Amarilli:
L’imprìa sasso, or casta vergine,
Di pudor le gote tinge;
Ed al braccio, che la cinge,
Dolce forza e schermo fa.
Ed al dir tre volte schiuse
I bei labbri rosei ornati,
E tre volte fur troncati
I suoi detti dai sospir.
Per riassumere il messaggio che mi sembra di leggere, in questa reinterpretazione del mito del Ragliani, voglio citare alcuni versi delle Metamorfosi di Ovidio, che trattano proprio il mito di Pigmalione:
Dum stupet et dubie gaudet fallique veretur,
rursus amans rursusque manu sua vota retractat;
corpus erat: saliunt temptatae pollice venae.
[…]
et erubuit timidumque ad lumina lumen
attollens pariter cum caelo vidit amantem.
Il senso di sorpresa nel realizzare che l’ideale diventa reale, sottolineato dal pulsare vivace delle vene; ma soprattutto il candido sguardo di Galatea che si volge verso il suo creatore, che in essa vede, al contempo, il cielo e l’amante – l’idea e la realtà – l’illimitato e il limitato – l’incredibile ed il credibile, insieme - pariter.
Questo paradosso ha il sapore dei sogni, e desta infatti l’incredulità e l’abbandono, il trasporto autentico di Pigmalione, dell’artista – dell’uomo.
Mario Famularo