Il cultismo di Luìs De Gòngora e il concettismo di Francisco De Quevedo a confronto - di Andrea Peve
A contrario di quanto molti manuali di letteratura, professori e critici vorrebbero farci credere, l’età barocca è attraversata da un incredibile dibattito culturale, che investe i campi più diversi dell’arte e della letteratura. Il periodo che va dalla fine del ‘500 alla metà del ‘600 circa è caratterizzato da un’incredibile congerie di movimenti artistico-letterari, talvolta contrastanti, talvolta accomunati da stilemi di fondo che muovono da un’ideale estetico comune. È il caso della corrente che rappresenta il volto sfolgorante ed esteriore del barocco: in Italia assume il nome di Marinismo (e avrà la sfortuna di essere il movimento predominante, che eserciterà un’influenza tanto profonda da fagocitare ogni altro tentativo di adesione alle diverse correnti di pensiero che attraversano il ‘600); in Francia si esplica nel Preziosismo, il cui nome racconta già buona parte del suo programma; in Inghilterra si assiste alla rapida agonia della breve moda letteraria dell’Eufusimo (e non è un caso che la corrente più estetizzante del barocco in terra anglica non attecchisca); ma è in Spagna che raggiunge la sua massima espressione e una delle più alte vette letterarie della letteratura barocca europea: il culteranesimo.
Fondato dal poeta cordovano Luìs de Gòngora (e chiamato in suo onore anche "gongorismo", esattamente come il Marinismo per il Marino) sulla base di alcuni esperimenti precedenti, nel corso di una tormentata ricerca artistica durata un'intera vita, il culteranesimo venne pesantemente criticato e stigmatizzato dai contemporanei, soprattutto gli appartenenti alla corrente opposta, il concettismo: il nome stesso culteranesimo è derivato da una crasi tra “luteranesimo”, dal momento che i concettisti reputavano i culterani veri eretici della poesia, e “cultismo”, da lengua cùlta, cioè raffinata ed elegante. È importante comunque sottolineare come ognuna delle espressioni europee di cultismo (quasi come una setta pan-europea a cui fa capo la Spagna) non siano delle correnti letterarie che perdurano oltre la morte dei fondatori, né delle scuole i cui stilemi sono destinati a sopravvivere nel corso dei secoli influenzando i posteri: sono piuttosto delle mode letterarie, più o meno effimere, che vanno dall’incredibile fuoco di paglia dell’Eufuismo, della durata di un decennio, all’attardarsi del Marinismo italiano, che a mezzo secolo dalla morte del suo capostipite può già definirsi concluso. Il culteranesimo di Gòngora subirà un destino più triste del Marinismo: morirà col proprio ideatore, né avrà epigoni o continuatori dopo la sua scomparsa, e anzi lascerà ben poche tracce nella letteratura successiva (tralasciando effimeri revival moderni come quello organizzato dai cosiddetti “poeti del ‘27”, tra cui Garcia Lorca, che pretenderanno di rifarsi alla poetica gongorina nella propria esperienza artistica; ciò che fecero fu in realtà riscoprire il grande poeta cordovano e tributare i giusti onori alla sua memoria).
Stando dunque alla satirica definizione che ne danno gli avversari concettisti, il culteranesimo di Gòngora si presenta come una raffinata eresia letteraria. L'unico punto in comune con il concettismo infatti è l'ideale di partenza, cioè staccarsi dall'equilibrio e dalla chiarezza dell'espressione classica, ma tramite il procedimento contrario al concettismo. Se infatti quest’ultimo contrae, rarefà, concentra e aguzza significato e forma, il culteranesimo dilata, espande, sfibra e sfolgora il linguaggio, e con esso significato e forma: obiettivo dichiarato del culteranesimo è "confondere e impressionare con il labirintico, il sensoriale e l'evanescente dell'espressione", tramite un "linguaggio eroico, che ha da esser differente dalla prosa e degno di persone capaci di comprenderlo", a detta di Gòngora stesso. Caratteristiche fondamentali del culteranesimo sono l’ornamentazione estrema del verso, sia da un punto di vista sensoriale attraverso allitterazioni, onomatopee e varie figure di suono, sia lessicale, tramite epiteti e una generale iper-aggettivazione. Si fa inoltre un largo uso di sintassi complessa e labirintica, con la prevalenza per l'ipotassi, costruita per accumulo di periodi concatenati o inclusi spesso sottoposti a inversioni più o meno estreme tramite l'iperbato (secondo il modello latino della costruzione del periodo), e ancora frasi dentro altre frasi, incisi, parentesi, e abuso di punteggiatura: quasi mai in Gòngora si trovano frasi brevi, e sempre di intelaiatura sintattica robusta e contorta, ricca proposizioni, dalla lussureggiante vegetazione composta di congiunzioni, preposizioni, ablativi assoluti, incisi dentro incisi, particelle restrittive ("benché, sebbene..."), che ritardano o accelerano il fluire del verso lungo meandri labirintici. Il ritmo si fa più rapido o più lento fra innumerevoli pause e digressioni: "la lingua si sottomette alla volontà del costruttore", come afferma Guillén. Il verso nella pratica culterana si rifrange come una lama di luce attraverso uno specchio, dando origine ad un'infinità di ramificazioni che si intrecciano lungo la lirica. Da un punto di vista lessicale il culteranesimo abusa di arcaismi, latinismi (i preferiti), grecismi, neologismi e parole astratte. Gòngora inoltre fu definito "carnefice di vocaboli" dal suo acerrimo nemico Francisco de Quevedo, per la sua tendenza a scarnificare il lessico tradizionale attribuendogli miriadi di significati e costringendolo a dire cose che non ci si aspetterebbe, tanto che "quasi non c'è frase in lui che non si possa intendere in quattordici o quindici modi", sempre secondo Quevedo. A ciò si aggiunge inoltre l'estremizzazione della retorica: i versi di Gòngora sono un continuo pullulare di figure retoriche, una foresta di metafore, iperboli, perifrasi, paronomasie, bisticci, omoteleuti, ripetizioni, accumuli, anacoluti, climax, e così via (con particolare predilezione per la metafora ardita e l'allitterazione ripetuta). Altra caratteristica portante del culteranesimo, che si ricollega al concetto di "poesia colta", è la grande abbondanza della classicità, in ogni sua forma, nelle liriche: le poesie di Gòngora traboccano, quasi come un nuovo alessandrinismo, di riferimenti mitologici, nomi greci e latini, metafore desunte dalla classicità, etc.
A causa di tutte queste caratteristiche il culteranesimo è parso per secoli, e già all'epoca, troppo oscuro e cerebrale, ed è stato interpretato come modello supremo del "malgusto barocco", di cui la critica ha parlato fino al secolo scorso, e il cui rappresentante principe, in campo spagnolo, è proprio il nostro Luìs de Gòngora. Citando Lorca in un saggio sul poeta cordovano: "la sua sensibilità gli mise un microscopio nelle pupille. Vide la lingua castigliana piena di zoppicamenti e lacune, e con il suo istinto estetico fragrante iniziò a costruire una nuova torre di gemme e di pietre inventate. Gli scontri di consonanti modellano i suoi versi, come piccole statue, e la sua preoccupazione architettonica li unisce in belle proporzioni barocche. Fugge dall'espressione facile, non per amore del cultismo, pur essendo uno spirito coltissimo, non per odio del volgo greve, ma per una preoccupazione di impalcatura che renda l'opera resistente al tempo.".
Gòngora crea dunque un labirinto di sensazioni, un "mondo sensuale" fatto di torri d'avorio, palazzi di marmo, statue di gemme ed ori, in cui rifugiarsi per sfuggire alla monotonia e bassezza del presente. Se però il primo Gòngora era definito "il principe della luce" per il suo barocco sfolgorante, luminoso e ornato (come una cattedrale seicentesca), il secondo Gòngora, quello del capolavoro “Le Solitudini”, quello del culteranesimo estremo, venne chiamato "il principe delle tenebre": "per fuggire dall'antico stile chiaro, levigato ed aggraziato, fugge la chiarezza, e diventa tanto oscuro da far spavento", secondo le parole di Pedro de Valencia, umanista suo contemporaneo. Egli lascia ai mediocri lo scrivere in piena osservanza delle regole, giacché lui, le regole, le scardina e le piega a proprio piacimento: Gòngora è ormai lontano da quello stile classico semplice ma insipido, che contrappone al proprio, la "cornucopia dell'abbondanza". Egli è un cultore della bellezza delle parole, del loro significato assoluto, sensoriale, in una solta di culto del piacere estetista ante litteram: secondo i contemporanei Gòngora cade irrimediabilmente nell'inganno della Torre di Babele.
Uno dei molti punti di contrasto con il concettismo tuttavia è la sostanziale mancanza di profondità nell'opera di Gòngora: essa si sviluppa lungo un piano immenso, orizzontale, ma non scende mai nel profondo, non mette radici. La lirica di Gòngora è una splendida opera architettonica, ma senza fondamenta: il suo unico obiettivo è l'ostentazione estetica e sensoriale, oltre al gioco intellettualistico. Il lettore viene invitato a riordinare l'apparente disordine formale, ricostruendo i periodi in mille maniere diverse, ma in un puro gioco di intelletto: in Gòngora non vi sono le tematiche profonde e morali del barocco concettista, e anche uno dei temi maggiormente affrontati, quello dell'amore, è trattato unicamente da un punto di vista estetico e sensoriale.
L’anima profonda del barocco è molto diversa dal mondo scintillante e ridondante presentatoci dalle estetiche mariniste-gongoriste, un’anima che anche i grandi critici letterari della nostra tradizione (a partire da De Sanctis e Croce) non sono riusciti a scorgere, sotto la pesante patina di stucchi, ori e marmi pregiati: i laceranti contrasti sociali e ideologici, in un mondo in cui ricchissimi e poverissimi vivono accanto; la profonda religiosità di matrice fatalista e l'oscurantismo, sull'onda della controriforma protestante; il senso della corruzione delle cose mortali, dello scorrere del tempo, della transitorietà di ogni vano sogno umano, il "conoscer chiaramente / che quanto piace al mondo è breve sogno"; e ancora, il culto della morte, dell'anima e della filosofia esistenzialista, la continua dialettica Dio-uomo e la tensione allo spiritualismo, sofferta e potente. Tutto ciò è quanto compone l’essenza di un’età affascinante quanto profonda, che preferì nascondere le insanabili lacerazioni su cui si fondava dietro gli ornamenti sovrabbondanti delle cattedrali, e che preferì perdersi nella sensualità di un’esistenza fasulla, pur di non vedere il marcio che ne stava alla base. Come il culteranesimo rappresenta una parte, sia pure più superficiale ed esteriore, dell’età barocca, il concettismo è la corrente artistica peculiare dell’altro volto, più nascosto e tormentato, del ‘600, ed è ben più di una moda passeggera come fu effettivamente il culteranesimo di Gòngora: esso è un modo di vedere e vivere la vita nella sua interezza e intimità, è un canone etico-estetico universale, un modo (non una moda) che attraversa la letteratura mondiale fino ai giorni nostri, tanto che si può tacciare un autore di concettismo alla stessa maniera in cui lo si fa con il romanticismo, il decadentismo e il simbolismo.
Questa corrente artistico-letteraria abbraccia gran parte del Siglo de Oro ( il secolo e mezzo che va da metà cinquecento a fine seicento) e non coinvolge soltanto la poesia (mentre il gongorismo nasce e muore in seno alla lirica), ma anche prosa e teatro. A capo del concettismo viene posto tradizionalmente Francisco de Quevedo, che diventa principe e alfiere di questa modalità espressiva; esistono tuttavia altri illustri concettisti, come il teorizzatore della corrente Baltasar Graciàn (con il suo trattato "L'acutezza e l'arte dell'ingegno") e l'ultimo astro del teatro spagnolo, Calderon de la Barca.
Il punto di partenza da cui muove il concettismo è in comune con il gongorismo: staccarsi dall'equilibrio e dalla chiarezza dell'espressione classica; ma mentre nella seconda corrente questo processo avviene tramite la dilatazione della forma e la complicazione del significato, nella prima avviene tramite l'esatto opposto, cioè la contrazione della forma e la tensione al linguaggio diretto. Il concettismo, a contrario del gongorismo, è rarefatto, aspro e non armonioso: come afferma Bodini, Quevedo "dà voce alla perentoria e ardente aggressività interiore, che rende la sua poesia colma di vertici saettanti, disuguale, irta come una fiamma. Essa sibila e grida cupamente, scatta, non s'accontenta dei contorni delle cose, ma brucia ciò che tocca. Quevedo disarticola la struttura delle poesie sotto i colpi della passione: par quasi di vederlo e sentirlo battere alle nude porte dell'esistenza. E' il vivo teatro d'un cuore in cui s'accalcano fortissimi sdegni e passioni, orgogli e tumultuosi disinganni". Se infatti lo stile gongorino era più simile ad una cornucopia dell'abbondanza, quello di Quevedo è una fiamma: irta, saettante, che brucia ciò che incontra. Se la parola in Gongora è una piuma, che, pura e ammaliante, affascina nel suo delicato volteggiare, in Quevedo è una lama: è tagliente, dura e vera come il sangue che cola da essa quando colpisce dritta al cuore. Lo stile concettista è laconico e sentenzioso come il latino argenteo di Seneca: esso procede per antitesi aspre e poderose, ellissi, iperboli, contrasti di suono, di ritmo e di senso. Tra le figure retoriche predilette dal concettismo troviamo il paradosso, l'ossimoro e, ovviamente, la metafora, regina di tutte le correnti letterarie del ‘600: la predilezione per questo tipo di retorica, basata sui contrasti e le antitesi, è espressione della società barocca, lacerata al suo interno da inconciliabili scontri sociali e ideologici (in primis quello religioso), come accadde in epoca latina per gli scrittori di età imperiale. Tutto, nel barocco concettista, come nell'età di crisi della storia romana, è destinato a scindersi e a lacerarsi in linee antinomiche.
Perno fondamentale del concettismo è dunque il "concetto", da cui prende il nome: esso è l'acutezza e l'ingegno di cui parla Graciàn nei suoi trattati, è il mondo del pensiero condensato, è il maximum che si concentra nel minimum. Secondo una felice espressione di Pfandl, "i culterani possiedono più parole che idee, mentre i concettisti possiedono più idee che parole". Il concettismo infatti si espande in profondità, non in superficie come il culteranesimo: Gòngora è più ampio che profondo, Quevedo più profondo che ampio. Il concettismo mina e distrugge l'armoniosità, puntando invece sull'asprezza e la concisione: la sintassi dei versi risulta quindi contratta, spezzata, franta e sofferta come i contenuti, seppur complessa nella sua brevità e incisività. L'insofferenza del sentire barocco, l'inquietudine, il dolore di un'esistenza piagata e dura, porta il concettista a volgersi contro la stessa armonica natura della poesia, contraddicendola, aggredendola, mettendovi come bastoni fra le ruote sillabe dure, accenti che feriscono l'orecchio, sinalefi e dialefi ribelli, che non fanno altro che rendere ancora più diretta l'asprezza del significato. I "concetti" si accavallano uno dopo l'altro in uno sfolgorare di immagini e idee, passioni e sentimenti, interrotte dai frequenti segni di interpunzione e procedimenti retorici antitetici. Ai concettisti non basta "dire quanto più possibile in breve spazio": la parola deve colpire come uno schiaffo, deve ferire l'animo del lettore, che viene messo davanti alla cruda verità. Questo procedimento viene acuito da un altro elemento caratterizzante del concettismo, l' "ingegno": esso si esplica nel gioco di parole, che stabilisce sottilmente e nella maniera più condensata possibile rapporti inattesi tra gli oggetti considerando "ciò che la bellezza è per gli occhi, l'armonia per l'udito, il concetto per l’intelligenza", come afferma Graciàn.
Anche il lessico concettista si allontana prepotentemente dal tanto ricercato equilibrio e raffinatezza di espressione rinascimentale: i vocaboli scelti sono a tratti quotidiani, a tratti aulici, usati sapientemente per colpire il lettore, e spesso risultano duri e aspri come lo stile. In Quevedo particolarmente si raggiungono vette di abilità espressiva incredibili: egli, al pari di Gòngora, è un maestro della parola, un giocoliere di vocaboli; se però Gòngora "scarnifica" il lessico, ampliandone a dismisura i significati e impiegando massicciamente l'aggettivazione, Quevedo lo "taglia" e lo seziona a proprio piacimento, condensando e caricando i termini di significato. Si parla infatti in Quevedo di linguaggio polisemico, per la sua abilità nel concentrare numerosi concetti in poche parole (il maximum e il minimum di cui si è parlato). A tutto ciò si deve poi aggiungere un elemento principe in tutta la letteratura barocca, ma che viene apprezzato soprattutto nel concettismo: il fulmen in clausola. L'acutezza finale, il concetto sommo che chiude la poesia (o il brano di prosa) intera, l'ultimo pugno in faccia al lettore. Formalmente e concettualmente le poesie di Quevedo sono potenti e dirette: "davanti al dolce argento petrarchesco i sonetti quevediano folgorano fuoco e oro, la bandiera di Spagna".
Da un punto di vista dei contenuti, il concettismo si esprime al meglio nei campi più intimisti e decadenti: frequentissimi sono i temi della morte, dello scorrere del tempo, della fragilità umana, della transitoria condizione dei sogni mortali e della vanità di essi, contrapposti alla vita eterna. E ancora temi religiosi, funebri, filosofico ed esistenzialisti: non è un caso che anche il culterano Gòngora, nei suoi "sonetti funebri", dove tratta di argomenti quali la morte, il tempo e la fragilità umana, si faccia concettista. E non è un caso altresì che il concettista Quevedo si avvicini allo sfolgorante culteranesimo nei suoi "sonetti amorosi", tema per cui il gongorismo è più adatto, data la sua estetica prettamente sensoriale e sensuale. Il concettismo altresì non si preoccupa, come Gòngora, di creare un nuovo modello estetico, un mondo nuovo di splendide architetture e labirinti dorati in cui rifugiarsi: esso è invece pienamente inserito nella realtà, che critica e lacera in ogni suo aspetto. I concettisti non si illudono di poter sfuggire all'orrendo vivere quotidiano fatto di sofferenze e dolori, ma anzi, lo evidenziano e lo esasperano.
Quevedo è in particolare, come già detto, il campione del concettismo: egli è "il grande poeta stoico della Spagna imperiale, il Seneca spagnolo", autore di severe e ieratiche meditazioni sulla fugacità del tempo, sulla vanità delle cose, sulla brevità della vita umana, sull'eterna illusione dell'esistenza, sul disinganno, sulla morte; è il lucido chiosatore del sustine et abstine, il tormentato poeta che squarcia il velo di ipocrisia e corruzione che permea la decadente e ormai irrimediabilmente corrotta Spagna del suo tempo tramite una tagliente satira. E Quevedo è ricordato anche per questo: la sua satira è tra le più sanguinarie e implacabili mai lette. Le pagine del romanzo picaresco La vita del pitocco (il celeberrimo Buscòn) sono tremende: il libro è stato definito come "l'opera più crudele della letteratura spagnola". Sembra quasi che Quevedo abbia voluto liberare l'inferno in terra, rallegrandosi nel far trionfare le pitture più tetre e macabre. Ma ancora più terribili sono le pagine del capolavoro quevediano: i Sogni. In esso Quevedo mette crudelmente a nudo l'intera gamma di nefandezze della propria epoca, la società corrotta e pervertita in cui vive, un mondo che si compiace del male. Tra preti indemoniati, visioni dell'inferno, colloqui con la Morte, scorci del Giudizio Universale, esorcismi, maschere di peccati, Quevedo ci lascia un'impressione di amarezza profonda: visioni tumultuose, che il più delle volte ci trascinano sottoterra, nel regno di mostri e demoni, tra i veleni, i perfidi fermenti e i germi infetti che disgregano la società coeva, esaminati al di là di una spietata lente di ingrandimento per rivelare i cantucci più nascosti e inconfessabili dell'animo umano. Quevedo attacca tutti, indistintamente: i nobili boriosi, i miseri e poveri bottegai, gli ecclesiastici, i ministri ladri, gli usurai, le donne, i falsi poeti, gli scrocconi, i poliziotti accidiosi, la fanciulla imbellettata, il Re in persona, l'avvocato disonesto, il taverniere furbo, i medici asini e presuntuosi, gli Olandesi eretici e ribelli, gli Spagnoli infiacchiti e deboli.
Due autori diametralmente opposti, in perenne conflitto tra di loro, dall’esperienza biografica e artistica talmente diversa da diventare emblemi sfolgoranti di opposizione inconciliabile, l’uno il sole, l’altro la luna: eppure due facce della stessa medaglia, l’età barocca, la cui anima contraddittoria è rappresentata alla perfezione da due dei suoi maggiori astri.
Andrea Peverelli