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La terra originale, Eleonora Rimolo (Pordenonelegge – LietoColle 2018)

Ho avuto il piacere di recensire poco più di un anno fa per questa stessa rubrica la raccolta Temeraria Gioia (Ladolfi 2017, pref. di Giancarlo Pontiggia) di Eleonora Rimolo, libro che, come evidenziato in quell’occasione, proponeva temi rilevanti con particolare vivacità e puntualità espressiva.


Esce, in questo mese, per la prestigiosa collana gialla di Pordenonelegge della LietoColle, La terra originale, libro che approfondisce e rievoca molti temi del libro precedente, portandoli verso una dimensione nuova e più matura, sia per stile che per contenuti.


Prima ancora di iniziare, vorrei soffermarmi su alcuni passaggi del mio precedente intervento, che riporterò sic et simpliciter: “… si impone la ricorrenza del mare e dell’errare … in cui la Rimolo identifica un altrove indefinito e originario … è una gioia che resta, in ogni caso, una reazione a un’irrequietezza congenita, sigillo di una mancanza, di una perdita originaria … porta al desiderio di non perdere l’origine del dissidio (che si personifica in un principio femminile, materno), l’essenza del turbamento che porta al viaggio senza fine verso l’irraggiungibile …”.


Sorrido alla fantasia di avere forse potuto intuire, in idee del genere, i passi successivi dell’opera della Rimolo, che ha deciso di chiamare questo suo nuovo passo proprio “La terra originale”; sulle possibili ragioni di tale scelta mi soffermerò in seguito.


La raccolta si articola in due sezioni, denominate “Viaggi” e “La notte più lunga dell’anno”. In esergo alle sezioni, una citazione del brano “23” dei Blonde Redhead: “How many times? As long as you want.” e “How many times? As long as you wish.”


Ed ecco le prime coordinate su cui orientare la lettura: volontà e desiderio.


Il titolo “Viaggi” riprende, inoltre, il tema dell’erranza e del navigare necesse est, già caratterizzante il precedente lavoro della Rimolo, associandolo a doppio filo con la volontà, che diventa sintomatica del divenire, in netto contrasto con la stasi, che, negando il dinamismo, annienta qualsiasi possibilità volitiva e di trasformazione, qualsiasi occasione, in potenza, di cedere al flusso del vivere, nel pericolo di una stagnazione mortale.


“… Ancora sono tentata dallo svanire / se ogni giorno scavo un lembo di pensiero / e mi riduco a un liquido vischioso, irriflessivo …” leggiamo nel primo testo, con un pensiero che tende al cupio dissolvi, a una volontà ablativa. Ed ecco la stasi da rifuggire: “… Trascorro i giorni / della malattia respirando la stessa aria / di sempre … brucia / l’ipotesi della resistenza …”.


La volontà è l’origine di ogni dinamismo, consente di tradurre ciò che esiste solo in potenza in progetto e decisione concreta, “ … perché con l’ansia indecente del ritorno / noi dobbiamo vagare, dobbiamo tornare / in cerca della casa originale, / della prima cellula essenziale.” La tensione ad un luogo di appartenenza originario viene sviluppata in questi testi, riprendendo un motivo già caro alla Rimolo: questa “terra originale”, assimilabile all’intraducibile concetto di Heimat, è il “regno delle brame e delle nostalgie, dei desideri e dei bisogni … il luogo del desiderio non ancora esaudito, lo spazio patria della possibilità (dell’essere-nella-possibilità)”, come afferma Ernst Bloch.


Sono concetti che sviluppano ulteriormente la persistenza e gli ammiccamenti alla saudade già presenti in “Temeraria gioia”, che hanno in comune lo stesso sentire inesaudito, “triste di feste” e “ebbro di fiori” (come ricordava Darìo) tanto familiare nei suoi versi: ma la “terra originale” non si riferisce esclusivamente a un luogo “originario” cui fare ritorno (sarebbe una lettura troppo semplicistica, per quanto legittima), ma anche a una rivisitazione “nuova”, appunto, trasversale, del concetto di appartenenza.


Ricordiamo che la Rimolo, che già invitava al naufragio, individuava nel perdersi, nel perpetrare il viaggiare senza soffermarsi sulla destinazione (“Era reale sovrapporre l’andata al ritorno”), la propria natura più autentica, e pertanto questo abitare in un luogo primigenio non può che identificarsi in questo dinamismo cosmopolita, che rinnega ogni forma di stasi, dove il mondo e l’altro-da-sé, accolti a discapito di un io troppo invadente, diventano il luogo più antico e puro dove riconoscersi a casa, il vero luogo degli affetti e della naturalizzazione delle tensioni umane.

Questa interpretazione trova conferma nell’indugiare, ancor più insistente in questi testi, sull’alternarsi delle particelle io – tu, di prime persone maschili e femminili, che, pur dando l’illusione della presenza di un io lirico determinato, finiscono per tratteggiare l’idea di un io sparso, disseminato, che potrebbe essere chiunque, e nessuno, di là da ogni specificazione di sesso, appartenenza ed età: un io, appunto, originale.


Ancora presente, in questo dinamismo, la precisione della coordinata temporale, che predilige la valorizzazione dell’attimo, irripetibile, come un frutto da cogliere prima che inasprisca, e risulti perso per sempre.


Anche questo è un tema che ricorre dalla precedente raccolta, e viene sviluppato con ancor maggiore senso di urgenza e di imminenza, in un diffuso senso di precarietà esistenziale, e di consapevolezza dell’impermanenza di ogni cosa e relazione umana, proprio per questo più preziosa: “ … ora puoi berne, puoi bere … senza temere / l’aceto … bere quanto trabocca” prima che arrivi il momento in cui “… la roccia / gelerà per sempre il nostro naturale / decomporci in schegge di terra.”


Ancora: “… qui c’è tutto, pensavi, perché andare via, / non devo vedere troppo, non devo / crescere”. Il qui ed ora è l’unico momento reale, senza rendere il passato una zavorra e il futuro un’aspirazione deformante, nell’illusione che il viaggio abbia una destinazione certa, o univoca: i perimetri delle cose sfumano e rivelano “quell’apparire / della natura originaria dentro / un destino”, appunto, più che un luogo.


Eppure deve esserci una misura della volontà, del desiderio – concetto, questo, molto classico, di oraziana memoria – perché, per non perdere tutto, non bisogna rischiare “ … per aver desiderato / troppo, con troppa poca prudenza.”


Prima di soffermarmi sulla seconda sezione, un ultimo aspetto che mi ha colpito, in particolare, in questi nuovi testi: una specifica tendenza alla fisicità, e in particolare, ai gesti del bere, del mangiare, della fame e della sete, che diventano simbolo di una tensione primordiale al nutrimento, elemento femminile e materno, originario, per antonomasia. Nei testi, questa terminologia ricorre e, a mio avviso, rappresenta la trasfigurazione di un desiderio di accoglienza, del radicarsi in un principio primigenio di convivenza serena con l’altro e con sé stessi: “… non lascio bere a nessuno … con la pioggia che non si può deglutire … Rispondendo sempre a una sete / mi attardavo … il lupo che divora in tutte / le direzioni raggiunto dalla fame … con morsi insaziati … ora puoi berne … bere quanto trabocca … solo più tardi domandavi un sorso / d’acqua … si può uscire dal guscio molle dei mesi, / masticandolo fino a saziarsi … le volpi affamate ….”.


La seconda sezione si intitola “La notte più lunga dell’anno”, rappresentazione simbolica del desiderio, che, in opposizione alla volontà, è impulso più incosciente e sotterraneo, si concreta nella dimensione del sogno e dell’istintivo, e viene pertanto associato alla notte e alla sua valenza di remoto, irrazionale e fantastico.


Viene immediatamente tracciata una sinergia con il “ … piacere, / madre delle febbri, principio / di dolore.” Si ribadisce la temporalità e la necessità di cogliere l’istante, perché “ogni tua rosa sta già per marcire”.


Nel tendere all’originario, punto di incontro dove il precipitare di volontà e desiderio possono trovare una loro dimensione legittima, serena e non lacerante, torna il monito di “Temeraria gioia”, ovvero quello di osare il gesto dell’ora e trattenere quel breve istante di grazia, per sopravvivere all’abisso del naufragio, precedente e successivo; questo, il segreto del sopravvivere: “ … perché sul tuo grembo mi spoglio / sognando l’infanzia, riallaccio la vena / fermandone ai tralci il sostegno, / ne impedisco l’uscita dal suo stato di grazia.”


E mentre “tutto implora rimedio”, nello “spreco di immagini, cibo, acqua” (di nuovo il riferimento a fame e sete), si testimonia la vanità di ogni traccia umana: “Ogni nostro gesto è messaggio / rigato sul vetro, corrotto.”


Dopo il sonno del desiderio “Scivolo nel trauma del risveglio”, dove “trasciniamo le settimane” spendendo “meno sangue possibile per non / replicare il dolore: in questo modo / non ricrescono le voglie, si eradicano / tutti i contagi e in me non resta / che il deserto asettico dove ci siamo / contaminati, in cui siamo stati lasciati”.


Quasi un’educazione al distacco, dopo la bruciante presenza del desiderio e della sua dolorosa impronta.


In un certo senso, questi versi testimoniano quasi un’indagine approfondita nelle dinamiche più intime del desiderio, e penso alla prime due “nobili verità” del buddhismo Mahāyāna, e sarà subito chiaro il motivo. Recitano pressappoco così, attraverso due coppie di tre frasi: “1) C’è la sofferenza. 2) La sofferenza deve essere compresa. 3) Ho compreso la sofferenza.” e “1) Esiste un’origine della sofferenza: è l’attaccamento al desiderio. 2) Il desiderio deve essere lasciato andare. 3) Ho lasciato andare il desiderio.”


Quello che tenta di fare la Rimolo attraverso il suo libro non è molto diverso, consapevole della fragilità impermanente di ogni fenomeno e relazione, della sofferenza causata da ogni desiderio e dal doloroso percorso che dobbiamo affrontare per tentare di realizzarlo, o anche solo di avvicinarlo: nel disincanto che ne segue, in cui si avverte la mancanza di gesti semplici, originari, di “avere sogni tiepidi”, “gli occhi sempre / in basso o in alto mai a metà dell’orizzonte”, inizia a profilarsi un’ancor più dolorosa rinuncia.


Perché questi meccanismi non fanno che condizionare i rapporti e i sentimenti umani, al centro dell’indagine di questi versi, nella loro tensione universale, e non particolare; e il bene più grande, più autentico, si sposta al di là di volontà e desiderio, “per cui / ho lasciato sul tavolo le carte schiantando / la sedia, rinunciando all’inganno del gioco”.


L’onestà della rinuncia al desiderio, se condivisa, diventa una reale compartecipazione, senza alcuna aspettativa, che può durare un solo istante, o più, non importa, finché è autentica. “Verrà un giugno accaldato / ed io sarò in qualche maniera / nel nido dove abiti, forse senza / voce … arriverò / come un’onda … rimarrò senza fare domande / nel silenzio …”.


Eppure “la vita / in granuli è spaventosa, la paura / di assumerla mi spinge a vomitarla, / spegne i circuiti minimi dell’esserci”, perché non basta il dominio delle passioni, “Serve qualcosa per saldare il vuoto … sotto la canicola che ci brucia la faccia, / che ci scalda nella bocca la cenere”.


Voglio soffermarmi sulla poesia di chiusura della raccolta, che trovo davvero sintetica di molte delle istanze approfondite finora: “Perdonami, sai com’è vivere quando / ti lanciano addosso le cose … con questo spasmo sintetico … che si mangia che si digerisce come / un frutto appena colto nella nebbia / di un giardino / tu quale scegli”: l’urgenza dell’attimo di gioia irripetibile, la nebbia che nasconde la maturità dell’ora, la durezza imperdonabile dell’esistere, e il peso di ogni scelta, di ogni volontà (oltre all’ennesimo riferimento alla fame e al mangiare); e in questa dinamica così ambita, così decantata, “io sono preda dell’interruzione, per me / impiccata al ramo orientale sorretta / la sola impronta indelebile / commestibile era la tua.”


La stasi è una condanna, peggiore dell’abbandono ai flutti del desiderio, peggiore del rischio lacerante della volontà delusa dalle intemperie dell’esistere, peggiore persino della rinuncia consapevole ad ottenere ciò che si vuole: è morte.


Chiude il libro un esergo di Jaspers: “Quale che sia la nostra origine, esistiamo. Ci troviamo nel mondo con altri uomini.” Non importa raggiungere l’Heimat, perché può essere qualsiasi luogo. Può esserlo nel momento in cui rendiamo prezioso l’attimo, il percorso, la condivisione, l’altro-da-sé, perdendoci anche nel suo viaggio, nel tentativo di condividere la preziosa e istantanea maturità dell’attimo.


L’importante è non interrompere l’erranza, il necessario navigare, non cadere preda della stasi; è riconoscere la propria terra originale, che può essere un luogo, ma anche un attimo fuggevole, uno sguardo, l’ultima parola prima di un addio.


Tutto questo, per quanto appaia terribile, raffigura un autentico ed onesto desiderio di vivere, di negare la ristagnante pena dell’immobilismo, abbandonandosi ai flussi tempestosi dell’esistere, che la Rimolo consacra in versi ricchi di una grazia mai stucchevole, equilibrata, di limpidezza feroce, inquieta ed esatta (“fatale e indocile”, dice magistralmente il prefatore) – ma anche nostalgici ed appassionati, nonostante la disincantata lucidità.

Mario Famularo

 

Alcuni versi tratti da La terra originale, di Eleonora Rimolo:

Perché i giorni dobbiamo viverli tutti anche quelli in cui ci si chiede cosa ci faccio qui, adesso? e poi una sera finalmente la senti anche tu questa sete che ha martoriato i campi: ora puoi berne, puoi bere stanotte ogni nostro imperativo senza temere l’aceto, davvero ogni cosa secondo natura, tesa alla vertigine carezzata dalla benedetta salvezza. Era reale sovrapporre l’andata al ritorno, cambiare loro il nome, mutarne l’emozione in cosa nuova, una barricata tenuta alta dalle piccole povere mancanze che non so evitare. Mi muovo assistendo ad uno spettacolo che mi inquieta, saturo tessuti troppo tesi per non lacerarsi: lo faccio per capire se davvero un momento è uguale ad un altro, se si può uscire dal guscio molle dei mesi, masticandolo fino a saziarsi. Intanto ti guardo fare gesti banali, rincorrere la gloria, carezzare la bellezza, inchinarti al suo idolo sfuggente: non so decidere un amore, un dolore a te destinato; io cerco solo una recinzione, un pascolo sterminato, un istante terminale in cui capire tutto prima di sparire. A mani nude gli studiosi scavano le fondamenta piegati sul fossato: dicono vi siano tracce di una civiltà antichissima, credono a quanto c’è dietro la superficie, pure se la pioggia impasta la pietra, lì sporca di melma, complica l’esercizio della ricostruzione. È triste questo nostro bisogno d’ordine, lo strappare la radice e non trovare il seme: è un franare senza poter bloccare la discesa, precipitare a brandelli privi del termine di caduta. Quel poco che rimarrà saranno le lanterne del centro storico spente al mattino, circondate dalla distanza. Scale, marciapiedi in salita separano i pomeriggi assonnati dalle fughe nervose del corso principale, dalle risa nei caffè, dalle commesse che attendono annoiate. Ognuna di queste porte non ti vedrà entrare e invece io busso, poi esco almeno una volta al mese per rivederti dentro gli archi umidi, nel rombo continuo del sifone, dentro centinaia di carte in accumulo, lasciate lì come me nell’indifferenza, per aver desiderato troppo, con troppa poca prudenza. Ascolti disteso il respiro del vento finché non ritorna l’insonnia del giorno e l’indifferenza del gallo, del cacciatore smarrito al tramonto. Andremo via così senza cose, non ci muoveremo di un passo: ogni tua rosa sta già per marcire. Quando avremo terminato di contare le partenze saremo come formiche in processione, così superbe piccole da una tana all’altra continuamente in esilio: da qui ti scriverò un milione di lettere, chiederò cosa portarti per farti contento, perché sul tuo grembo mi spoglio sognando l’infanzia, riallaccio la vena fermandone ai tralci il sostegno, ne impedisco l’uscita dal suo stato di grazia. Ormai non interessa più a nessuno questa commedia, la ripetizione dei singhiozzi, la filastrocca noiosa, lo spreco di immagini, cibo, acqua: non fa differenza mettere all’angolo il nemico oppure salvarlo. Ogni nostro gesto è messaggio rigato sul vetro, corrotto. Con i muscoli rotti dall’umido passo trasciniamo le settimane, pronunciamo distintamente tre parole sole. Essere stanco significa soffocare dentro a un letto, spendere meno sangue possibile per non replicare il dolore: in questo modo non ricrescono le voglie, si eradicano tutti i contagi e in me non resta che il deserto asettico dove ci siamo contaminati, in cui siamo stati lasciati. Possiamo ancora scegliere come invecchiare, non c’è motivo di pensare ad altro: dove essere quando il cielo si farà nero, con quale spugna sfregarci le cosce, i reni, con quale punteruolo profanare la ferita. Allora saprò dirti quanto bene ho avuto per te, anima incedibile, per cui ho lasciato sul tavolo le carte schiantando la sedia, rinunciando all’inganno del gioco. Perdonami, sai com’è vivere quando ti lanciano addosso le cose, una sola adiacenza pagata con abiti ancora umidi, con questo spasmo sintetico assorbito da carta che si scioglie, che si mangia che si digerisce come un frutto appena colto nella nebbia di un giardino tu quale scegli io sono preda dell’interruzione, per me impiccata al ramo orientale sorretta la sola impronta indelebile commestibile era la tua.


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