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I processi di ingrandimento delle immagini di Paola Silvia Dolci (Oèdipus, 2017)

Io, è solo un modo per dire nessuno in particolare – sono i versi di uno dei sei eteronimi con cui Paola Silvia Dolci nel suo “I processi di ingrandimento delle immagini” (Oèdipus, 2017) ci offre un lavoro di particolare originalità, al limite della metalinguistica e del gioco letterario, pregno di ironia e di improvvisi squarci di densità esistenziale.


In superficie abbiamo “un’antologia di poeti scomparsi”: l’eteronimo, espediente che in poesia ha avuto illustri precedenti (Pessoa su tutti, ma anche Guerrini, tra i nostri) diventa uno stilema che la Dolci utilizza per non mettere a fuoco l’io scrivente.


Oppure no?


Ciò che residua, dopo diverse letture, è la sensazione che ognuno dei poeti scomparsi abbia qualcosa dell’autrice, o meglio, qualcosa di universalmente estendibile a ciascuno dei potenziali lettori.


Un processo di ingrandimento che si realizza attraverso dettagli biografici e introspettivi, trasfigurati nella vita di qualcun altro – reale o fittizio, poco importa il nome di chi subisce l’ingrandimento – perché chi procede resta dietro le quinte.


La stessa Dolci, cedendo al proprio gioco, alla fine del libro si firma come “L’autrice, l’eteronimo”, insomma, il vero altro nome, piuttosto che i sei protagonisti della raccolta.


Tra i mille rimandi letterari e biografici (di nuovo – immaginari o reali, poco importa) di questo gioco, ogni tanto si apre uno squarcio dove, in modo vivido e inaspettato, l’autrice colpisce con delle stoccate il lettore.


Questo forse “l’incantevole / enigma delle giunture”, che in fondo evidenzia i punti di contatto al di là dell’io scrivente, degli io fittizi, dell’io di chi legge.


“Scrivere a tutti per farsi capire, a gesti, / da una persona sola.” e ancora “Rinuncio alla poesia.” scrive la Dolci, evidenziando la supremazia del gesto sulla nominazione, e i parossismi della comunicazione, sul bordo esasperato tra finzione e realtà.


La sezione a nome Adele Duchi si chiama “Poquelin”, che era il vero nome (cognome, ad essere precisi) di Molière (di nuovo un corto circuito tra nome reale e fittizio), probabile rimando alla sua ossessione verso medici e cure, velo sul più ampio tema del dramma delle illusioni umane.


E infatti la sezione si apre con “La scrittura sembra un’altra malattia. / Mi mantiene lontano da quelli che vivono.” e si chiude con “Siamo tutti convinti di poter ancora guarire.” Nel mezzo variazioni che vanno dal sesso all’abbandono, dalla fisicità all’introspezione. E la figura del medico e della malattia continuano a ricorrere, ad esempio nel testo finale del libro (“il dottore dice che non hai mai amato nessuno”).


Ancora: Arturo Degani richiama il mondo del mare e del navigare – dove d’improvviso “l’eteronimo ha l’acqua nel cervello … è terribile non poterli costringere ad amarmi” – e un’altra stoccata in chiusa: “ci guardiamo negli occhi / sentiamo le foglie tremare / quando pensiamo alla morte.”


Attraverso Eva Fabbri, nella sua “lettera al padre”, la Dolci, con una prosa piuttosto convincente, istilla tra un passo e l’altro di una nuova biografia (reale o fantastica, mi ripeterò, poco importa) passaggi come “… è più facile non ascoltare i sentimenti più profondi quando sono inguaribili.” (ancora la malattia e la guarigione).


Traspare in queste pagine un abisso originario e, più che mai, un profondo tentativo di riparazione, vissuto con dispiacere e sentimento: “… il prezzo è alto, il prezzo sono io” scrive Eva, che nella nota biografica scopriamo essere caduta da una finestra.


Anche questa scelta contribuisce all’opera di insieme, con un’ironia amara: la vita di questi autori, compresa la loro morte, diventa un ulteriore tassello attraverso il quale nominare e, forse, nominarsi, simulando il brutale sense of humour dell’esistenza.


Elsa Riva muore di polmonite. Di nuovo la malattia. Di nuovo l’ironia terribile: “Un filo da un orecchio all’altro e il mio cranio è una perlina.” E proprio qui sono i versi che ho citato in apertura: “Io, è solo un modo per dire nessuno in particolare”, perché “Qui dentro siamo in un unico corpo che grida, piange / dorme, mangia / ma se muore qualcuno il corpo non muore.”


Ricorre nuovamente la fisicità, ma soprattutto: viene detto espressamente che l’io non è importante, che ci sono cose che trascendono e trasfigurano il nome e l’esperienza individuale, in una visione più ampia e impersonale.


E questa è forse la principale conseguenza del procedimento di ingrandimento e di attenzione sul dettaglio essenziale (ed esistenziale) operato dalla Dolci: isolarlo consente di comprendere che questi particolari, anche se così vividi, non sono caratterizzanti di un io in quanto tale, ma accomunano, e diventano più importanti di chi li vive, i cui nomi importano poco, diventando quasi accidenti di passaggio, che nascono, muoiono, mentre il corpo che lega tutte queste esperienze mutevolmente persiste nella sua natura collettiva, o meglio, universale.


Eppure restiamo esseri umani, e un tale livello di astrazione resta opera della ragione e non del sentimento, soprattutto nell’ambiente più incontrollabile della nostra mente.

E infatti la sezione si chiude con questo verso: “Ho sognato che mio padre mi seppelliva.”


Andrea Furlan, infine, ci conferma la dimensione borderline tra finzione e realtà, onestà e gioco degli inganni: “Dovremmo essere più sinceri / ma è impossibile.” oppure “Mi dispiace che certe felicità tu le abbia / vissute con altri.” tra paesaggi americani e francesi, tra Trieste e Cremona: sempre in viaggio, sempre navigando, troviamo punti di contatto tra le diverse vite.


Lili Hofer, suicida, in chiusa sigilla le ultime parole del libro, una chiave di lettura di tutta la raccolta: “Per un po’ ho pensato a quegli animali / che nascondono le proprie tracce. / “Se non scrivo, a poco a poco, dimenticherò” / L’autore, l’eteronimo, Paola Silvia Dolci.”


In buona sostanza: nessuna verità, nessun conforto, niente di certo. Il gioco letterario confonde tra equivoci e corrispondenze, lasciando la sensazione che ci sia qualcosa di importante tra una maschera e una citazione; qualcosa di trasparente, nascosto tra una parola e un rimando. Non è dato verificarlo: le parole appartengono a poeti scomparsi, cui non si può fare alcuna domanda. Anzi, non appartengono a nessuno – in particolare.

Mario Famularo

 

VI. Hemingway, da rileggere: e importante “scrivere quando si sa qualcosa; e non prima; e maledizione, non troppo dopo”. Mi tremano le mani. Esco, nevica, cammino per stancarmi. Bevo un bicchiere di vino, è quasi mezzogiorno. In Lafayette Street lo strillone dà il segnale FIGHT OH FIGHT, rissa. Mi avvicino, due cinesi con le mani alla gola; sono ciechi, le donne stanno tentando di separarli. Nella folla intorno una signora grida chiamate la polizia. Mi si accosta un nero, ridendo, ok su chi scommetti miss. X. Scrivere a tutti per farsi capire, a gesti, da una persona sola. Il mio spirito è aperto, un ragazzo che gioca con i serpenti. Rinuncio alla poesia. III. Let me tell you a story about breakdown. Alla stazione dei treni, non so quale sia il mio. Chiedo, mi confermano che è quello giusto, salgo ed è quello sbagliato. Mentre siamo in corsa il vagone esce dalle rotaie; in cinque, sei, non sappiamo più dove siamo e cosa fare. Non voglio più mangiare, facciamo l’amore fino a sparire. VIII. perdevo fango dai capezzoli dal destro usciva un verme poi si accartocciava ci guardiamo negli occhi sentiamo le foglie tremare quando pensiamo alla morte VII. Quinto giorno di digiuno: flebo di sale, zucchero e antibiotici, vorrei almeno bere. Troppo magra per fare una TAC senza contrasto. Gli infermieri, quasi tutti slavi, fanno il possibile anche se ho i polsi e gli incavi delle braccia neri. Quando mi brucerà anche questa vena spero non mi bucheranno i piedi. Imparo a lavarmi i denti e a scrivere con la sinistra. Qui dentro siamo in un unico corpo che grida, piange, dorme, mangia ma se muore qualcuno il corpo non muore. XII. Facciamo la gelatina dei pesci la fregola nelle mutande. Cerchiamo qualcosa da mangiare. Dovremmo essere più sinceri ma è impossibile. XIV. il dottore dice che non hai mai amato nessuno forse questi uomini belli sono una corda tra te e il mondo restano anche se li rendi infelici vorrei chiedere scusa a tutti e in questo sono sincera se non ho una mia statura ma quella di ciò che vedo


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