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“Colpa del mare” (Oèdipus Edizioni, 2002) di Bruno Di Pietro - di Mario Famularo

Colpa del mare (Oèdipus Edizioni, 2002, postfazione di Alfonso Amendola) è la prima pubblicazione poetica di Bruno Di Pietro, classe 1954, napoletano.


Si tratta di una raccolta dall’equilibrio ammirevole, oserei dire oraziano, dove l’Autore realizza un’esemplare ponderazione tra lirismo, pensiero filosofico e descrizione puntuale, con una cura formale che va dall’attenzione ritmica ed eufonica del dettato, alla ricerca del nome prezioso di piante e fiori, dal richiamo sensoriale dell’odore e del sapore, alla capacità di fotografare un attimo, un gesto minimo.

L’accostamento alla letteratura latina viene suggerito sin dalla forma, epigrammatica: Di Pietro procede per brevi e dense sentenze, mai assertive o didascaliche, spesso di un’ironia leggera, e a tratti amara.


Il postfatore parla di una “ferocia d’arcaica limpidezza”, di una poesia “dentro il cuore delle cose … vertiginosa di ricordi e assetata di vita”: sono elementi che sento di condividere, proprio per la tendenza, in questi testi, a trovare un senso profondo nella bellezza equilibrata e nascosta delle cose, la più essenziale, che arriva prima alla percezione dei sensi che alla ragione e al pensiero; essa è negli odori, nei sapori, nei gesti, trasfigurati nella natura come se fossero ricordi che rivivono attraverso l’intuizione del presente, dell’esserci.


Le parole che ne conseguono, tentando la rappresentazione di questo meccanismo, diventano parte di questo affresco, senza cedere al rischio degli eccessi o dei minimalismi: con equilibrio e precisione, appunto, mirabili.


La raccolta si apre con il gruppo delle Eleatiche, dove si assiste a un uomo ridimensionato dalle cose (“cospirano le cose a un solo scopo / dirti che non sei aquila ma topo”), in un contrasto tra l’immobilismo degli oggetti (“spaventa l’evidenza delle cose / il loro essere immobile impronta”) e il vento che le rimescola e trasforma (“benché il vento agiti mimose”).


“ma quale origine gli vuoi trovare / a quell’affanno che ci ha fatto soli”, chiede l’autore, evidenziando come nemmeno le parole possono aderire alla realtà, offrendo una risposta adeguata (“le parole confessano indigenti / la poca confidenza con il vero”).


“… il sentiero in fondo è sempre uguale / e non c’è altra via che del ritorno”, anche nel tentativo di “… credere alla meta più che al viaggio”; in un divenire che ingenera smarrimento e perdita di riferimenti, si affacciano, nella cornice dei testi, “… il fresco spandersi del timo … la linea dei cipressi … il fruscio dei salici … il pergolato / del glicine … (l’) ombroso faggio”: la presenza di elementi naturalistici si interfaccia direttamente allo spettro sensoriale e percettivo, operando la trasfigurazione cui si accennava in precedenza, che colora e alleggerisce sensazioni razionalmente gravi (l’ansia esistenziale, la precarietà delle cose e del tempo) di una serenità e di un equilibrio naturalissimi.


La raccolta procede con la sezione omonima, Colpa del mare: “l’accaduto accade perché deve”, anche se sembra insensato, “ … le cose hanno / l’umida natura di prigioni”; di nuovo il contrasto con l’ineluttabilità del divenire viene rappresentato con una tenerezza stringente, serena, che discioglie ogni apprensione di fronte alla fragranza del presente, e alla consistenza degli affetti: “penso che dovrei baciarti … avrò tempo per darti l’amore … nella tua morsa calda / che non si intende di costituzioni”.

Anche se consapevole dell’inganno “del corpo e delle sensazioni”, di quel “sedimento / che a te dà gioia / a me tormento”, si avverte un’ironia disincantata che affronta l’esistenza con atteggiamento positivo, nell’incanto del presente, nella sensazione che l’azione, e la ricezione del mondo circostante, possa avere valenza di conforto: “In tanto scrivo / bevo”, anche se “uguali a ieri / non siamo”.


In Canto di Liside (costante la presenza silenziosa del mare), il dissidio del pensiero continua a insidiarsi (“ho peccato perché ho creduto / speciale l’uguale / a se stesso sempre uguale”) e tra gli echi della storia del filosofo pitagorico – echi che si inseriscono in un coro di suggestioni classiche, soprattutto della Magna Grecia – “di Liside / che nulla poteva insegnare / se non ad armare navi / buone per la guerra / o per la fuga” … “niente mi resta da dire”; sullo sfondo, una “ … terra di ulivi / di tramonto / terra di sale / da Elea a Metaponto”.


Il rapporto tra pensiero e immediatezza del gesto, dei sensi, è di nuovo presente in Velieri in bottiglia: “chiuso in bottiglia inutile veliero” (il suggerimento sembrerebbe quello di osare “(l’) inconsulto destino del gesto”, piuttosto che contemplare un eterno e infruttuoso, quand’anche sicuro, rifugiarsi in una campana di vetro).


Nella seconda parte della sezione, in particolare, con un gioco di anafore Di Pietro si concentra sui piccoli gesti della quotidianità, sui profumi delle spezie, del caffè, paradossalmente preceduti dal ripetuto “poi dirai”: conflitto tra parola e ciò che descrive, tra pensiero e ciò cui cerca di aderire, conflitto dove la parola e il pensiero arrivano sempre in ritardo, sempre imperfetti (“e tornerai nel regno di parole / a dire “non è per niente questo / non è per niente questo che volevo dire” … e lo si confermerà in seguito: “il pensiero arriva sempre tardi”); piuttosto, sembra preferibile abbandonarsi dolcemente “in balia / della vite dell’estate di te del nulla / che quando vuole se vuole ti culla”.


In Avari fiori i dettagli degli affetti quotidiani diventano protagonisti: “il tuo leggero gemito in amore / le labbra appena aperte nel sorriso / avari fiori, come l’elicriso”, in una visione dell’amore di una delicatezza rara, millesimata, preziosa, tra baci donati con lo sguardo e piccoli gesti mai compiuti; questa tenerezza così posata si intreccia nuovamente con i profumi della natura circostante, tra “… uva dolce … fichi / traboccanti di resina … ai papaveri, al tiglio quando infiora … nel giardino di cedri e d’assenzio …” in una sinfonia di profumi e sapori dove diventano “cose da niente i baci”.


E ancora, questo sentire si intreccia con una serie di personaggi, vere e proprie maschere del quotidiano, che, come in risonanza, amplificano il senso umano dell’esistere, tra l’aroma di limoni, del vino con garofano e cannella, e i piccoli gesti di ogni giorno, in una serie di preziosi epigrammi che oscillano tra il cercarsi, il nascondersi, il ritrovarsi e il ritorno, in un vero e proprio inno alla bellezza delle cose più semplici, e proprio per questo così rare e preziose.


Iscrizioni omaggia con la stessa posatezza e tenerezza naturale la morte del padre: “ti porteremo papà il pane e il sale / su una tovaglia infiorata di vino / lampade ubriache di stille d’olio / serti d’aglio e l’anice e l’elianto / (nemmeno in morte ti s’addice il pianto)” sembrando ritrovare la presenza della persona cara nei dettagli della natura, che di nuovo sembra essere il luogo privilegiato della trasfigurazione del sentire, dell’esistere e della memoria.


La raccolta si chiude con Piccola suite, dove si puntualizza di nuovo quello che ormai sembra essere il leitmotiv del libro: “ti passa a volte accanto, ti sfiora / una ragazza col suo odore intenso / la brezza adolescente ti divora / brucia in un niente la ragione il senso” e ancora: “le parole non trovano la strada / per dire quest’esilio”.


I sensi, i gesti, gli attimi e la natura in cui sono contestualizzati, appaiono come i momenti più autentici e reali dell’esperienza umana; anticipano e superano ogni volta le parole e il pensiero, che attarda con fare stentato e imperfetto, quasi incespicando per raggiungerli.


Bruno Di Pietro ci offre un affresco di questa visione, della propria memoria ed esperienza, arricchita da un sentire appassionato ma mai straripante, da un tono mirabilmente equilibrato e senza eccessi, con un decoro e una posatezza esistenziale e umana che non possono che instillare un sentimento intenso, nostalgico e struggente allo stesso tempo; il tutto collegandosi ai luoghi, alle storie e al gusto formale della tradizione classica, che rivivono in questi versi con naturalezza e senza tendenze antiquarie.

Mario Famularo

 

Alcuni testi:

l’aurora illumina di luce greca

la linea dei cipressi e la ferita

labili in vero i segni che la vita

incide nel trapasso fra la cieca

notte la solitudine e l’invidia:

non ancora giorno ma nell’insidia

del rinnovato chiarore si stinge

la furia dei propositi e sospinge

a sperare in un buio che non tramonta

spaventa l’evidenza delle cose

il loro essere immobile impronta

(benché il vento agiti mimose)

ma quale origine gli vuoi trovare

a quell’affanno che ci ha fatto soli

chi cerca nella terra chi nei voli

il nome il segno il modo di parlare

se appartiene al silenzio allo sguardo

al fruscio dei salici in ritardo

sull’autunno narrare il volere

di te di noi in queste lunghe sere:

chiamarti è la deriva degli intenti

se non so dirti il poco né l’intero

(le parole confessano indigenti

la poca confidenza con il vero)

Avrò tempo per darti l’amore

avrò tempo per quando il sudore

deterso al vento che rinfresca e salda

mi terrà nella tua morsa calda

che non si intende di costituzioni.

Avrò tempo per dirti l’inganno

del corpo e delle sensazioni:

vedrai che al fondo le cose hanno

l’umida natura di prigioni.

Amici morti per il fuoco

se l’acqua è l’inizio

ora interrogate il dopo

conoscete lo scopo

del pensare.

La cenere ha confuso il mare

deluso il cielo.

Il nostro era un viaggio terreno

e questa è terra di ulivi

di tramonto

terra di sale

da Elea a Metaponto.

poi prenderai la coperta d’inverno

la gatta ruberà il raggio di sole

coltivando dubbi su cosa sia saggio

e tornerai nel regno di parole

a dire “non è per niente questo

non è per niente questo che volevo dire”

il tuo leggero gemito in amore

le labbra appena aperte nel sorriso

avari fiori, come l’elicriso

avremo aurore rosa corallo

nel giardino di cedri e d’assenzio

suoni inauditi nel silenzio

avide notti cariche d’antico

coppe di legno colme di vin santo

e accanto il miele delle bocche

schiuse: cose da niente i baci

non possiamo Nietta che spremere

poco succo dai limoni rari

(quante le gemme bruciate dal freddo)

meglio sentieri antichi poco battuti

strade deserte polverosi cardi

(il pensiero arriva sempre tardi)

sfuma la luce Sergio troppo presto

così breve è l’estate novembrina:

accendi il fuoco con rami di pino

un velo di miele aggiungi nel vino

e chiodi di garofano e cannella

ti passa a volte accanto, ti sfiora

una ragazza col suo odore intenso

la brezza adolescente ti divora

brucia in un niente la ragione il senso

le parole non trovano la strada

per dire quest’esilio, lontananza

dalla luce che subito digrada

come evolve il suono in dissonanza


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