Eva Luna Mascolino vince il Premio Campiello Giovani con "Je suis Charlie" - recensione de
Una premessa - a cura di Mario Famularo
Abbiamo avuto il piacere di conoscere ed ospitare, in passato, tra le pagine del nostro Vox Arenae e sul nostro forum, la giovane e talentuosa Eva Luna Mascolino.
Quest'anno è stata proprio lei a vincere il Premio Campiello Giovani, con "Je suis Charlie", attirando l'attenzione di tutta la stampa nazionale, specialistica e non, sul suo nome e sulle sue abilità di scrittrice.
La giuria ha commentato la sua scelta in questi termini: “Dimostrando una non comune consapevolezza di alcune fondamentali questioni della storia presente, dà prova di una rara capacità di tener sotto controllo la propria materia: una vicenda che, pur connessa a un tragico recente episodio (la strage dei giornalisti parigini), lo lascia ai margini perché al centro scorrono gli strani casi di un protagonista ‘senza qualità’ né vocazione. Le scelte di costui non paiono dettate da necessità; né il partirsene da Parigi per confinarsi in una cittadina della Sicilia risponde a una protesta morale o ad altra nobile causa. Ma l’apparentemente gratuito gesto conclusivo restituisce al personaggio quella coscienza che sembrava smarrita o nascosta nelle pieghe della trama.”
Per celebrare questa vittoria, le abbiamo proposto di pubblicare una sintetica recensione del suo racconto e una breve intervista.
Siamo naturalmente molto felici che abbia accettato, e la ringraziamo per la disponibilità.
Recensione - a cura di Vittorio Cerruti
Il titolo del racconto potrebbe essere fuorviante: il tema centrale affrontato da Eva Mascolino non è la satira, non è il terrorismo, non è la religione, ma la sanità mentale di un personaggio nemmeno rilevante all'interno della redazione. Il racconto assomiglia quasi a una cartella clinica: sia perché la voce narrante sovente compie excursa esterni (ed esternamente, soprattutto) alla trama, sia perché impiega una minuzia descrittiva a tratti inquietante.
Nonostante l'opera sia piuttosto articolata, la lettura procede scorrevolemente, il lettore non è lasciato solo a districarsi nella complessità delle osservazioni; a livello puramente formale la narrazione procede senza intoppi, nonostante a volte si percepisca il timore dell'autrice di lasciare delle lacune nell'arazzo dei dettagli, che è piuttosto complesso.
"Casus belli" della follia del protagonista è qualcosa di molto vicino alla sindrome di Stendhal: il cervello di Le Léap pare sovraccaricato dagli stimoli offerti dalla caotica Parigi e, simmetricamente, dall'assenza di un sostrato interno capace di rielaborarli.
In questo aspetto dell'opera ritroviamo un po' il tema dell'antieroe, anche se forse sarebbe più preciso parlare di "disadattato".
Le Léap viene così presentato: "Jean-Ive Le Léap non era affatto un uomo dall’estro vivace, dopotutto. Era la brutta copia di un fumettista affermato e la bella copia di uno scrivano, l’umana evoluzione di un elaborato factotum, il tacito compromesso fra un segretario e un robot. Ci si sarebbe potuto scommettere che non era tagliato per fare lo scrittore. Stava alla scrittura come un criceto starebbe alla risoluzione di un’equazione matematica: c’era fra lui e il mondo verbale scritto un rapporto di tesissima convivenza, di sofferta accettazione. Quasi di masochistico piacere senza uscita."
Il lettore viene fin da subito alienato da questo personaggio, sebbene nella descrizione del suo soggiorno a Lentini l'autrice pare mostrare un tocco di clemenza.
In questa parte del racconto, più che a una guarigione, come Eva Mascolino all'inizio pare prospettare, assistiamo ad una letterale nostalgia, νόστος e άλγος, dolore ed anelito per il ritorno; il comportamento di Le Léap sfiora la paranoia, tormentato dall'opprimente sentimento.
Ed ecco nel finale ciò che probabilmente tutti si aspettavano essere il vero protagonista e unico contesto del racconto: l'attentato dalla redazione.
Le Léap è materialemte del tutto estraneo ed è proprio questa estraneità a dar luogo ad un finale particolare: se da una parte molti suggerimenti sulla sorte del protagonista sono presenti nel racconto, dall'altra vi è un elemento, che lascio ai lettori la sorpresa di scoprire, che svela la ragione dietro alla natura della voce narrante.
Un'opera decisamente particolare quella di Eva Mascolino, tale da meritare la vittoria al Campiello Giovani, vittoria a parere di chi scrive meritatissima.
Intervista - a cura di Cristiana Lucidi
CL: La vittoria del Campiello giovani ti ha resa nota in tutto il Paese, con immenso orgoglio di quei giovani che, come me ed i miei colleghi, ancora hanno fiducia nel fatto che il merito possa e debba essere premiato. Tuttavia, c'è sempre un prima. Nel tuo caso, quando hai iniziato a sentire la scrittura come parte integrante della tua persona ed in che modo hai imparato a farla veramente tua, unica ed inimitabile?
ELM: Ho cominciato a scrivere da quando ho iniziato a leggere, più o meno all'età di cinque anni: mi piaceva avere l'opportunità di dire qualcosa di mio e mi rendeva inquieta l'idea di non avere ancora una voce al pari degli altri autori. Così, quando mi venne regalato un quadernino per gli appunti, iniziai ad annotarvi tutto quello che vedevo per strada. Col passare degli anni, mi sono accorta che scrivere stava diventando una vera e propria passione, sicuramente anche grazie agli incoraggiamenti ricevuti sia a casa che a scuola. Tuttavia, i primi racconti complessi e strutturati li ho scritti quando già facevo il liceo: è accaduto quando mi sono innamorata per la prima volta, banale ma così vero, che non potrebbe essere altrimenti. Ciò che scrivevo non aveva nulla a che fare con l'innamoramento in sé, eppure questo era come una forza aggiunta, un input energetico che prima non avevo. Decisi allora di aprire una pagina personale su facebook, ed iniziai a pubblicarvi miei scritti, ma solo come passatempo. Poi sono arrivati i primi “mi piace” ed i primi sostenitori: questo mi ha spronata a continuare finché, grazie ad un mio compagno di classe, venni a conoscenza del Campiello. Per una sorta di sfida personale decisi di tentare anche io: il primo anno mi sono classificata tra i primi venticinque, il secondo non ho avuto alcun riscontro e quest'anno è successo quello che non mi aspettavo, ma speravo che accadesse.
CL: Poco fa hai accennato ai social network: in questo percorso personale e professionale, in che modo ha influito il confronto con altri giovani scrittori o aspiranti tali, tramite i sempre più numerosi forum letterari online?
ELM: Questo tipo di confronto online è un'arma a doppio taglio, soprattutto per il pubblico dei lettori: spesso si trova chi si accontenta di poco ed inizia subito a parlare di talento e fenomeno, quando in realtà si tratta unicamente di una persona capace di mettere una parola dietro l'altra in modo pseudo-talentuoso. Da questo punto di vista sono sempre stata molto critica e ho sempre avuto una certa diffidenza. Tuttavia, quando ho incontrato persone competenti e con un consistente bagaglio culturale oppure persone con più esperienza e già inserite nel settore, ho preso in considerazione quanto mi veniva detto, perché mi faceva capire sia il valore di ciò che scrivevo, sia di avere la capacità di fare visualizzare agli altri ciò che avevo in mente. Questo non è da tutti: c'è chi esprime qualcosa di straordinario, ma non riesce a farlo visualizzare, e chi magari non dice nulla di estremamente complesso, ma lo sa rendere vivo e visibile. L'ho constatato per la prima volta grazie al confronto virtuale e questo mi ha molto incoraggiata: se si è convinti di trasmettere qualcosa di importante, è fondamentale rendersi conto che ciò che si pensa e poi scrive arrivi al lettore nella sua interezza.
CL: Tu italiana in Francia, Le Leap parigino in Italia: in questa sorta di gioco degli specchi, quanto il protagonista del racconto rappresenta il tuo riflesso?
ELM: È verissimo che c'è un riflesso, per di più duplice. In realtà, ho scritto il racconto molto prima di partire. Solo ora mi rendo conto che le corrispondenze sono molte, affiancate ad una serie di coincidenze: mi sono resa conto di aver fatto nascere il mio protagonista nella stessa città in cui poi mi sono trovata in Erasmus, per altro senza averla scelta; il primo aereo che Le Leap prende decolla alle 9.56 e il volo che io in seguito ho preso per andare in Francia era stato fissato alle 9.55. È un particolare che mi ha messo i brividi perché ho scritto il racconto a Gennaio e sono partita a Settembre. Tralasciando il piano dell'insondabile, c'è tra me e il protagonista un approccio totalmente diverso nei confronti di Parigi: non l'ho mai visitata come si deve, ma sono convinta che tutta quella bellezza sia il massimo a cui si possa aspirare. Per contrasto, ho immaginato che chi ci vive o si dimentica di tutta quella bellezza o ne viene quasi disgustato: così ho creato un gioco di contrasti, con il protagonista che all'inizio ama la sua città e poi arriva ad un rapporto di amore ed odio che non aveva previsto. Ho poi pensato che lo stesso mutamento potrebbe avvenire anche in me, qualora vivessi a Parigi. Si può dire che da un lato io e Le Leap siamo accomunati dal rapporto ambiguo con la città e dall'altro dal fatto di avere “strane patologie”: i miei personaggi camminano sempre sull'orlo della follia, perché mi piace vedere come il lettore reagisce di fronte a stranezze ed a personalità estreme.
CL: La Francia è la tua nuova casa, ma parli con una certa nostalgia di Lentini. Cosa ti lega a quei luoghi e cosa invece ti ha portata a volertene allontanare?
ELM: Sono originaria di Catania, ma ho trascorso una buona metà della mia vita a Lentini, città natale di mia madre. Sono sempre stata attratta o dai paesi molto piccoli o dalle metropoli e trovo insignificanti le città di medie dimensioni. Di Lentini mi ha sempre affascinata il fatto che sia un microcosmo, ma c'è anche un aspetto che mi ha sempre lasciato una punta di amarezza: come tutta la Sicilia ed il Meridione in generale, non ha sviluppato a pieno le sue potenzialità, mantenendosi nella mediocrità dal punto di vista culturale, artistico e mentale. A distanza la nostalgia ovviamente c'è perché molto di ciò che forma una persona è legato a quello che ha vissuto nell'infanzia, nell'adolescenza e nella prima giovinezza, fasi in cui si costruiscono personalità, ideali e valori morali. Pertanto ho un fortissimo legame di gratitudine verso la mia terra natia. Un esempio di questo rapporto è riscontrabile in Verga: per scrivere le sue “Novelle siciliane” andava a Milano, in modo da non essere troppo coinvolto emotivamente e fisicamente coi fatti narrati. Io non sono mai partita per lunghi periodi, questa è la prima volta, ma mi rendo conto che stando qui il mio giudizio è diventato più obiettivo ed ho preso coscienza delle potenzialità del mio paese e di quanto siano male investite le sue risorse. Anche se aspetto sempre un miglioramento, questo non è destinato a giungere nell'immediato, lasciandomi una forte delusione che va a contrastare con la gratitudine.
CL: È così: nel racconto tutto ciò emerge dal modo in cui parli della cultura popolare e della sua circolazione mediatica, ma anche dalle immagini che utilizzi nel descrivere la fissità di quel microcosmo, Lentini, che sembra essere al di là del tempo e dello spazio, svincolato dall'Europa e dal mondo globalizzato.
ELM: Grande verità: a Lentini l'Europa non esiste, l'Italia stessa sembra essere un mondo a parte. Questo, forse, perché quella della Sicilia è una realtà isolana, con tendenze conservatrici molto più accentuate rispetto al continente. L'Europa a Lentini non è mai arrivata, è sempre stata al di fuori della mentalità e delle abitudini dei suoi abitanti: per loro ci sono i limiti del piccolo paese, del giornale locale, delle trasmissioni televisive nazionali. È tutto miniaturizzato: il tempo scorre parallelo e non si incontra mai con quello del continente e delle grandi città. Da un certo punto di vista è affascinante, molto pittoresco, ma da un altro ha consistenti carenze.
CL: Torniamo al racconto in sé: un elemento ampiamente trattato è la fortissima attrazione del protagonista verso il bello, verso la contemplazione estetica fine a se stessa. È come una prigione sui generis: non ha sbarre né sorveglianza, ma è impossibile fuggirne. Tenendo presente il “gioco degli specchi”, quanto l'estetica costituisce anche per te una catena invisibile ma infrangibile?
ELM: Anche io percepisco la stretta fortissima di questa “catena” e l'ho voluta rendere visibile attraverso il racconto. In scrittura, il rapporto strettissimo con la bellezza mi condiziona sia nella percezione delle altre opere che nella mia produzione. Questo è sicuramente dovuto alla mia formazione: il kalòs kai agatòs per me è sempre stato un principio, sebbene mi renda conto che in realtà così non è – il bello non è necessariamente buono. Tendo sempre a ricercare in prima istanza il bello e, quando lo trovo, vi cerco anche il buono. Al contrario, se non trovo il bello (né in scrittura, né nella quotidianità), ho come l'impressione di non trovare nemmeno il buono. È un vincolo tremendo proprio per il fatto che non riesco a sradicare la tendenza verso l'eccesso e la ricerca del bello in quanto tale, sebbene io sia consapevole che è fondamentalmente sbagliato.
CL: La dipendenza di Le Leap dalla contemplazione del bello, fulcro di tutto il racconto, sembra essere vista come una malattia, uno stato di totale alienazione mentale. Può essere anche metafora del ruolo ormai anacronistico ed obsoleto dell'esteta in un mondo in cui l'arte, nello specifico la letteratura, sembra essere sempre più mero bene di consumo?
ELM: In effetti Le Leap è un personaggio totalmente anacronistico perché nessuno, nel XXI secolo, avrebbe la sua tendenza naturale a contemplare la bellezza in modo tanto intenso e prolungato. In questo senso posso dire che la sua sia una sorta di malattia, che è un po' anche la mia.
Nel racconto c'è un forte intento critico nei confronti dell'attuale concezione dell'arte: la riflessione sul ruolo dell'esteta coinvolge anche me, dal momento che sono convinta del fatto che l'arte debba restare tale e non trasformarsi un bene di consumo, degenerando a mero prodotto in serie e perdendo la capacità di elevazione morale, riflessione o, perché no, di contemplazione fine a se stessa. La manipolazione del pensiero a fini commerciali non è arte: questa allude, suggerisce, a volte mostra con violenza, ma non manipola mai.
CL: Ultima domanda, forse la più banale, ma a questo punto d'obbligo: essere Charlie significa solo cucire un'etichetta sui brandelli di nullità della cultura contemporanea, oppure c'è ancora chi è in grado di impugnare una penna o una matita con la propria mano, guidandone i movimenti su di un foglio col proprio cervello, trovando l'immenso coraggio d'infrangere l'onda anomala dell'omologazione e della censura, sia essa violenta o subdolamente celata?
ELM: Io non mi sento affatto Charlie Hebdo, non ho mai detto né pensato di essere vicina a quel tipo di pubblicazione: non faceva satira, ma insulto, denigrazione. La libertà di parola è sacrosanta finché non oltraggia l'altro: mettersi in luce pubblicamente dicendo qualcosa di offensivo e pungente nei confronti di qualcuno non è libertà di parola, ma abuso. C'è da distinguere tra la satira sociale, volta a far ironia sul malcostume per spronare al miglioramento e quella che, sebbene in modo inconsapevole, si limita a scagliare pietre casualmente. Con ciò non voglio assolutamente giustificare l'attentato, lungi da me il solo pensiero, ma continuo a sostenere che Charlie Hebdo non fosse un baluardo della libertà di parola e che tutta l'empatia manifestata nei suoi confronti sia immotivata. Sono anche convinta che tutta questa risonanza ci sia stata perché è un fatto accaduto in Europa. Se fosse successo in una redazione mediorientale, africana o anche americana, l'Europa non si sarebbe scandalizzata in tal modo. È squallido che non si prenda mai posizione quando l'Isis viola la libertà di espressione di un paese extraeuropeo e insorga solo quando si verificano atti del genere sul proprio territorio. In questo senso, la disinformazione è la peggior forma di censura: posso affermarlo dopo aver constatato che i media nazionali attingono all'estero solo quando ciò che vi accade ha ripercussioni nel proprio paese. Ad esempio, le testate nazionali francesi molto spesso pubblicano articoli sui fatti del Nordafrica, dal momento che vi sono ex colonie le quali ancora hanno un fortissimo legame economico con la ex madrepatria. Questa non è informazione, è solo cercare di tutelarsi finché si è in tempo.