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Tito Lucrezio Caro: animus ed anima nel De rerum natura - di Cristiana Lucidi

I prodromi del poema lucreziano: l’atomismo di Leucippo-Democrito e l’Epicureismo del “Giardino”


Sarebbe errato intraprendere una trattazione pienamente scientifica delle dottrine trasposte da Lucrezio negli esametri del De rerum natura, il primo poema epico-didascalico latino, avente come oggetto la materia fisica, trascurando l’antica sapienza cui egli attinse. Questa “antica sapienza”, si faccia attenzione, non proviene esclusivamente e solo da Epicuro, ma anche da coloro a cui questi si ispirò: Democrito ed il suo maestro Leucippo.


Di Leucippo ben poco sappiamo, tanto che spesso si finisce col trascurarlo e con l’attribuire le sue proprie conquiste al ben più noto discepolo, Democrito. Infatti, non è da escludere che le opere di Leucippo siano state assorbite da quelle del discepolo.


Per quel che riguarda quest’ultimo, possediamo notizie biografiche assai dettagliate (e talora fantastiche) di numerosi autori antichi, tra i quali spiccano Aristotele, Cicerone, Apollodoro, Diodoro, Eusebio, Strabone, Plinio. Non è questa la sede per discutere sulla credibilità delle loro asserzioni riguardo alla lunga vita del filosofo di Abdera, ma si può affermare con sicurezza che nacque qualche lustro dopo il suo maestro, attorno al 460 a.C. È proprio lo stesso Stagirita che ci ha consegnato un’esauriente analisi della teoria atomistica nella sua opera La generazione e la corruzione[1], e quel che più sorprende è il fatto che egli abbia individuato l’inscindibile legame tra la scuola eleatica e l’atomismo (e, aggiungerei, come il sistema di Leucippo-Democrito abbia tentato di dare una risposta razionale “alle aporie suscitate dall’eleatismo, cercando di salvare il principio di fondo dell’eleatismo medesimo, senza rinnegare i fenomeni”[2]).


Sarà ora lecito chiedersi quali fossero le teorie dei Presocratici che prima Leucippo, poi Democrito ed infine, a più di un secolo di distanza, Epicuro, ebbero premura di mettere in dubbio. E non un “dubbio socratico” ante litteram, bensì una messa in discussione volta a gettare le basi di una filosofia della natura migliore e più vicina alla verità ultima delle cose (anche se tale fu solo per i pochi sostenitori, dal momento che non solo non risolse le aporie eleatiche, ma addirittura ne originò di più paradossali).


In particolare, Leucippo fondò il proprio pensiero filosofico rovesciando in senso positivo le ipotesi negative di Melisso. Si possono addurre due esempi a dimostrazione di ciò. In primo luogo, se il primo prosatore tra i presocratici ammetteva la “piena” esistenza dell’Essere, che è inalterabile, immobile, incorporeo e negava del tutto l’esistenza del vuoto, che è non-essere, il maestro di Democrito eliminò la contrapposizione dialettica pieno-vuoto ed affermò la possibilità del movimento dei suoi atomi proprio grazie al vuoto.


In secondo luogo, mentre Melisso tentava la riduzione all’assurdo del pluralismo negando ai molti l’eternità, che è prerogativa esclusiva dell’Essere (il quale, si sa, è uno), Leucippo argutamente sostenne l’esistenza dei molti, che, alla stregua dell’Uno melissiano, possono essere eterni ed immutabili. E’ proprio in tal modo che nacque “l’ipotesi di una molteplicità che, mantenendo identica la propria natura qualitativamente indifferenziata, fosse ragion d’essere della molteplicità fenomenica qualitativamente differenziata”[3].


Si può così intuire come il sistema filosofico di Leucippo-Democrito non sia del tutto originale, ma muova sempre dall’inevitabile polemica con pensatori anteriori o contemporanei e talora (come inevitabile) faccia tesoro delle precedenti conquiste. Ad avvalorare questa teoria v’è il fatto che proprio la definizione di atomo implichi una modifica di quelli che per Empedocle erano i quattro elementi eterni (fuoco, acqua, terra, aria) e per Anassagora i semi infiniti ed infinitamente divisibili (senza però arrivare al nulla), detti omeomerìe. Infatti, se i due pluralisti asserivano che le qualità visibili di ciò che percepiamo coi sensi derivano da differenze qualitative degli elementi originari, i due fondatori dell’atomismo fan scaturire “tutte le determinazioni qualitative fenomeniche da determinazioni quantitative geometriche”[4]. Questa è la basilare distinzione tra “qualità primarie” e “qualità secondarie”, ossia tra le caratteristiche geometriche degli atomi e le affezioni delle cose visibili.


La teoria di fondo degli Atomisti, come si è già potuto capire, consiste nella convinzione che tutto sia esclusivamente generato dagli atomi e dal movimento, il quale risulterebbe impossibile in assenza del vuoto. Ancora una volta, se Empedocle aveva parlato di Amore ed Odio ed Anassagora di Intelligenza quali cause del movimento, gli Atomisti non sentono di dover attribuire l’origine del movimento a nient’altro se non al movimento stesso: gli atomi sono per natura in perpetuo moto.


È pertanto da escludere che Democrito “il mondo a caso pone”: il fatto che tutto avvenga per rigorosa necessità esclude categoricamente la casualità e sprona alla ricerca di una spiegazione causale della realtà fenomenica. Che poi questa causa non fosse quella finale sarebbe superfluo spiegarlo, dal momento che non si può negare ciò che ancora non esiste. Si potrà però a buon motivo affermare che l’impossibilità di un kòsmos derivante dal chàos atomico sia stata il punto di partenza per l’intuizione dell’esistenza dell’intellegibile, ossia per le conquiste di Platone.



Infatti il determinismo meccanicistico di Leucippo e Democrito, più che ricercare le cause del movimento atomico (le quali sono invisibili ai sensi, quindi non direttamente percepibili, ma solo postulabili), è volto ad indagarne gli effetti. Si avrà così che il nascere è provocato dall’incontro tra gli atomi che vorticosamente si muovono nel vuoto, mentre il perire dalla loro disgregazione. Inoltre le particelle, una volta separate, ne incontreranno altre per formare nuovi composti: è un’intuizione sorprendente, poiché la si ritrova simile nella legge della conservazione della massa di Lavoisier, secondo cui in natura “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.


Gli Atomisti tutto spiegano con il movimento (degli atomi) ed il vuoto. Per “tutto” si deve intendere non solo i fenomeni naturali che cadono sotto i nostri sensi, ma anche ciò che in certo modo trascende la percezione sensoriale: l’anima e la conoscenza. Dato che tale spinoso argomento sarà trattato in altra sede, basterà qui accennare che “come ogni forma di meccanicismo, così anche il pensiero atomistico rivela le sue insufficienze soprattutto nella spiegazione degli organismi”[5], tra i quali primaria importanza ha l’uomo, l’unico possessore di un’anima ed il solo capace di conoscenza “metasensibile”.


Le conquiste di Leucippo e Democrito, se da un lato furono riprese da Platone ed Aristotele a scopo polemico, dall’altro furono riportate in auge da Epicuro, il quale però si trovava a trasmettere la propria dottrina in una società profondamente diversa rispetto a quella di oltre un secolo prima. E’ questo un dato non trascurabile, dal momento che i mutamenti introdotti dal fondatore del Kèpos sono dovuti proprio ai cambiamenti avvenuti dopo il tramonto della civiltà delle pòleis ed il denso diffondersi della tenebra dell’ellenismo (ovviamente così era per i Greci del IV secolo; oggi si attribuisce all’età di Filippo ed Alessandro il giusto valore).


Dell’atomismo Epicuro ereditò non solo le originali intuizioni, ma anche la base polemica del sistema filosofico. Infatti, il metodo del rovesciamento in positivo di tesi negative avversarie venne trasmessa da Leucippo e Democrito al filosofo di Samo alla stregua di una malattia ereditaria. Tuttavia, Epicuro non poteva portare avanti l’anacronistica messa in discussione delle affermazioni dei Presocratici, come avevano fatto i suoi “maestri”: la sua veemente critica è rivolta ad un suo immediato antecessore, Platone, di cui ripudia la cosiddetta “seconda navigazione”. Da qui nasce la totale fiducia che il fondatore del Kèpos attribuisce alla sensazione, ritenuta il più solido criterio di verità, contrariamente ai ragionamenti (ossia le opinioni), che possono cadere in errore.


Se questa è un’innovazione epicurea rispetto all’atomismo, si può affermare che a distanziare maggiormente i due sistemi filosofici sia la predominanza dell’etica rispetto alla fisica (quindi la subordinazione di quest’ultima alla prima) sostenuta da Epicuro.


Per quel che riguarda la fisica, i principi di fondo restano analoghi a quelli degli Atomisti. In primo luogo, “nulla nasce dal non-essere”[6] e nulla “si dissolve nel nulla”[7], ossia non esistono né creazione né distruzione. In secondo luogo, esistono solamente i corpi ed il vuoto e null’altro costituisce la realtà che cade sotto i nostri sensi. In terzo luogo, tra i corpi ve ne sono di semplici ed indivisibili: gli atomi, ancora una volta quantitativamente (e non qualitativamente) differenti. Per di più, Epicuro tenta di risolvere una delle maggiori aporìe dell’Atomismo antico: come gli atomi, cadendo secondo un moto che dovrebbe essere perpendicolare, possano incontrarsi. Così il nostro filosofo introduce il concetto della parènklisis, che Lucrezio traduce in latino con il neologismo (nonché calco semantico) clinamen. “Declinare… atomum perpaulum”[8], dice Cicerone: ossia l’atomo devia un poco dalla propria traiettoria, urtando altri atomi e permettendo in tal modo la formazione dei corpi composti. Tuttavia, “la più notevole delle innovazioni che Epicuro introdusse nella fisica atomistica”[9] non fece altro che trasformare un’apparente soluzione del problema introducendo una nuova e più paradossale aporìa: se Democrito aveva attribuito agli atomi un’intrinseca forza motrice, il Samio afferma che il moto dipenda dalla gravità e dal peso. Ciò porta ad una negazione di quella Necessità che era stata il fondamento per la fisica non solo atomistica, ma anche eleatica. E’ pertanto Epicuro, non Democrito, “che 'l mondo a caso pone”.

Ancora l’Arpinate brillantemente intuì brillantemente che l’innovazione epicurea era volta non tanto ad introdurre una spiegazione logica e razionale del “creato”, ma a gettare le basi su cui avrebbe poi innalzato il fragile monumento della sua etica[10]. Gli appariva infatti impossibile (direi a buona ragione) inserire la libertà della vita morale dell’uomo all’interno di un universo rigidamente governato da un’immutabile necessità.


In questa sede verrebbe naturale trattare della concezione epicurea dell’anima, ma come sopra accennato, ciò sarà fatto a tempo debito. E’ piuttosto d’uopo analizzare il modo in cui Lucrezio, a ben due secoli di distanza, abbia preso l’audace iniziativa di tentare di diffondere il sistema filosofico di Epicuro in una società che difficilmente lo avrebbe potuto recepire.


L’Epicureismo a Roma: Lucrezio, un discepolo sui generis


quoniam haec ratio plerumque videtur

tristior esse quibus non est tractata, retroque

vulgus abhorret ab hac, volui tibi suaviloquenti

carmine Pierio rationem exponere nostram

et quasi musaeo dulci contingere melle, …[11]


Mi sembra d’obbligo, a questo punto, gettare uno sguardo sull’epoca in cui Lucrezio visse e, soprattutto, sulla sua scelta (a dir poco eccezionale) di mettere in versi una filosofia come l’epicureismo.


Il quadro politico della Roma del I secolo a.C., anche se diverso da quello della Grecia del IV secolo a.C. (aggiungerei che le due civiltà, la greca e la romana, sia politicamente che culturalmente ben poco ebbero in comune), si presenta tuttavia come una serie ininterrotta di turbolenze, che troverà termine unicamente con l’ascesa al potere di Ottaviano Augusto.


Anche se incerte sono le notizie biografiche su Lucrezio, possiamo tuttavia affermare che egli visse nel pieno del secolo di crisi che vide profondi mutamenti sotto ogni punto di vista (sociale, politico, culturale). Ed è proprio questa situazione di instabilità che, come minò l’identità di polites nei cittadini ateniesi del IV secolo, così ora insidia il sentirsi cives del cittadino romano.


A questo punto sorge spontaneo un interrogativo: sebbene filosofi greci, tra cui Fedro, maestro di Cicerone, abbiano annunciato la “buona novella” in una Roma sconvolta almeno quanto lo era stata Atene tre secoli prima, come mai l’epicureismo non ha lasciato traccia alcuna nella società romana? Vi sono diversi motivi, che facilmente si possono evincere da una breve e semplice analisi antropo-sociologica della Roma del I secolo a.C. Innanzitutto, sebbene avesse alla sue spalle circa 600 anni di storia, la civiltà latina all’epoca di Lucrezio non aveva ancora terminato la sua fase di “crescita”. Così, se nel mondo greco l’epicureismo fece risuonare i primi vagiti in una fase di inesorabile declino, a Roma ebbe un tentativo di approccio durante una crisi transitoria, che non aveva minato alla base le tradizioni di una civiltà che di lì a poco sarebbe divenuta un impero. Inoltre, se nell’Atene dilaniata dalla guerra del Peloponneso ed inglobata nel regno macedone l’interesse politico era ormai estinto (la morte della polis necessariamente portò a quella del polites), nella Roma del I secolo a.C. era ancora vivissimo, dato che le guerre scatenatesi tra Mario e Silla prima, Cesare e Pompeo poi, Ottaviano Augusto e Marco Antonio infine furono proprio guerre civili. Orbene in questo contesto, in una società nella quale le tradizioni ed il senso di appartenenza al corpo civile erano più forti che mai, come avrebbe potuto attecchire una filosofia che ha come principio di base un “otium” possibile solo grazie ad una vita appartata, lontana dalle vicende mondane, priva dei turbamenti derivanti dagli impegni politici, dedita unicamente alla ricerca del piacere tramite il soddisfacimento dei bisogni primari? E’ proprio l’Arpinate, contemporaneo di Lucrezio, ad avvalorare questa tesi: l’homo politicus ha come dovere morale l’impegno civile, l’unico che possa renderlo davvero dignus. Se poi si aggiunge il fatto che la concezione epicurea di ciò che il nostro poeta chiama religio è antitetica rispetto a quella della tradizione dell’inviolabile mos maiorum, risulta chiarissimo il totale rigetto del “vangelo” di Epicuro da parte della civiltà latina.


Non sorprenderà dunque notare che in tutta la letteratura latina Epicuro sarà sempre citato unicamente a scopo polemico e che solo Lucrezio ed Amafino, per di più scrittore di infimo valore (sempre secondo Cicerone), osarono esaltare la dottrina del filosofo di Samo. Sorprenderà invece notare come il suo più noto discepolo nel mondo latino, Tito Lucrezio Caro, abbia audacemente scelto di esporre la dottrina del suo maestro, il Prometeo moderno, l’eroe e salvatore dell’umanità, Epicuro (oserei dire un Messia ante litteram) utilizzando la forma poetica e non quella prosaica.


In questa sede non posso che rifarmi ad un felice passaggio di Pierre Boyancé: “[…] non ci troviamo solo in un’epoca in cui era normalmente la prosa la lingua della filosofia; non ci troviamo solo di fronte a un sistema che può sembrare particolarmente prosaico, che […] bandisce dall’universo la vita e la tragedia delle divinità […]. Ma esiste una difficoltà in più, dovuta alle idee personali di Epicuro a proposito della poesia […]. Epicuro non amava la poesia.”[12]


L’avversione di Epicuro nei riguardi della poesia risulta tanto più forte quanto più si pensa che la poesia da lui intesa è soprattutto quella di stampo omerico, così inscindibilmente connessa al mito, che a sua volta è fondamentale per la religione tradizionale (un vero monstrum agli occhi del nostro filosofo). Detto questo, il De rerum natura potrebbe apparire come un affronto all’ortodossia dell’epicureismo originale. Tuttavia ci sono diversi elementi che negano l’ipotesi di un’eretica temerarietà da parte di Lucrezio e lo fanno assurgere, a tutti gli effetti, tra i più arditi sostenitori dell’epicureismo e tra i più ferventi amanti del Maestro.


Infatti l’ “evangelista” di Epicuro non solo ama la poesia sia greca (torneremo più in là sulla sua ammirazione per Empedocle, il primo filosofo-poeta) che latina (esalta Ennio come l’ “Omero latino”), ma è orgoglioso di aggiungere alla poesia un nuovo attributo: la chiarezza, il più alto risultato del Musaeus lepos di cui si adorna la poesia. Questo smisurato orgoglio trova ampia esposizione nel primo capitolo del poema didascalico in analisi, lo stesso capitolo in cui ha sede la famosissima invocazione a Venere, che per Lucrezio non incarna la Natura, ma il piacere, ossia il principio che fa muovere l’immenso meccanismo della natura grazie alla riproduzione. Pertanto, Venere deve assistere il poeta nella sua missione conferendo ai suoi versi quello stesso lepos che porta alla perpetuazione della specie, alla vita. Citando ancora una volta il Boyancé, la cui trattazione al riguardo mi è sembrata la più pertinente : “[…] la poetica di Lucrezio si fonda sul principio fondamentale della teoria epicurea della vita. Quel mondo in miniatura che è il poema obbedirà alla legge del mondo”[13].


Non solo voluptas, ma anche claritas. Infatti è proprio grazie a questo secondo attributo della poesia “lucrezianamente” intesa che si può definire il De rerum natura un poema didascalico a tutti gli effetti. E’ questo un fatto per nulla sorprendente, se si pensa che, da fedele discepolo quale voleva essere, Lucrezio ebbe necessariamente la stessa concezione della filosofia teorizzata dal maestro: veicolare un salvifico e, soprattutto, veritiero messaggio morale.


L’originalità e, oserei dire, la genialità di Lucrezio, risultano evidenti proprio nell’aver saputo avvolgere il concreto materialismo epicureo con una veste poetica la cui leggera grazia e le cui icastiche, quasi tangibili immagini ben si confanno al messaggio veicolato. La poesia del nostro autore è ben lungi dalla poesia (mitologica) contro cui Epicuro muoveva le proprie accuse di essere foriera di turbamenti e falsità[14]: è poesia (come già accennato) didattica, ove per “didattica” si deve intendere la volontà di condurre il lettore all’unica verità (quella della dottrina epicurea) con uno stile chiaro ed immediato, privo di qualsiasi ambiguità ed eccesso di retorica, ma sorprendentemente lontano dal rischio di cadere nel prosaico.


Sono convinta che anche l’attacco di Lucrezio contro Eraclito (contenuto nel libro I del De rerum natura ai versi 635-711) possa essere letto come una sorta di dichiarazione poetica: ciò che il poeta latino vuole evitare è proprio l’obscuritas del filosofo presocratico, poiché “in questo genere di scrittura vaga e pomposa, il contenuto è sacrificato in favore del puro effetto verbale”[15]. Ritroviamo qui una concezione affine a quella aristotelica: è proprio lo Stagirita a citare Empedocle come l’emblema del poeta che, non avendo alcunché da dire, cerca di sopperire all’inconsistenza del pensiero con un linguaggio ambiguo ed oscuro[16]. Tuttavia, non bisogna cedere alla tentazione di instaurare un confronto alla pari tra Eraclito e Lucrezio. Infatti, l’Efesino era ancora tutto pervaso dallo “spirito dionisiaco” del popolo greco (per dirlo con termini nietzschiani) proprio dell’epoca anteriore all’intellettualismo socratico: ciò lo rendeva una sorta di mantis, le cui sentenze erano dettate dal divino invasamento e per questo incomprensibili, ma, al contempo, dotate del fascino che solo il sublime ha. Il nostro poeta invece è costretto da un duplice vincolo: quello nei confronti della filosofia epicurea, i cui principi non può e non vuole tradire, e quello nei confronti dello strato sociale cui il poema deve giungere: quello che, pur avendo accettato la cultura ellenica, ha ancora la forma mentis concreta e pragmatica tipica della discendenza di Romolo. Inoltre (se mi è lecito utilizzare termini cristiani), Eraclito è egli stesso il Messia, la voce del divino, cui il tono oracolare è quasi d’obbligo; Lucrezio invece è un evangelista che, a due secoli dalla morte del maestro, sente il dovere morale di diffonderne le salvifiche dottrine. Eppure, nonostante la distanza cronologica e culturale che separa il poeta latino dall’Efesino, nonostante l’avversione nei confronti di Eraclito che Lucrezio ha ereditato dagli atomisti, è inevitabile notare come lo stile oscuro del presocratico eserciti il suo fascino sul discepolo di Epicuro, dal momento che “i suoi versi salvifici nascono anche dal furor e dall’invasamento, riflettono la divina voluptas e l’horror dell’animo che trasale alla vista degli infiniti orizzonti disvelati dalla scienza epicurea”[17]. Non solo: pur facendosi il portavoce della serenità raggiungibile tramite il tetrapharmakon, Lucrezio ha screziato di tenebra e moti ondosi quella luminosa e placida distesa che dovrebbe essere il saggio una volta raggiunta l’atarassia. Tutto il poema è percorso da una sottile malinconia che obnubila di intimo lirismo la “filosofia dell’oggettivo”.


Nonostante ciò, l’autore del De rerum natura è a tutti gli effetti un poeta appartenente alla tradizione antica, ovvero il suo ruolo è quello di docere (da qui la nozione di “poesia didattica”) e non quello di suscitare sconvolgimento emotivo tramite il prepotente rigurgito della propria marcata sensibilità. Ed è appunto per questo che è alquanto difficile “comprendere cosa appartenga alla filosofia e cosa alla mente del poeta”[18].


Personalmente, non ritengo sia del tutto scorretto affermare che, sebbene le dottrine professate da Lucrezio nel suo poema non siano originali, tuttavia il modo in cui vengono espresse sia addirittura più efficace di quello del maestro. A questo proposito non potrei addurre miglior spiegazione di quella elegantemente cantata dal nostro poeta: il pharmakon somministrato dalla filosofia di Epicuro ha un sapore troppo amaro per chi deve assumerlo per la prima volta; così il lepos della veste poetica funge da miele con cui “medentes […] oras pocula circum contingunt”[19] affinché la medicina sia edulcorata. Questa immagine “presuppone un’alquanto primitiva dottrina di forma e contenuto: infatti implica che lo stile sia qualcosa che viene steso sul messaggio del poema per renderlo accettabile ad orecchie riluttanti o recalcitranti”[20].


Si pone ora il problema del linguaggio lucreziano, ossia in che modo il poeta in analisi riuscì ad ovviare alle difficoltà poste dalla povertà della sua lingua. Egli stesso, in I.136-139, dimostra di essere ben consapevole dell’inadeguatezza della terminologia tecnica (per quanto concerne la filosofia) del latino, ma, quasi paradossalmente, in tutto il poema non lo si trova mai in difficoltà nell’esprimere concetti alquanto complessi rendendoli facilmente intellegibili.


Il sopra citato Arpinate, in un passaggio del De oratore, fornisce un’esauriente trattazione riguardo agli “espedienti” utili a superare elegantemente la povertà del linguaggio: utilizzare arcaismi, neologismi, metafore[21]. Si faccia però attenzione: nella maggior parte dei casi, il neologismo (novatum) non è una parola creata appositamente per adempiere ad una specifica funzione semantica, ma un vocabolo greco “introdotto nella lingua latina per la prima volta”[22].


Così, dal poema dedicato al pensiero dell’eroico Graius homo che risollevò l’umanità dalla vischiosa melma della superstitio, è naturale aspettarsi un’adeguata ricchezza di grecismi. Tuttavia si tratta di ricchezza, non di sovrabbondanza, e (come suggerisce lo stesso Cicerone) Lucrezio non è avaro di icastiche metafore. Sono proprio queste ultime che il nostro poeta utilizza nei passaggi più filosoficamente densi (in particolare per chiarire un nuovo concetto o termine), e non prestiti dal greco, calchi semantici, neologismi. Come afferma il Dalzell: “sembra, in sostanza, che Lucrezio né abbia preso in prestito parole greche per creare un vocabolario filosofico, né abbia fatto un consistente uso di formazioni latine basate sul greco”[23]. Da ciò (ma soprattutto dalla lettura del De rerum natura) si evince (e si nota) che i termini greci sono utilizzati per colmare alcune lacune del latino in specifici ambiti, come la medicina o il teatro, per motivi eufonici, o addirittura per creare un effetto esotico o ironico. A sostegno di questa tesi concorre anche il fatto che le nozioni maggiormente tecniche del linguaggio epicureo non trovano un corrispondente calco semantico o prestito in Lucrezio, bensì vengono trasposte in perifrasi poetiche (aggiungerei, se mi è lecito, di maggior effetto rispetto al puro tecnicismo filosofico).


Nelle sezioni strettamente filosofiche del suo lavoro, il nostro poeta assai di rado creò nuovi termini latini o prese in prestito lessemi dal greco. I neologismi che troviamo nel poema sono stati introdotti soprattutto per assecondare la struttura poetica, non per tradurre concetti della filosofia epicurea: di ciò avremo testimonianza nell’analisi del terzo capitolo del De rerum natura, l’apice ideale dell’intero poema, che, in ultima istanza, risulta essere “uno dei più sperimentali ed innovativi poemi in lingua latina”[24].


Il III libro del De rerum natura: animus ed anima nella concezione epicureo-lucreziana


Nell’economia del poema lucreziano, il terzo libro rappresenta assieme l’apice ideologico ed il punto più drammaticamente umano della trattazione. Ponendolo a confronto con i primi due, di carattere prettamente fisico, dal momento che trattano, rispettivamente, della natura degli atomi e della teoria del clinamen (la “deviazione” di traiettoria degli atomi, grazie alla quale è possibile la loro aggregazione ed in virtù della quale all’uomo è concesso il libero arbitrio), si potrà immediatamente notare come diverso sia l’andamento stilistico dell’argomentazione. Infatti, se il procedimento di esposizione delle dottrine epicuree e di confutazione di quelle avversarie, nei libri dedicati alla phisiologia, è chiaro, lineare, sereno, oserei dire scientifico, nel III libro esso si fa serrato, soffocante, tormentato, al punto che potrebbe sembrare quasi impoetico rispetto all’ampio ed arioso distendersi dei precedenti versi.


Sebbene il brusco cambiamento di toni appaia sorprendente, al punto che alcuni filologi in passato hanno ipotizzato una diversa collocazione del libro in questione, tuttavia esso ben si confà all’argomento trattato: la composizione atomica dell’animo umano, la sua necessaria mortalità e la conseguente confutazione dell’infondato timor mortis che da sempre attanaglia l’uomo e sempre lo stringerà nella sua morsa. Ora, al Lucrezio fedele discepolo di Epicuro e dei suoi ideali di aponìa, apatìa, atarassìa, si sostituisce un Lucrezio del tutto umano: la dimostrazione che l’animo, la substantia che rende l’uomo tale, è destinato a perire in quanto elemento di natura costituito di atomi che necessariamente si separeranno per formare altri composti, è dal poeta rivolta non solo al lettore, ma in primo luogo a sé stesso. Così, dai 1094 densissimi versi che costituiscono il III libro del poema trapela la costante tensione tra ciò che l’uomo più desidera, l’immortalità, e ciò che deve essere, l’eterno oblio del sé dopo la morte. Come nota il Barra[25], “di fronte al mistero dell’anima umana, il poeta rileva quanto c’è in essa di fragile, di contingente, di caduco […] Il suo cuore di poeta e la sua sofferenza di individuo lo portano a discendere ulteriormente da questi templi [scil. i templa serena del II libro del De rerum natura] per […] farsi partecipe della tragedia che involge i suoi simili”. Inoltre, la trattazione del libro in questione lascia trasparire tutta l’impazienza di raggiungere la meta finale che coglie il poeta sin dai primi versi e si fa fortissima nella seconda parte del libro, ossia quella concernente la dimostrazione della mortalità dell’animus e dell’anima.


All’anima umana Lucrezio già aveva fatto accenno nel proemio primo libro del suo poema. I versi di riferimento sono i seguenti:


ignoratur enim quae sit natura animai[26],

nata sit, an contra nascentibus insinuetur,

et simul intereat nobiscum morte dirempta,

an tenebris Orci visat vastasque lacunas,

an pecudes alias divinitus insinuet se…[27]


Nella parte centrale della trattazione della religio intesa come superstitio, che l’Epicuro-eroe riuscì ad abbattere come Eracle fece con le porte dell’Orco, Lucrezio pone il controverso problema sulla natura e provenienza di quella ineffabile sostanza che tutto il nostro essere pervade. A dissipare la fitta cortina d’ignoranza che impedisce all’uomo uno sguardo che penetri la profondità delle cose sarà ovviamente Epicuro: l’anima non è innata né tanto meno imperitura, bensì è formata dall’unione di atomi piccolissimi, lisci e sottili, i quali casualmente si sono aggregati e casualmente si dissolveranno, senza lasciare traccia alcuna del composto che furono né premonizione di quello che saranno.


Più il là, sempre nel proemio del primo libro, troviamo il primo accenno della distinzione tra animus ed anima, che sarà poi ampiamente e con impeccabile rigore argomentativo delineata nel III libro:


…tunc cum primis ratione sagaci

unde anima atque animi constet natura uidendum[28]


Così, già al principio del De rerum Natura, è chiaramente e con urgenza dichiarato quale sarà l’ideale punto di arrivo dell’intera trattazione: la puntuale definizione della natura delle due sostanze al fondamentale scopo, sebbene non sia ancora palesemente accennato, di dimostrare che infondata è la paura degli orrori che attendono l’uomo dopo la morte del solo corpo. È davvero mirabile inoltre, come si evince dai due estratti sopra riportati, che la specificazione terminologica si adatti alla sede in cui i lemmi vengono impiegati: con ciò intendo dire che, prima del III libro, il significato di animus ed anima resta ancora (apparentemente) quello ambiguo che caratterizzò tutta la precedente poesia latina arcaica, con la sola eccezione di Accio (sebbene anche questa resti in un alone di incertezza). Ritengo che non sia una scelta casuale, bensì dettata da precise motivazioni che vanno fatte risalire alla natura didascalica del poema: Lucrezio, da buon precettore, vuole porsi sullo stesso piano dei suoi discepoli, percorrendo assieme ad essi l’impervio cammino della conoscenza ed assieme ad essi conquistando poco alla volta le verità dis-velate da Epicuro.


In altre parole, Lucrezio è una sorta di Virgilio dantesco ante litteram, ma con una missione opposta: mostrare non i tormenti infernali e le paradisiache gioie, bensì la totale inesistenza dell’aldilà.

Questo è dunque l’argomento che, come un fiume sotterraneo, scorre latente per tutto il libro dedicato ad animus ed anima, divenendo poi risorgiva nei versi finali volti all’annichilimento del timor mortis. Tuttavia, ciò che preme specificare nell’attuale sede è cosa Lucrezio voglia significare col lemma animus e cosa, invece, con anima. A questo scopo, tutto il necessario è fornito dal testo stesso del De rerum natura che, come sopra accennato, si contraddistingue per la claritas argomentativa. In particolare, dopo il proemio, i versi 94-135 sono volti a dimostrare che l’animus e l’anima non sono incorporei, ma una parte del corpo, come una mano, un piede, un occhio. Inoltre, come un arto dolorante non influenza un arto sano, così spesso l’animo può essere colto da afflizione sebbene il corpo sia in salute e viceversa. Oltre a ciò, il poeta accenna ad una prima distinzione tra animus ed anima, ben visibile nei loci di seguito riportati:


a)

Primum animum dico, mentem quam saepe vocamus,

in quo consilium vitae regimenque locatum est,

esse hominis partem nilo minus ac manus et pes[29]

b)

nunc animam quoque ut in membris cognoscere possis

esse neque harmonia corpus sentire solere,

principio fit uti detracto corpore multo

saepe tamen nobis in membris vita moretur;

atque eadem rursum, cum corpora pauca caloris

diffugere forasque per os est editus aer,

deserit extemplo venas atque ossa relinquit[30]


Appare evidente come l’animus sia associato alla mens, in cui risiede il consilium, ossia la facoltà del discernimento, del raziocinio, mentre l’anima sia paragonata alla vita che pervade il corpo tutto e che viene esalata qual refolo d’aria nel momento in cui si spira. Sebbene i due termini sembrino serbare l’originario significato che ad essi fu conferito dai poeti sopra analizzati, si riscontra tuttavia la prima grande differenza con la tradizione a cui Lucrezio poteva attingere: animus ed anima non sono incorporei, bensì materiali. La seconda, ancor più rilevante, è collocata pochi versi dopo:


Nunc animum atque animam dico coniuncta teneri

inter se atque unam naturam conficere ex se,

sed caput esse quasi et dominari in corpore toto

[…]

Idque situm media regione in pectoris haeret.

[…]

Cetera pars animae per totum dissita corpus

paret et ad numen mentis momenque movetur.

Idque sibi solum per se sapit, <id> sibi gaudet,

cum neque res animam neque corpus commovet una[31].


Animus ed anima non sono dunque due sostanze distinte, ma “strettamente legate tra loro e costituenti una sola natura[32]”. Esse si distinguono principalmente per l’ubicazione: l’animus ha sede nel petto[33], l’anima è presente in tutto il corpo. Date le funzioni attribuite alle due componenti della medesima natura, ossia il pensiero e la forza vivificatrice, si potrebbe cadere nell’errore di intendere animus come traduzione latina del termine greco νοῦς ed anima di ψυχή. Bisogna infatti tener conto di quanto il filosofo e dossografo Aezio dice riguardo ad un passo della Lettera ad Erodoto di Epicuro[34], a dimostrazione che l’opposizione animus-anima corrisponde in greco a quella τὸ λογικὸν-τὸ ἄλογον, due aggettivi sostantivati. Pertanto, la distinzione non sarebbe tra facoltà di pensiero e facoltà di sensazione, ma tra il razionale e l’irrazionale.


Così l’animus, che sino a questo momento era stato ora sede del sentimento e delle emozioni, ora organo predisposto al pensiero ed alla volontà, ora sinonimo di indole caratteriale, assume, grazie alla sistematizzazione lucreziana, un significato tanto vasto da abbracciare tutte queste proprietà e, addirittura, da renderlo superiore rispetto all’anima (proprio come τὸ λογικὸν è superiore a τὸ ἄλογον). Inoltre, da quanto si evince leggendo l’ultima coppia di versi sopra riportati, l’animus opera in modo del tutto indipendente dall’anima e dal corpus[35].


Come fa notare il Pizzani[36], ad una prima lettura comparata degli scritti di Epicuro e del De rerum natura, maestro e discepolo sembrerebbero operare scelte lessicali diverse: il primo farebbe riferimento, coi due neutri sostantivati, a due facoltà di un solo organo, il secondo invece, coi due sostantivi distinti per genere, a due diverse sostanze. Tuttavia, così non è: Epicuro impiegava un solo termine per indicare il concetto di anima, ovvero ψυχή. Questa si compone poi di due parti, l’una razionale-emotiva e l’altra irrazionale-istintiva. In Lucrezio accade la medesima cosa: l’animus-mens è un aspetto dell’anima in senso lato, la quale è, per così dire, completata dalla “cetera pars animai[37]”, ossia l’anima irrazionale impiegata in senso distintivo rispetto all’animus.


Dopo aver ribadito la corporeità dell’animus, Lucrezio descrive la materia di cui tale sostanza è formata: corpuscoli piccolissimi, oltremodo sottili, che si muovono velocissimi alla stregua della rapidità con cui l’intelletto pensa. Tali corpora o semina (termini con cui il poeta trasla il greco ἄτομα) sono per di più leggerissimi: lo si comprende dal fatto che il corpo di un uomo morto non subisce alcun mutamento né nell’aspetto, né nel peso[38]. La materia che forma l’animo, inoltre, è costituita di tre elementi, vento, calore ed aria (dal momento che “vapor porro trahit aera secum[39]”), ai quali si aggiunge una quarta natura che non ha nome, ma è costituita da particelle più mobili, sottili, levigate e piccole delle altre ed è predisposta alla diffusione dei moti sensitivi nelle membra[40].


A questo punto, il poeta sente l’urgenza di definire con esattezza quale sia il rapporto tra anima e corpus. L’ampia sezione, che consta di quasi un centinaio di versi (versi 323-416), pone la nozione fondamentale sin dal principio:


Haec igitur natura tenetur corporea b omni

ipsaque corporis est custos et causa salutis;

nam communibus inter se radicibus haerent

nec sine pernicie divelli posse videntur[41].


L’anima-organo sensoriale è contenuta nel corpo ed è causa e custode della sua salute; inoltre, è ad esso strettamente legata, dal momento che le particelle corporee e quelle “spirituali” sono tra di loro intrecciate sin dal principio della vita. La trattazione prosegue con la dimostrazione che né il corpo né tanto meno l’anima possono sussistere di per sé, indipendentemente l’uno dall’altra, e con la confutazione della teoria, attribuita a Democrito, per cui nell’essere vivente si alternerebbero atomi corporei e spirituali in modo alquanto semplicistico. In tutto ciò, qual è il ruolo dell’animus? Nei versi 396 e seguenti, Lucrezio afferma che l’anima non sussiste senza l’animus, dal momento che c’è vita finché questo è intatto. Così l’anima “si riduce alla diffusione in tutto il corpo degli atomi psichici, diffusione grazie alla quale può irradiarsi ovunque l’azione centrale dell’animus. E scorgiamo qui la conferma dell’importanza decisiva che ha la localizzazione nella distinzione delle componenti[42]”.


Rispetto alla differenziazione tra animus ed anima, che si verifica unicamente sul piano delle funzioni, a Lucrezio sembra premere di più addurre prove della loro corporeità e, di conseguenza, mortalità. Queste ultime sono ben ventuno e si dilatano dal verso 417 al verso 829, occupando la sezione di gran lunga più consistente del III libro. Tutte le prove, dato lo scopo principale del De rerum natura, ossia quello di veicolare in ambiente romano la fisica epicurea, si rifanno a fenomeni naturali[43]. Nell’economia della presente trattazione, fondamentali risultano i versi d’esordio della sezione:


Tu fac utrumque uno sub iungas nomine eorum,

atque animam verbi causa cum dicere pergam,

mortalem esse docens, animum quoque dicere credas,

quatenus est unus inter se coniuntaque res est[44].


Da questo momento, poiché entrambi corporei e mortali, animus ed anima saranno indifferentemente riuniti sotto il generico anima: il poeta semplifica il lessico per meglio fissare quello che è per lui, così come lo fu per il maestro, il fine supremo della filosofia: eliminare nell’uomo ogni timore foriero di turbamento, in primis quello della Acherusia vita[45] che, dopo la morte, attende l’uomo coi suoi tormenti.


Nel riunire le due parti spirituali presenti nell’uomo, l’una, razionale, predisposta al pensiero ed all’emotività, l’altra, irrazionale, predisposta alla sensazione, sotto il nome comune di anima, Lucrezio ha conferito al termine il significato molteplice e vastissimo che ancor oggi è presente nel nostro lessico. Senza trascurare il fatto che, tanto nella lingua parlata quanto in quella letteraria, l’impiego di “animo” ed “anima” appare essere semanticamente identico. Tuttavia, l’idea ossimorica della corporeità della parte spirituale dell’uomo non fu ben accetta già ai tempi di Lucrezio e sempre meno lo divenne con l’avvento del cristianesimo, dal momento che esso, se privato della sua componente ultraterrena, non avrebbe più potuto sussistere.


In sintesi dunque, se per quanto riguarda le funzioni dell’anima si è mantenuta la concezione lucreziana, per quanto invece concerne la sua natura l’idea della materialità è stata occultata da quella dell’incorporeità, forse anche per assecondare l’inestinguibile sete d’eterno insita nell’uomo.


Cristiana Lucidi


[1] A8, 324b 35sgg. (=Diels-Kranz, 67 A7).


[2] Cfr. Reale 1987, p. 172.


[3] Cfr. Reale 1987, p. 175.


[4] Cfr. Reale 1987, p. 177.


[5] Cfr. Reale 1987, p. 181.


[6] Epic. ad Herod., 38.


[7] Epic. ad Herod , 39.


[8] Cic. fin., 1, 19.


[9] Cfr. Reale 1989, p. 208.


[10] Cic. fat. 22 sg.


[11] Lucr. I, vv. 943-947.


[12] Boyancé 1985, pag. 69.


[13] Boyancé 1985, pag. 79.


[14] Sebbene tale idea sia affine a quella espressa dal Giancotti, non oserei arguire che l’ostilità di Epicuro fosse rivolta unicamente alla poesia mitologica, dal momento che la scarsità delle fonti al riguardo non permette di propendere in toto per le controverse asserzioni dello studioso.


[15] Dalzell 1986, pag. 38. Tutte le citazioni del Dalzell qui riportate sono state da me tradotte.


[16] Arist. rhet. 3.5.4 (= 1407 a).


[17] Piazzi 2005, pag. 38.


[18] Dalzell 1986, pag. 43.


[19] Lucr. I, vv. 936-937.


[20] Dalzell 1986, pag. 72.


[21] Cic. or., 3.152.


[22] Dalzell 1986, pag. 81.


[23] Dalzell 1986, pag. 87.


[24] Dalzell 1986, pag. 88.


[25] Barra 1953, pagg. 109-110.


[26] Da animai, genitivo singolare del sostantivo femminile di prima declinazione anima. L’utilizzo dell’originaria terminazione in –i, che nel I secolo a.C. era già divenuta un arcaismo, è funzionale a conferire maggior rilevanza al termine nell’economia del discorso, adornandolo di un’aura di sacra solennità.


[27] Lucr. I, vv. 112-116.


[28] Lucr. I, vv. 130-131.


[29] Lucr. III, vv. 94-96.


[30] Lucr III, vv. 117-123.


[31] Lucr. III, vv. 136-146.


[32] Traduzione da me effettuata.


[33] A questo proposito, cfr. Cic. Tusc. 1,9,19 alii in corde, alii in cerebro dixerunt animi esse sedem et locum.


[34] Cfr. Aet. IV,4,6, 390 D e Epicur. Epist. ad Herod. 66.


[35] Più oltre, ai versi 152-160, è affermata l’influenza delle affezioni dell’animus su anima e corpus, con una descrizione sintomatologica del terror animi che trovo analoga a quella operata dalla poetessa di Lesbo, Saffo, nella sua celeberrima sintomatologia dell’amore (fr. 31 Voigt) poi traslitterata in latino dal poeta novus Catullo.


[36] Pizzani 1979, p. 245.


[37] Cfr. Lucr. III, v. 150. Ritengo, a questo punto, che l’impiego della desinenza arcaica per il genitivo singolare del lemma anima sia funzionale a distinguere l’anima in senso lato dall’anima in senso stretto.


[38] Cfr. Lucr. III, vv. 208-215.


[39] Cfr. Lucr. III, v. 233.


[40] Cfr. Lucr. III, vv. 241-245.


[41] Lucr. III, vv. 323-326.


[42] Boyancé 1985, pag. 173.


[43] Per questa sezione, cfr. Bailey 1921, pp. 1061-1131.


[44] Lucr. III, vv. 421.424.


[45] Cfr. Lucr. III, v. 1023.

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