Andrej Zvyagintsev - Leviathan: una carcassa con poca carne - di Andrea Peverelli
“Stiamo risvegliando l’anima del popolo russo.”
(Ma la mia ancora dorme)
Quarta fatica per il regista russo Andrej Zvyagintsev. Un autore controverso, già solo per quattro opere, in cui ha mostrato un’abilità camaleontica di regia ai limiti dell’incoerenza: se infatti echi di poikilìa callimachea (varietà e maestria nella commistione di generi) sono qualità quasi sempre apprezzate in un artista, poiché permettono il costante rinnovarsi della sua arte, quando questa è annacquata da riprese troppo evidenti e letterali di modelli, e condita da indigeribili inversioni di tendenza, tanto da rendere irriconoscibile l’autore stesso, la qualità si tramuta in debolezza.
Pochi fili rossi collegano infatti le due distinte coppie di film (Ritorno / Esilio e Elena / Leviathan). Le prime due pellicole sono dominate da un malcelato epigonismo tarkovskijano - Zvyagintsev condivide lo stesso nome del Maestro Andrej Tarkovskij: era destino, evidentemente -: in Ritorno la sottotrama cristologica dà spazio ad una narrazione esile ma dominata da simboli e da riprese più o meno testuali del modello (l’interpretazione messianica del protagonista, il ruolo dell’acqua e della pioggia, l’insegnamento spirituale attraverso un concento di prove, il sacrificio, e persino la tecnica registica, con ritmi lentissimi, quasi biblici, riprese infinite in piano sequenza di landscapes della verde Russia o di superfici acquatiche - in ripresa fin troppo paraculistica del già apprezzatissimo concetto tarkovskijano di “scolpire nel tempo” un’immagine -); un film, in ultima analisi, interessante quanto affascinante, per le differenze ideologiche col Maestro, ma latamente condannato al patibolo della scriteriata infatuazione per il modello. In Esilio le istanze tarkovskijane si sfilacciano miseramente verso una completa autoreferenzialità, che esaurisce l’inveterato l’allegorismo messianico all’interno della stessa narrazione - esile ai limiti dello scialbo -, senza avere un reale e necessario senso interno, e parimenti senza uscire dalla pellicola per farsi universale; il modello del Maestro inizia a mostrare il fianco, ad esaurire la propria potenza creativa e rigenerativa nelle mani di un evidentemente inadatto successore. Andrej junior se ne rende conto (alla buon’ora), sa di non poter permettersi di angolare lo stesso concetto in maniera sempre nuova, senza mai annoiare, per 6-7 film, come il Maestro; perciò decide di mutare completamente, di fare un falò delle proprie velleità e di cercarsi un’altra via: il risultato è Elena. Una storia radicalmente diversa dalle precedenti, che assomma nuclei tematici come la critca al denaro, l’attacco alla corrotta società russa, monolitica e non così lontana dall’antica oligarchia sovietica, e il focus sugli “ultimi e migliori” scagliati contro il muro dell’alta società (esatto, il solito polpettone socialisteggiante riproposto da 60 anni a questa parte), a un’ambientazione che sta al limite opposto delle tarkovskijane riprese di paesaggi naturali, uno sfondo urbano, sempre diviso tra il degradato degli Ultimi e il raffinato ed artefatto dei Primi. Istanze - per quanto innovative come la milleunesima riscrittura latina della guerra di Troia - interessanti, sulla carta: peccato che il film sia un totale e desolante blackout cerebrale, con una trama ridicola e costretta a trascinarsi per quasi due ore in un imbarazzo registico che sembra urlare “fermatemi, vi prego” da ogni poro (i 20 minuti iniziali che riprendono la protagonista mentre si alza dal letto, fa colazione, prende il treno, va a far la spesa e arriva a casa del figlio sono eloquenti: l’inutilità e la noia fatta a cinema). La quarta fatica - trattasi davvero di fatica: Zv. stesso ha affermato di impiegarci mesi a organizzare ogni singola scena; per girare Esilio ci sono voluti 4 anni - sembra però risvegliarsi, pur con occhi impastati e con sguardo da epica post-sbronza a base di vodka, da questo letargo cinematografico.
Il film infatti assomma molti degli elementi sperimentati in passato, rimanendo comunque più vicino alle sperimentazioni di Elena. La vicenda, come sempre, è molto semplice: un uomo di umili origini e occupazione, Nikolai, ha la sfortuna di abitare in una striscia di costa presa di mira dal sindaco Vadim per oscuri progetti (si suppone una casa riabilitativa, viste le quantità invereconde di vodka che entrambi i personaggi assumono quotidianamente); dopo alcune vicende private di cui potevamo fare benissimo a meno - la moglie di Nikolai acquista dal suo avvocato e amico d’infanzia un intero palco di corna, il regalo non viene gradito, così la moglie si suicida; l’amico-avvocato scompare misteriosamente nel nulla con un occhio nero e due costole rotte -, si giunge una conclusione, del tutto inaspettata: il sindaco Vadim sfrutta il suicidio della moglie e la giustizia corrotta per imprigionare Nikolai e rilevare la sua proprietà, cosicché possa costruirvi ciò che vuole. Lo stato monolitico e marcio nel midollo vince sul singolo: ecco il senso del titolo.
Leviathan può essere visto come un tirare le somme dei lati positivi e negativi che Zv. ha sperimentato nei precedenti film. Tornano infatti, oltre alla base di critica sociale già di Elena, le istanze e immagini tarkovskjiane: l’acqua, i riferimenti biblici (su cui ci soffermeremo dopo), le solite esasperanti movenze da inverno russo nella narrazione (la maggior parte degli eventi importanti ai fini della trama accade nell’ultima mezz’ora di film, mentre il resto è mal gestito e organizzato in maniera poco coerente - ma almeno non siamo ai livelli di Elena, dove tre quarti delle scene si distinguono per singolare inutilità), che danno un fastidiosissimo quanto costante senso di suspence, come se dovesse accadere qualcosa di incredibile da un momento all’altro e che puntualmente non accade; ma soprattutto ritornano le solite, untuosissime riprese di paesaggi unite al martellante ricorso all’acqua, che in Ritorno costituivano gran parte della regia. Riprese innegabilmente affascinanti, che rendono parte di quel sense of wonder che permeava i film di Tarkovskij, così come elemento fondamentale dell’interesse che questo e altri film di Zv. suscitano nello spettatore; ma proprio per questo colossali leccate delle natiche comodamente sedute sulle poltrone dei cinema: squadra che vince non si cambia (e se aveste dubbi sull’effettiva efficacia di questo tipo di regia, considerate che l’unico film che ne è completamente privo, Elena, è quello che ha avuto meno successo tra il pubblico).
Anche la meta-semantica religiosa e l’allegorismo di Leviathan non funzionano a dovere. Il film è definito come una rilettura moderna della vicenda biblica di Giobbe, l’uomo di fede che trova in Dio la propria forza e allo stesso tempo lo mette sotto accusa per il proprio dolore inspiegabile: entrambe le narrazioni condividono l’epifania di un potere sovrumano (Dio e lo Stato) che persegue ragioni sconosciute e schiaccia sotto il peso della propria onnipotenza l’uomo che vi si oppone. Ma le somiglianze finiscono qui. Dice lo stesso Zv: “volevo raccontare la storia di un uomo che perde tutto ciò che ha; uno per uno, poco a poco, fino al punto di perdere la propria vita”. L’intera, profonda e drammaticissima, vicenda di Giobbe viene decurtata, viene impoverita a tal punto da far apparire unicamente lo scheletro iniziale da cui prende origine la vicenda, nudo e crudo, privato delle riflessioni universali sui temi del dolore, del rapporto uomo-Dio, del senso del creato e della vita. Allora perché usare Giobbe nel proprio film, se di esso vi rimane soltanto il mero fatto biografico senza il nucleo magmatico del racconto biblico, a ben vedere la parte che conta davvero di esso? Più coerente sembra a questo punto il riferimento al Leviatano di Hobbes, e più adatto a sostenere il soggetto: i pochi riferimenti a Giobbe risultano così del tutto superflui, oziosi, usati unicamente per aggiungere un pizzico di mistero e appeal in più per lo spettatore. La furbizia di quella volpe di Zv. non ha fine.
Ma l’aspetto più negativo di questo film è un problema non da poco, visto che si tratta proprio del soggetto scelto e dell’ambiente in cui si inserisce. Quante storie di ingiustizia sociale, corruzione statale, burocrazia monolitica che schiaccia l’individuo per fini di lucro e potere ci hanno raccontato? Quante vicende di un singolo uomo cui viene tolto tutto ciò che ha di caro e che cerca di ribellarsi a un sistema oppressivo abbiamo letto in libri e visto in pellicole? Risposta: troppi. Già cliché abusatissimo del cinemaccio americano d’intrattenimento (uno su tutti: Law abiding Citizen, thriller del 2009), rivisitato poi nel cinema di genere (ad esempio i drammi fantascientifici distopici; uno su tutti: Equilibrium, del 2002), era già un tema caro al ‘900 letterario (ad esempio Kafka, Il processo; in tempi più recenti un romanzo dal nome Leviathan, di Paul Auster). Il che, di per sé, non sarebbe un problema: i temi ricorrono spesso, le riscritture hanno dato prova di grande vitalità. A segare le gambe di Leviathan sul nascere interviene però l’ambientazione: un film con pretese tanto universali (il minestrone Giobbe-Hobbes) crolla silenziosamente quando ogni tanto si sveglia e gli viene in mente di ricordarci che è ambientato in Russia. Perché sicuramente ad un abitante medio del grande stato eurasiatico vedere una scena di patteggiamento mafioso con la foto di Putin sullo sfondo deve avere un bell’effetto, ma non sull’italiota, che deve affidarsi alla solita trita morale del “ma questa vicenda può accadere dovunque, è universale”: la verità è che lo spettatore non russo perde moltissimo dell’immedesimazione con questo film, marcatamente russo nonostante la volontà, da parte del regista, di non mostrare troppi dettagli a riguardo. Sarebbe come fare vedere a un abitante di Mosca uno delle decine di sceneggiati Rai sulla storia politica italiana del ‘900: con la differenza che almeno, in questo caso, si avrebbe un ipotetico interesse storico, mentre a Leviathan, storia sospesa in un limbo temporale indefinibile, manca anche quello.
Cosa rimane allora a questo film? Poco più di una storia ordinaria (se tagliamo a quell’unica mezz’ora veramente importante), una regia sbocconcellata qua e là da un grande del cinema russo e condita da un generico pastone socialisteggiante, un’opera dai pochi e sproporzionati elementi costitutivi (e la buona riuscita artistica di un film si misura nell’equilibrio tra di essi, tra realtà e finzione), una delle peggiori riletture di Giobbe e di Hobbes nella storia dell’arte, e un aberrante senso di vuoto, dopo la visione: non un vuoto artisticamente indotto, ma un’insoddisfazione quasi culinaria, come dopo aver mangiato un piatto misero e poco condito. L’enormità dell’intera Russia grava gelidamente sulle spalle del povero Andrej junior e dello spettatore: il risultato è una gran cervicalgia e una scoliosi cinematografica imbarazzante.
Andrea Peverelli