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Il sonetto: i quattordici infiniti versi - di Marco di Prospero

Nella continua e minuziosa ricerca di tipo linguistico e formale, da sempre caratterizzante l'immensa arte che è la poesia, innumerevoli sono state le variazioni, i cambiamenti, le evoluzioni e (se vogliamo) anche le retrocessioni. Nel panorama letterario italiano, tuttavia, uno dei pochi “fari”, una delle rarissime costanti s'associa al nome del sonetto. Questa forma poetica, canonicamente composta da quattordici versi endecasillabi, ha visto nascere la nostra letteratura, restando nel suo bagaglio fino alle soglie della contemporaneità e meritandosi per certo la carducciana definizione di “breve e amplissimo carme”.


Sonetto: etimologia del termine


Il termine sonetto è direttamente mutato dal provenzale sonèt (diminutivo di son), col significato intuibile di “piccolo suono, melodia”. Il binomio poesia-musica è antico e ben noto: si pensi ad esempio al latino carmen, o anche alla stessa canzone. Il diminutivo è probabilmente dovuto alla relativa brevità del tipo di componimenti, che consta di soli quattordici versi. La forma “sonetto”, inoltre, è attestata sin dalle origini (propuosi di fare uno sonetto , in Vita Nova, III, 12).


Le origini


L'inventore del sonetto è ormai universalmente identificato in Giacomo (o Jacopo) da Lentini (ca. 1210-1260), che svolgeva la funzione di notaio (Dante lo saluterà come “Notaro”) per Fedrico II di Svevia, alla corte del quale si sviluppò la prima scuola poetica in territorio nazionale, definita appunto siciliana. Si dibatte ancora su come si sia effettivamente avuto il sonetto: c'è chi ritiene che sia stato mutato direttamente dalla stanza di una canzone, mentre l'ipotesi più logica lo vedrebbe nato dalla fusione di due strambotti, composizioni di tono popolare di otto o sei versi: la sovrapposizione di due strambotti, uno più lungo e l'altro più corto, avrebbe generato il sonetto. Recentemente, è stata formulata anche un'altra teoria, molto suggestiva, che chiama in causa gli innumerevoli studi di matematica svolti, dietro contatto con la cultura araba, dagli eruditi alla corte di Federico II. I matematici, a quel tempo, tentavano di risolvere la tanto ardua quanto celebre quadratura del cerchio (nominata nel Paradiso anche da Dante e riconosciuta come impossibile solo nell'Ottocento). Per comprendere maggiormente il dilemma, studiarono approfonditamente la costante Π e diversi rapporti tra circonferenza, cerchio e quadrato. Da diversi calcoli emerge una perfetta corrispondenza tra i numeri 14 e 11 (rispettivamente il numero di versi del sonetto e l'ammontare di sillabe metriche in un endecasillabo). Anche il numero 7 ottiene grande attenzione, ed in effetti nei primi codici i sonetti venivano scritti, per risparmiare sul preziosissimo materiale scrittorio, in due colonne di distici, per un totale di sette versi a destra ed a sinistra. È possibile, dunque, che questo ideale di perfezione anche religiosa (4+3 = 7, l'unione tra Cielo e Terra, nonché un riferimento a quartina e terzina) abbia ispirato la nascita del sonetto, e, forse, determinato una sua prima fortuna.


La morfologia del sonetto


Il sonetto, come s'accennava, è una forma metrica che consta di quattordici versi, disposti in due quartine (riunite sotto il nome di fronte, si noti la stessa terminologia della canzone) e due terzine (sirma o sirima). Il verso utilizzato sin dalle origini ed in prevalenza è il superbissimum carmen di Dante, l'endecasillabo. Col passare dei secoli, soprattutto a partire dal Settecento, si incominciò a comporre sonetti con versi più brevi (su modello degli agili versi del greco Anacreonte): in questo caso si parla di sonetto anacreontico (generalmente in ottonari), minore (in settenari) o minimo (rarissimo, fatto di quinari). Inizialmente sia le quartine (generalmente di gusto descrittivo) sia le terzine (dove veniva presentata la svolta che conduceva al flumen) erano autoconclusive; col tempo, si sono anche avuti sonetti con enjambements tra quartine e terzine (si veda A Zacinto, del Foscolo).

Le rime nelle quartine (che tradizionalmente sono sempre uguali nello schema e nella desinenza) sono piuttosto lineari. Lo schema originario prevedeva la rima alternata (ABAB ABAB). Gli Stilnovisti introdussero quella incrociata (ABBA ABBA) che Petrarca, considerato il primo codificatore delle nostre forme metriche, utilizzò quasi esclusivamente. Le rime alternate non furono però mai del tutto tralasciate, e furono tranquillamente riprese dal XVIII secolo in poi,

Le due terzine presentano invece maggiore libertà di rima: la “regola” generale vuole che almeno un verso della prima terzina rimi con un altro della seconda. Un primo archetipo è quello che vede la terzina iniziale formata da tre versi che non rimano tra loro, salvo poi venire ripresi in quella successiva (schema CDE CDE, rima cosiddetta ripetuta). Una variante si ha invertendo l'ordine: CDE EDC, rima speculare o simmetrica o anche CDE DEC, schema caro al Petrarca. Un secondo archetipo, maggiormente musicale, vede ripetersi più rime: si parlerà quindi di rima alternata (CDC DCD), di una variante di rima ripetuta (CDC CDC), o di rima centrale (CDC EDE). In alcuni casi, le desinenze-rima di un sonetto sono le stesse per la fronte e per la sirma: si parla allora di sonetto continuo. Non mancano, poi, schemi più rari e ricercati, riscontrabili già nel Canzoniere.


Le principali varianti


Agli albori della nostra letteratura, la grande energia dei primi poeti ha portato molta sperimentazione, che ha interessato anche il sonetto. A differenza però della canzone, fortemente evolutasi, o della ballata o del madrigale, le varianti del sonetto hanno avuto praticamente scarso successo, nonché vita solitamente limitata al secolo che le ha viste nascere.

Si è già parlato di sonetto anacreontico, minore o minimo relativamente all'utilizzo di versi più brevi dell'endecasillabo. Varianti minori includono il sonetto raddoppiato (quatto quartine e quattro terzine, schema-tipo ABAB ABAB ABAB ABAB CDC DCD CDC DCD, ne abbiamo un solo esempio), o l'aggiunta di un distico AB dopo la fronte (portata quindi a dieci versi) ed altri tentativi, solitamente unici e non considerati da altri.

Varianti più celebri sono:


  • Sonetto rinterzato: vede, dietro modello della canzone, l'inserimento di versi settenari a rinterzare (“rafforzare”) il componimento. I settenari sono inseriti dopo i versi dispari delle quartine, con la loro stessa rima (schema-tipo AaBABbA || AaBABbA) e dopo primo e secondo verso delle terzine, sempre in stessa rima (schema-tipo CcDdC || DdCcD). Questa variante si suppone essere nata dalla sperimentazione del poeta siculo-toscano Guittone d'Arezzo.

  • Sonetto doppio: molto simile al rinterzato e spesso confuso con questo, contempla sempre l'utilizzo di settenari. Nelle quartine, la disposizione dei settenari è identica a quella del rinterzato: la differenza sta nelle terzine, dove i settenari si inseriscono soltanto dopo il secondo verso. Il secondo sonetto della Vita Nova dantesca, O voi che per la via, è un sonetto doppio, a schema AaBAaB | AaBAaB || CDdC | CddC.

  • Sonetto ritornellato: rarissimo, ce ne dà esempio Cavalcanti. Vede l'aggiunta di un endecasillabo dopo la seconda terzina che riprenda l'ultima rima di questa (schema-tipo ABBA ABBA CDC DCD D) o, più comunemente, l'aggiunta finale di un distico di endecasillabi a rima baciata diversa da tutte le altre (schema-tipo ABBA ABBA CDC DCD EE).

  • Sonetto caudato: letteralmente un sonetto con la coda (da cauda, -ae). La coda è posta dopo la seconda terzina ed è formata da un settenario in rima con l'ultimo verso della terzina e due endecasillabi a rima baciata, diversa dalle altre (schema-tipo ABBA ABBA CDC DCD dEE). Può esserci anche più di una coda: in questo caso il settenario all'inizio riprende sempre la rima baciata della coda precedente (dEE eFF fGG etc...) e si parla di sonettessa. Il sonetto caudato è indubbiamente la variante più fortunata del sonetto stesso: si è quasi sicuramente evoluta dal ritornellato ed è stata molto apprezzata nella fiorente tradizione comico-realistica (si vedano gli esempi del Berni o i piccanti sonetti caudati dell'Aretino). Da segnalare, inoltre, il Sonettin col covon (Sonettino con la codona), del poeta dialettale milanese Carlo Porta. Si parla, infatti, di un sonetto caudato con innumerevoli code: ben 177 versi, oltre ai quattordici standard.

Si può menzionare anche il sonetto acrostico (dove la prima lettera di ciascun verso forma un nome od una frase, come negli Amores del Boiardo), particolari sonetti con le rime tutte tronche o sdrucciole, nonché le collane o ghirlande di sonetti, cioè componimenti diversi ma incentrati su uno stesso tema (i Sonetti dei mesi di Folgore da San Gimignano o il carducciano Ça Ira, ad esempio).


Le tematiche e gli autori nei secoli in Italia


Il sonetto è nato in ambiente lirico, ed alla lirica è stato consacrato prima dagli Stilnovisti e poi dal Petrarca. Dante pose il sonetto sul podio delle forme metriche nel suo De vulgari eloquentia, al terzo posto dopo la canzone e la ballata. È difficile trovare un canzoniere due-trecentesco che non includa sonetti. Molti venivano anche scritti come corrispondenza ad altri poeti: è il caso per esempio di Amor è uno desio che ven da core (di Giacomo da Lentini) o del primo sonetto della Vita Nova, A ciascun alma presa e gentil core. A questi componimenti faceva d'uopo rispondere “per le rime”: componendo cioè, nel caso del sonetto, un ulteriore sonetto che avesse identico schema rimico e stesse desinenze delle rime (si veda la risposta di Cavalcanti a Dante, Vedeste, a mio parere, onne valore).

I Rerum vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca sono, come si è detto, un grande “tempio” di questa forma metrica: delle 365 liriche, ben 317 componimenti sono sonetti.

Con lo sviluppo dell'Umanesimo, si sono messe a punto o riscoperte anche altre forme metriche (gli strambotti o le ballate, ad esempio), ma il sonetto ha sempre avuto un ruolo di prim'ordine (innumerevoli ne scrisse Lorenzo il Magnifico), venendo accettato ed impiegato anche dalla tradizione goliardica.

Canzone e sonetto erano le due forme ormai del tutto sacre alla lirica per i poeti petrarchisti del Cinquecento, mentre Berni e Pietro Aretino “consacravano” i quattordici versi al genere comico e parodistico e Matteo Maria Boiardo ne scriveva per i suoi Amores libri tres.

Tanti sono i sonetti dei Manieristi, e va segnalata la sperimentazione di Lodovico Leporeo, che ne compose con arguti esempi di rimalmezzo.

Nel Settecento, impossibile non menzionare i sonetti dell'Alfieri (che amava la possibilità di concentrazione di un'idea offerta dalla forma metrica) e le dodici composizioni di Ugo Foscolo, nonché le produzioni della neonata Arcadia.

Sorprendentemente, nel nostro Romanticismo il sonetto viene utilizzato abbastanza poco: vista la stretta connessione tra i Romantici ed il Risorgimento, Alessandro Manzoni (che scrisse soprattutto in gioventù alcuni sonetti) preferì composizioni più solenni (le due celebri Odi e gli Inni, nonché i lavori teatrali). Giacomo Leopardi, abilissimo nella versificazione tanto da comporre a dodici anni il suo primo sonetto, preferì invece donare i suoi versi ad una forma metrica più libera, la canzone detta appunto leopardiana.

È però l'Ottocento che vede il sonetto come la più fortunata forma metrica italiana: Carducci ne scrisse centinaia sin dalla gioventù, (e saluterà il sonetto proprio come breve ed amplissimo carme), Giusti ne farà sia di petrarcheschi che di goliardici, diversi sono quelli di Praga e Camerana, alle volte irriverenti quelli editi sotto vari pseudonimi da Guerrini. Le Myricae pascoliane ne annoverano diversi, sebbene il poeta di San Mauro preferisca sperimentare. Il caposcuola dei Crepuscolari torinesi, Guido Gozzano, ha lasciato moltissimi sonetti, sia nelle sue due raccolte La via del rifugio e I colloqui, sia nelle Poesie sparse. Anche il romano Sergio Corazzini, nella sua breve esistenza, ha composto alcuni sonetti, sia in lingua che in dialetto romanesco: molto famoso è quello di settenari Il mio cuore.

Anche l'aspetto dialettale, per l'appunto, è degno d'essere considerato: a partire dall'Ottocento soprattutto si svilupparono poeti vernacolari che scrissero soprattutto, se non esclusivamente, sonetti: è il caso di Giuseppe Gioacchino Belli, i cui 2279 Sonetti romaneschi costituiscono uno spaccato realisticissimo sui romani (anzi, sui romaneschi) del tempo, nonché, vista l'enormità dei componimenti, la raccolta poetica più grande del nostro Ottocento. Sempre a Roma, a cavallo tra i due secoli, abbiamo anche Pascarella ed il primo Trilussa. A Milano opera poi il già citato Carlo Porta.

Recentemente, la forma del sonetto è stata spesso ripresa anche dai poeti fautori del “verso libero”: il Canzoniere di Umbero Saba è probabilmente la raccolta che ne contiene il maggior numero, molti dei quali autobiografici.


Il sonetto nel mondo


Oltre alla grandissima fortuna di cui il sonetto ha goduto e gode in Italia, il nostro primato e la nostra influenza nel campo della poesia ha fatto sì che anche in altri paesi si diffondesse il sonetto.

Esempio lampante è l'Inghilterra, dove venne introdotto grazie all'influenza del Petrarca e subito adottato, notoriamente, da Shakespeare che arrangiò diversamente i quattordici versi in tre quartine ed un distico finale, creando il cosiddetto sonetto elisabettiano o shakesperiano. Il verso utilizzato e il pentametro giambico, una sorta di endecasillabo a maiore italiano Il sonetto, tanto nello schema di Shakespeare tanto in quello originario (detto Petrarchan sonnet o anche Italian sonnet) ha avuto alti e bassi e buona fama (in Milton, ad esempio), sebbene non paragonabile a quella in territorio nazionale. La ragione alla base di questo sta nella difficoltà di intessere soprattutto le rime dello schema petrarchesco: viene visto come una pratica difficile, innaturale ed anche dissonante per le sonorità della lingua inglese. Alcuni poeti, come Lord Byron, disprezzavano poi il sonetto semplicemente per la sua influenza, vista come sdolcinata ed abusata.

Sempre nel Cinquecento, il sonetto approdò anche in Francia. Qui il verso utilizzato è quello principe della metrica d'Oltralpe, l'alessandrino (da non confondersi col nostro verso martelliano o doppio settenario). Impossibile non menzionare i sonetti dei poeti “maledetti” quali Baudelaire e Verlaine, sonetti definiti appunto francesi, con le solite due quartine e due terzine ma con desinenze-rima diverse tra le due quartine (questo schema è stato utilizzato, di recente, anche dagli italiani che vedevano troppo “opprimente” lo schema d'origine).

In Spagna, il sonetto fu introdotto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, assieme al “modo italiano”, cioè alla nostra metrica. Vari autori ne composero, ma non godette di buona fama: sempre per ragioni di carattere linguistico e fonico, la lingua spagnola vede come artificiosissimi il nostro endecasillabo o anche il settenario, mentre ha grande considerazione dei parisillabi e della poesia di tono popolaresco. In Portogallo, la situazione è simile: l'ottonario portoghese, ad esempio, è considerato un verso tragico. Impossibile non citare però i sonetti in lingua spagnola del sudamericano Pablo Neruda.

In Germania, il sonetto è stato introdotto sempre dalle influenze italiane, ma ,per motivi riconducibili a quelli già espressi ,non ha avuto molta considerazione. Vanno ricordati però i novecenteschi Sonetti a Orfeo dell'austriaco Rainer Maria Rilke. Molto vicini a Nietzsche in alcune tematiche, sono metricamente dei sonetti francesi.

In Russia, sono famosi i sonetti di Aleksandr Pushkin.

Inaspettata, infine, la diffusione del sonetto tra i poeti di lingua urdu (lingua franca del Pakistan e diffusa nell'Hindustan): qui il sonetto utilizza lo schema elisabettiano introdotto dai colonizzatori inglesi, a chilometri e chilometri di distanza dalla patria di ciò che è indubbiamente un breve e amplissimo carme.


Marco di Prospero

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