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"Il miglior fabbro" - considerazioni sull'attività di teorico dell'arte e della po

I - Ho nostalgia di gente del mio stampo, / e il volgo non mi tocca.


Non c’è discorso sulla poesia moderna che, se fatto da esperti, non finisca a un certo punto col chiamare in causa Ezra Pound. Si potrà farne il nome anche solo per insultarlo come sregolato, buffone, frivolo, nomade, o per assegnargli una nicchia come a Keats in passato. Ma un fatto è certo: si parlerà di lui.[1]

Di venti persone che esprimono la loro opinione su di lui, una soltanto ha letto con un certo impegno i suoi scritti. E di queste venti, alcune ne saranno scandalizzate, altre sconvolte, altre ancora irritate, e una o due sentiranno addirittura oltraggiato il loro senso di dignità. Il ventunesimo secolo conoscerà e ammirerà alcune sue poesie, ma dirà: “è soprattutto un letterato, un traduttore”; “i suoi primi versi erano bellissimi, ma le poesie successive non rivelano altro che un desiderio maligno di essere importuno, una volontà infantile di essere originale”. […] Se il lettore è già arrivato a dare subito il proprio consenso alle proposizioni: “Pound è soltanto un letterato”, “Pound è soltanto un tecnico”, “Pound è soltanto un profeta del caos”, allora restano poche speranze.[2]


Molto, in passato, si è discusso di Pound; poco negli ultimi anni: vuoi per la sua scomoda posizione politico-economica (essere aperti sostenitori dei fascismi europei e di politiche sociali avverse al capitalismo nel secondo dopoguerra non è davvero facile), vuoi per la difficoltà intrinseca della sua poesia, che spesso lo allontana dall’immaginario comune di massimo poeta accanto a nomi come Eliot, Yeats, Thomas o Brooke per relegarlo ad una impertinente e spettinata foto segnaletica da ribelle e pericoloso pensatore, ciò che ci rimane a suo riguardo è ben misero; ma una cosa è certa: Pound è stato sicuramente uno degli autori più “scomodi” del ‘900.


Anche nei primi anni del secolo scorso, quando la sua poesia si scaraventò senza gran rumore in piccole riviste letterarie inglesi di seconda mano, nonostante un esordio difficoltoso fece molto parlare di sé; le critiche che gli venivano rivolte erano quasi tutte le stesse: difficoltà, eruditismo, personalità ingombrante che troppo spesso si traduce in schiamazzi e scene da teatro dell’opera, che in versi, all’epoca, sembravano particolarmente difficili da digerire. Ciò che interessava ai versificatori era la levità, l’eleganza di ascendenze romantiche (mai scomparse dal fiero cuore britannico), uniti ad un irresistibile fare decadente di matrice wildiana. Ma Pound non ha forse nessuna delle buone, superficiali qualità dei poeti moderni… non ha quella malinconia, quella rassegnazione o svogliatezza nei confronti della vita, che sono oggi comuni; né quella sorta di amore per la natura che si esprime in descrizioni dettagliate e in metafore decorative (è ancora vivo e forte qui il pesante ricordo dell’esperienza vittoriana di Browning, Tennyson e Swinburne, ndr.). Non è possibile stabilire nessun confronto utile tra la sua poesia e quella di un qualsiasi altro scrittore vivente[3]. Pound è un autore estremamente complesso (non del tipo eliotiano o dantesco di complessità, cioè profondità di pensiero e di elaborazione artistica, quanto complessità tecnica ed espressiva), che nondimeno ha avuto - e ha tuttora - i suoi non riconosciuti pregi, operanti per lo più di nascosto nelle pieghe della storia o vivendo nella penna di altri autori. Anche un critico esperto, rimarrebbe sconcertato davanti alle creazioni poundiane, che talvolta sfociano nell’eruditismo spinto: “questa è archeologia”, dirà di alcune poesie di forma e argomento provenzale “per capirle ci vuole una conoscenza specifica, e la vera poesia non ha bisogno di una tale preparazione”[4].


Ma quali sono questi meriti? Più che indagare nella realizzazione poetica in sé appartenente al primo periodo, altalenante e spesso di qualità troppo dispari per poter essere considerata un punto primario di indagine sull’autore, o al secondo periodo, quello dei Cantos (argomento di abissale complessità, tanto che tuttora non è stato sviscerato appieno, né ritengo che verrà mai fatto; ma forse è qui il vero fascino dei Cantos), dovremo concentrarci sulla straordinaria opera teorica e critica che l’autore condusse per lunghi anni sul tema della poesia.


II - Alcune cose da non fare


1. Un’Immagine è ciò che presenta un complesso intellettuale ed emotivo in un istante di tempo. La presentazione di un tale complesso istantaneamente dà quel senso di improvvisa liberazione, quel senso di libertà dai limiti del tempo e dello spazio, quel senso di improvviso sviluppo che proviamo alla presenza delle più grandi opere d’arte.

2. È meglio presentare una sola Immagine in tutta una vita che produrre delle opere voluminose.

3. Non si adoperi alcuna parola superflua, alcun aggettivo che non riveli qualcosa.

4. Temi le astrazioni. Non ripetere con versi mediocri cose già dette in buona prosa.[5]


L’imagismo. Non si sa bene neppure se definirla corrente letteraria, semplice moda, oppure una forma di pensiero. Tutti sono però d’accordo nel definirlo “movimento stilistico”. L’immagine è l’ideogramma cino-giapponese (non a caso così studiato e assimilato da Pound sull’onda del neo-confucianesimo di inizio ‘900 di Fenollosa), è l’immediatezza del linguaggio che con qualità di sequenza cinematografica esclude ogni nesso causale imposto alla logica dell’esperienza e rappresentato da un’astratta linea di penna, e sostituisce il processo logico con immagini: ecco il senso del rifiuto dell’astrazione in favore della visual imagination, il rifiuto della tradizione prettamente estetica occidentale, che attribuisce un valore immaginato di bellezza ad una rappresentazione grafica, e la tradizione sintetica orientale, che a questo processo mentale puramente astratto di nesso estetico sostituisce l’immagine stessa dell’ideogramma. Ciò che Fenollosa chiama il “muoversi delle cose” viene ossimoricamente fissato in un’immagine (anzi, nella sua relazione segno-immagine: la nascita di un ideogramma): all’immaginato, al processo mentale astratto, subentra l’immagine, il concreto. Il linguaggio dunque si scardina dalle sue tradizionali colonne portanti, cessa di esistere in quanto tale e diventa pura sequenza di realtà visive, come in un montaggio cinematografico (processo che si realizzerà in maniera pressoché perfetta nell’Eliot della Terra Desolata, come avrà ben da dire il suo amico e maestro Pound).


La poesia muta radicalmente, come radicalmente era mutata nel passaggio da neoclassicismo manierato a romanticismo sentimentale: quanto alla poesia del ventesimo secolo, quella che io conto di vedere scritta nel corso del prossimo decennio, credo che andrà contro ogni vuotaggine, che sarà più tenace e più sana, che sarà più vicina all’osso. Sarà più che potrà come il granito, la sua forza starà nella verità, nella sua potenza interpretativa; non cercherà di apparire possente per mezzo di fracasso retorico, o di un’orgia di sfarzo. Avremo meno aggettivi coloriti che attutiscono la scossa, l’urto poetico. In quanto a me, io la voglio così, austera, diretta, senza sdrucciolamenti emotivi. Come non ravvisare in queste profetiche righe gli eliotiani “Porterò i pantaloni arrotolati in fondo” (Prufrock), “In una manciata di polvere vi mostrerò la paura” (Waste Land) o “è così che finisce il mondo, non con uno schianto ma con un piagnucolio” (The Hollow Men)? Immagini pure, solide come il granito e forti della loro austera e diretta potenza interpretativa (e non in pochi considerano la poesia di Eliot l’unica vera, e la più grande, attuazione pratica della teoria imagista, applicata alla sensibilità modernista). Ma a questo punto Pound inserisce un’altra riflessione di grande interesse: la retorica (intesa negativamente e identificata con la tecnica sofista) è un ostacolo alla produzione artistica, è un’orgia di sfarzo, un fracasso (si adorni bene o non si adorni del tutto). La vera cura per l’ondata di stucchevole retorica che impregnava la poesia inglese da almeno un secolo poteva essere solo l’imagismo, la trattazione diretta della cosa sia soggettiva che oggettiva. E dunque si muove il lettore solo con la chiarezza; nel rappresentare le emozioni del cuore umano, la durevole validità dell’opera dipende dalla sua esattezza. È la cosa che è vera e si mantiene tale che conserva la sua freschezza per ogni nuovo lettore. Pound va oltre, arriva a dare consigli tecnici ai poeti coevi (giunge persino a stilare elenchi precisi di autori da leggere e da non considerare per una buona formazione poetica), tanto da affermare a gran forza che è meglio presentare una sola Immagine in tutta una vita che produrre delle opere voluminose (malcelato strale al mondo accademico, tronfio e borioso delle proprie conoscenze, mondo da cui pure Pound usciva, ma che tanto criticò nella sua vita), e non si adoperi alcuna parola superflua, alcun aggettivo che non riveli qualcosa, e soprattutto che sia concreta, mai appartenente all’astratto immaginario del non esistente, perché mescolare astrazione al concreto indebolisce l’immagine: lo scrittore non si rende conto che l’oggetto naturale, vero, reale, è sempre il simbolo adeguato per un’immagine.


Ma Pound è anche fiducioso, afferma a cuor leggero che nei grandi scrittori non c’è falsa vernice da rimuovere, non c’è broda in loro, e non occorre strizzarla via; non si prestano a sfruttamenti imperiali e sentimentali. Su Omero fu fondata una civiltà, una civiltà e non un semplice impero tronfio d’orgoglio (e a questo punto è facile capire perché con altrettanta leggerezza Pound dichiarasse che Dante è il poeta migliore mai esistito, Dante il concreto e il diretto anche in argomenti, quelli fideistici, che di concretezza non avrebbero proprio nulla, e che Milton è soltanto un pallone gonfio d’aria che si affloscia sul peso della propria retorica). Perché d’altronde, tolta la patina della retorica, rimane solo l’emozione: chi non è capace di camminare senza l’ausilio della retorica, è destinato a cadere nel dimenticatoio o a essere superato.


Non siamo, a ben vedere, molto lontani dal concettismo barocco di un Quevedo o di un Ciro di Pers; se al concetto (“dire quanto più si può in breve spazio”) si sostituisce l’immagine, di cui il concetto è a conti fatti la formulazione prima e più rudimentale, non si è molto distanti dal manifesto supremo dell’imagismo: la grande poesia è semplicemente linguaggio caricato di significato al massimo grado possibile e (ma questa è una postilla di Ford Hueffer) la bellezza è un valore, forse il più prezioso della vita, ma la capacità di esprimere un’emozione così da comunicarla intatta e precisa è forse un bene ancora più prezioso.


III - L’artista serio


Il giudizio stupido o provinciale dell’arte si fonda sulla credenza che la grande arte debba essere simile all’arte di colui che giudica è stato educato a rispettare


In Pound, l’analisi teorica della poesia del nuovo secolo si espande a dismisura, oltre i termini generali dell’imagismo e i consigli tecnici del versificare: investono anche l’arte e l’artista. Secondo Pound l’arte cattiva è arte inaccurata, è arte che fa registrazioni false. Se uno scienziato falsifica una relazione scientifica o deliberatamente o per negligenza, noi lo consideriamo un criminale, o un pessimo scienziato. Se un artista falsifica la sua relazione sulla natura dell’uomo, sulla propria natura, sulla natura del suo ideale di perfezione, sul suo ideale di Dio se Dio esiste, sulla forza vitale, sulla natura del bene e del male, sulla forma con la quale egli crede o non crede a una cosa o a un’altra, per potersi uniformare al gusto del suo tempo, alle abitudini di un sovrano, alle convenienze di pregiudizi etici, allora quell’artista mente. Il suo reato è della stessa natura di quella dello scienziato, ed è responsabile degli errori futuri. La forte presa di coscienza dell’artista come individuo alla pari di uno scienziato, ma non la stessa persona (e non è da poco, questa affermazione: per tutto il corso del Novecento si assiste all’infausta, quanto voluta in prima persona dai poeti, tendenza a svalutare la figura dell’artista in relazione ad altre figure professionali, o il suo appiattimento contro di esse - la figura del narratore giornalista, ad esempio), è sicuramente in linea con l’ingombrante personalità di Pound, ribelle e mai sottomesso alle logiche di mercato, di potere e di nazione (nonostante il suo amore per l’Italia, lo si ricorda principalmente come riottoso apolide). Ma l’interesse del poeta è tutto teso al definire cosa l’artista non sia (sembra di risentire il Prufrock eliotiano: non sono un profeta, e No! non sono Amleto, né dovrei esserlo): non è affare dell’artista chiedervi di imparare, di difendere le sue opere, o insistere affinché leggiate i suoi libri. Ogni artista che ricerca la vostra particolare ammirazione è, proprio per questo, tanto meno artista. E ancora: il desiderio di stare sulla scena, degli applausi non hanno nulla a che fare con l’arte seria.


L’arte dunque è un corpo indipendente e fieramente libero. L’arte che porta una testimonianza e definisce per l’uomo la sua natura e le sue condizioni interiori, questa è veramente degna: la bellezza dell’arte ricorda all’uomo ciò che vale la pena di fare; non parlo dei surrogati, ma della bellezza, non delle idiozie, non dei sentimentalismi sulla bellezza, non dell’andar predicando che la bellezza è cosa dignitosa e rispettabile. Parlo della bellezza. Non si discute su un vento d’Aprile: quando lo si incontra ci si sente rianimati, e così quando s’incontra in Platone un pensiero che scorre veloce, o un bel profilo di una statua. Pound è evidentemente per una pratica materiale della bellezza, non per il suo chiacchiericcio ai tavolini da bar: la bellezza è attiva, induce l’uomo a considerare quello che valga la pena di fare e a riflettere sul tempo sprecato; non è contemplazione passiva, è vita (ci si sente rianimati). Ed è, cosa ancora più importante, un oggetto concreto (ritorna la teoria imagista) della realtà assurto a immagine: l'arte non chiede mai a nessuno di far nulla, di pensare nulla, di essere nulla. Esiste come l'albero esiste, si può ammirare, si può sedere alla sua ombra, si possono spiccarne dei frutti, si può tagliarne la legna da ardere, si può fare assolutamente tutto ciò che si desidera. Esattamente come la Nike di Samotracia esiste per intima rappresentazione dell’uomo, di cui ne è alta espressione (come l’albero è espressione della Natura), ma va oltre il semplice concetto di statua di marmo, così il desiderio spesso va oltre la capacità di una compiaciuta rappresentazione; e di conseguenza affermiamo che altri membri della razza possono aver desiderato di produrre una Nike di Samotracia. L’arte, la rappresentazione materiale della bellezza, diventa immagine, cioè espressione della realtà stessa, e come tale diventa parte attiva dell’animo di chi ne partecipa. Siamo lontani dal concetto di arte per arte, dalla contemplazione passiva della bellezza che riempie i sensi di astrattezza: la Nike è concreta come è concreta l’arte e l’albero, immagine della natura, ed è parte integrante e attiva sia dell’uomo che l’ha creata, nel processo materiale di produzione, sia di colui che la contempla, tanto che ogni uomo può dire di aver desiderato di produrre una Nike di Samotracia. E tutto ciò è Immagine.


Concludendo, proviamo a dare un assaggio del famigerato spirito polemico e al tempo stesso altamente critico di Pound. Sempre a proposito della figura dell’artista, l’analisi del nostro poeta è incredibilmente attenta e arguta; egli individua vari gruppi: gli inventori, uomini che hanno scoperto un particolare procedimento (ad esempio Arnaut Daniel e Guido Cavalcanti, che introdussero certi metodi di rima e forma); i maestri, classe limitatissima di pochi individui dalle stesse caratteristiche degli inventori, ma dalla straordinaria capacità di assimilare e coordinare una grande quantità di invenzioni precedenti, accumulando aggiunte ad un proprio nucleo, riuscendo a investire di qualche qualità speciale o peculiare il proprio carattere, e portando così il tutto ad uno stato di pienezza omogenea (Dante ne è esempio sommo); i diluitori, cioè coloro che si mettono al seguito di inventori o maestri e che producono qualcosa di minore intensità, qualche variante fiacca o qualche ridondanza nella scia dell’opera valida (i Petrarchisti del Cinquecento); gli uomini che fanno più o meno un buon lavoro nello stile più o meno buono di un periodo, aggiungendo un lieve aroma personale senza influenzare il corso essenziale della storia (e questa classe produce la gran massa di tutta la letteratura: di costoro sono piene le antologie dilettevoli e i canzonieri); i Belles Lettres, i boriosi accademici tronfi del dato e della conoscenza astratta, di cui difficilmente si può dire che abbiano originato qualcosa; ed infine gli iniziatori di maniere, i McPherson e i Gòngora, la cui moda trascorre come un’onda sopra la letteratura per pochi decenni e poi si smorza lasciando le cose com’erano.


La profondità e l’ampiezza dell’opera teorica di Pound non si fermano qui: abbiamo volutamente tralasciato molta della produzione critica del poeta, dai trattati di metrica e armonia musicale a saggi quali Come bisogna leggere o La Tradizione, come pure l’immensa mole di critica letteraria su autori coevi o del passato (era ad esempio un grande studioso di letteratura italiana) o l’incredibile attività di traduttore. Credo che davvero si possa dar ragione ad Eliot dell’appellativo (mutuato da Dante) affibbiato all’amico nella prefazione alla Terra Desolata: il miglior fabbro (sottinteso del parlar materno). Ma è proprio in questa omissione che risiede il vero significato dell’etichetta eliotiana: il miglior fabbro del parlar materno, Arnaut Daniel, è per Dante l’iniziatore di geniali tecniche letterarie e di una grande stagione di poesia (fu, cioè, quello che Pound definiva come inventore); il semplice fabbro invece plasma, dà forma e direzione a qualcosa di già creato: esattamente come Pound diede un’importantissima impronta allo sviluppo della poesia novecentesca, non tanto con le sue discutibili creazioni poetiche, quanto con l’attività di teorico e critico, quasi avesse fornito un alveo solidissimo in cui la futura poesia potesse scorrere placida e irruenta al tempo stesso. In questo senso Pound è veramente il miglior fabbro.


Andrea Peverelli

Bibliografia

[1] Carl Sandburg, Poetry, 1916

[2] T. S. Eliot, Ezra Pound: metrica e poesia, in T. S. Eliot Opere/1 1904-1936, a cura di Roberto Sanesi, Milano, Bompiani, 2005 [1992], Classici Bompiani, pp. 329-330

[3] Edward Thomas (Edward Eastway), English Review, 1909 (?)

[4] T. S. Eliot, Ezra Pound: metrica e poesia, cit., p. 333

[5] Ezra Pound, Uno sguardo indietro, da Pavannes and Divisions (1918), in Ezra Pound - Opere scelte, a cura di Mary de Rachewiltz, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1992 [1970], I Meridiani, pp. 903-917.

Tutte le citazioni di Pound in corsivo all’interno del saggio sono ricavate dal testo sopra citato.

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