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San Pietroburgo attraverso le (leggende) metropolitane - di Eva Mascolino

Fondata nel 1703 dallo zar Pietro I Romanov, San Pietroburgo è una città nata su un terreno fin ad allora impervio e paludoso, ma, contemporaneamente, su numerose leggende più o meno metropolitane.


In parte si tratta di voci di corridoio diffuse nei secoli a diversi livelli sociali, in parte di racconti dalla fonte ben più autorevole, che hanno lasciato tracce sui manuali di storia sovietici e su quelli ad essi precedenti e successivi. Ciascuna di queste, in ogni caso, contribuisce a creare per la metropoli un biglietto da visita caleidoscopico, dalle tinte policrome e spesso in contraddizione fra loro, eppure emblematiche per comprendere la mentalità e la cultura di coloro che la abitano.


Cronologicamente, la prima narrazione risale al momento stesso in cui si stabilì il luogo presso cui fondare la nuova capitale imperiale: sebbene le testimonianze dell’epoca abbiano dimostrato l’assenza di Pietro il Grande nel momento della fondazione, c’è chi sostiene che lo zar abbia osservato l’isola Zajachij decretando «Che qui sorga la città» e che i lavori di bonifica e costruzione siano cominciati subito dopo le sue parole.


Mentre numerosi architetti provenienti dalle maggiori città d’Europa si occupavano dell’urbanistica di San Pietroburgo, uno dei ponti più famosi della città, l’Anichkov, veniva innalzato dove si narra che il barone Klodt avesse inavvertitamente superato lo zar durante una passeggiata che entrambi stavano facendo a cavallo. L’azione era severamente vietata dall’etichetta vigente, tuttavia Pietro il Grande aveva perdonato il nobile, sostenendo sardonicamente che egli scolpisse cavalli meglio di come li guidasse. Per sdebitarsi, allora, il barone aveva costruito il suddetto ponte circondandolo di statue equestri.


In questa fase, famose sono anche le storie circolanti riguardo al Palazzo d’Inverno della dinastia sovrana. Pietro I, infatti, aveva visitato gran parte dei territori dominati e si era invaghito di una lavandaia, che aveva in breve scelto come propria consorte. Anni dopo, venendo a conoscenza di un tradimento da lei subìto, aveva condotto la moglie presso la sala degli specchi della reggia e le aveva fatto notare come il vetro veneziano, di per sé semplice e reso raffinato grazie all’arte, potesse tornare facilmente alla propria essenza primitiva, se lo zar lo avesse ordinato. Uno specchio fu da lui effettivamente distrutto e a quel punto pare che la donna abbia replicato: «Ma pensi che ora il palazzo sia più bello?»


Se rispetto a tale vicenda è ignota la reazione di Pietro I, non può dirsi lo stesso dell’episodio che sta alla base di un gesto cui oggi il popolo russo fa ricorso per indicare, in un contesto di conversazione informale, la propria voglia di consumare alcolici.


Nel momento in cui un operaio aveva completato il proprio lavoro edilizio per lo zar, infatti, quest’ultimo gli aveva concesso di essere retribuito nella maniera che egli avrebbe ritenuto più opportuna. Costui aveva richiesto un’autorizzazione scritta per bere gratuitamente in tutte le osterie di San Pietroburgo di lì fino alla propria morte – e la sua richiesta era stata esaudita. Ciononostante, dopo la prima sbronza, il pover’uomo aveva smarrito il prezioso documento e si era presentato dall’imperatore per domandarne un secondo. Convinto che qualunque tentativo sarebbe andato parimenti a vuoto, Pietro I aveva preferito fargli tatuare il permesso all’angolo del collo, in modo tale che non potesse più andare perso. Da quel momento, pertanto, toccarsi il collo con la punta dell’indice equivale ad affermare: «Mi va di bere qualcosa.»


Se tali dicerie possiedono un suggestivo mix di folklore popolare, moralità spicciola e consuetudini ormai radicate nella forma mentis russa, c’è però un’ultima storia settecentesca i cui tratti tipici sono il mistero e il sovrannaturale, come in una leggenda metropolitana che si rispetti.


Alla fine del XVIII secolo si sentiva udire la profezia secondo cui la vita dell’allora zar Paolo sarebbe durata tanti anni quante erano le lettere di benvenuto poste all’entrata del maestoso Castello degli Ingegneri. Ad oggi la scritta è andata perduta, ma tradizione vuole che la previsione si sia avverata e che tuttora il fantasma del sovrano si aggiri per le sale dell’edificio con in mano una candela, facendo sbattere le porte anche in assenza totale di correnti d’aria. È per questo che durante la notte gli attuali collaboratori della residenza, da tempo divenuta un museo, indirizzano al punto da cui provengono tali rumori sospetti un sussurrato: «Buonanotte, sua altezza.»


Questo insieme di consuetudini è esemplificativo non solo della maniera spesso “magnifica” e autoironica con cui la Russia si rapporta con il proprio passato, ma anche dell’ennesima credenza secondo la quale tanto la giovinezza è il periodo dell’esistenza in cui gli avvenimenti hanno una consistenza maggiore, quanto lo sono i primi secoli nel caso della vita di una città. Non a caso, San Pietroburgo, che ha da poco festeggiato il terzo centenario, continua a possedere una luminosa costellazione di aneddoti, capaci di renderla una metropoli attraente per i turisti di ogni parte del mondo.


Eva Mascolino

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