"L'incoscienza del letargo" - recensione su Laboratori Poesia a cura di Michele Paolet
- noxinfecta
- 15 ott 2018
- Tempo di lettura: 3 min
L’incoscienza del letargo, Mario Famularo (Oèdipus, 2018)
Leggendo L’incoscienza del letargo (Oèdipus, 2018) non si può non rimanere colpiti dallo sguardo chirurgico che Mario Famularo posa sulle cose e sugli uomini. Attraverso la lettura dei testi si assiste alla costruzione di un percorso di scarnificazione, con l’obiettivo di raggiungere un punto zero, un vuoto totale da cui ripartire. L’attenzione al rapporto tra uomo e assenza non deve però essere letta solamente in senso negativo: la visione orientale che ci propone Luca Cenacchi nella sua accurata prefazione legge il nulla, il vuoto come potenzialità, obiettivo verso il quale tendere per “creare un rapporto di continuità tra sé e il mondo”. La poesia in apertura può essere interpretata infatti come una sorta di testo guida che riassume in sé tutti gli elementi cardine dell’intera raccolta: il nulla, l’assenza, il vuoto ma anche l’esperienza stessa e non l’aspirazione, tema che ritornerà spesso nei testi di Famularo in luce negativa (la trappola delle aspirazioni, l’aspirazione […] stanca, l’aspirazione / […] polverizzata e / dispersa). Il percorso dunque, la progressiva eliminazione del superfluo e la presa di coscienza dell’estraneità profonda del [mio] corpo / ad ogni altra cosa / del mondo tenendo però presente che nulla crolla mai / davvero né si crea / né si distrugge. Restano promesse di contagio, rare possibilità di condivisione di progetti e intenzioni, contaminazioni di carne e ragione costruite ricamando nei rapporti / il senso umano perché la propensione al bene / ci indirizza ed / avvicina. Dunque occorre risvegliarsi da questo stato di incoscienza-cosciente, da questo letargo che ci separa, che oscura la mente e le palpebre, smettere di esistere / alla deriva / delle cose e farsi travolgere dal flusso, imprimere una direzione tenendo presente che la vita non / ritorna. Raggiunto il silenzio, il punto zero, il vuoto assoluto è lì che si avvertirà il richiamo del presente, la necessità di stare qui e ora, abbandonare al rimpianto, stare nel tutto che succede / [nella] presenza che circonda / qualcosa che ci insegue.
Michele Paoletti
non la vita non l’amore ma il nulla che precede l’assenza che s’insinua il vuoto che consegue l’autentica esperienza e non l’aspirazione che crea la sua presenza un tempo l’uomo intendeva il respiro della ginestra la fragilità originaria contatto leggero con la terra il segreto innocente del sussurro dell’iris dopo secoli di rumore prepotente per le strade stanze di cemento bianchissimo un’ordinata mortificazione la recrudescenza ostinata di quella parola nel silenzio della metropoli che sovrasta i fiori troppo limpidi non parlano a voce bassa tra gli ordinati salici non basta più ascoltare è inutile chiamarli risponde il tuo riflesso soffocati in un feretro di galaverna e poliuretano quei fiori sono morti l’ombra della mano definita nel contatto tra il nero e la sorgente si scompone l’individuo è mia la percezione del calore sulla pelle l’impulso sempre identico la sua corrispondenza la sagoma familiare confrontata ad altri corpi la condizione assoluta di un’esistenza disgiuntiva la maestà indecifrabile con cui si rivela l’estraneità del mio corpo ad ogni altra cosa al mondo la parola è l’inganno non importa l’onestà della sua bellezza il veleno del suo morso smarriti tra le architetture di un ordito ragionevole trascuriamo l’abitudine l’effetto fotoelettrico e contro ogni tendenza l’impostura del linguaggio senza memoria o aspettative l’uomo si converte a un vegetale l’eterna percezione del presente eppure quel ricordo rimescola le ombre nel sogno di un’eclissi trascendente e quelle proiezioni che si spingono radianti che allungano la presa schifose un fiore è disumano ma molto più terrestre
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