Mario Famularo, "Il dono del silenzio" - nota critica di Luca Cenacchi (B.I.L. 2018)
- Mario Famularo
- 14 giu 2018
- Tempo di lettura: 2 min
La struttura fondamentale di questa raccolta si nota a partire dalle citazioni in esergo alle prime due sezioni.
Il progetto è ambizioso: giustapponendo Magrelli a Kitaro l’autore offre una mappatura dell’esistenzialismo, che dalle teorizzazioni iniziali arriva fino ai giapponesi, i quali cercano di superarlo, facendo leva sulla concezione taoista del vuoto come fondamento del mondo.
Conferendo al vuoto questa veste concettuale dovrebbe venire a cadere il dissidio, intrinsecamente narcisistico, dell’io davanti alla morte, percepita come fine dell’essere.
Attraverso una semplificazione delle proprie strutture l’io arriverà ad accettare la trans-permanenza (il divenire) che governa il mondo.
Gran parte della raccolta, in fondo, è rappresentazione di questo apparato concettuale: la quotidianità che viene disgregata nel nulla, il quale si rivela polisemico nel momento in cui vengono innestati elementi figurativi tratti dalla tradizione taoista.
Questa azione tuttavia non deve essere interpretata, a mio avviso, come atto puramente contestatorio verso certe poetiche, ma pare sia più che altro la volontà di disarticolazione nei riguardi di convenzioni ripetute meccanicamente, come del resto si evince da questo passaggio:
e ancora quasi naufraga il consueto come stai, cosa hai fatto, qualche innocua convenzione
Un esempio, tuttavia delle citazioni dal corpus taoista è il componimento: “l’utilità del vaso sta nella sua capienza” che rielabora questo passo:
«[…] Si ha un bel lavorare l’argilla per fare vasellame, l’utilità del vasellame dipende da ciò che non c’è. […] Così, traendo partito da ciò che è, si utilizza quello che non c’è [1]»
Possiamo ipotizzare, nello stesso componimento, che «bisogna fare il vuoto» sia identificabile con l’espressione wu wei (無為, letteralmente azione senza azione).
L’autore tuttavia pare perorare l’interpretazione data da Pasqualotto nell’estetica del vuoto dove essa assume la funzione centrale di fare vuoto dentro di sé, riconducibile alla semplificazione dell’io accennata precedentemente.
A livello formale la raccolta presenta un ritmo spezzato, sia attraverso la frammentazione di versi tradizionali, sia talvolta tramite la disarticolazione logica della frase.
L’impianto linguistico, pur essendo per lo più proveniente dalla lingua d’uso, non ha paura di ricorrere a tecnicismi, al fine di pervenire a quell’effetto straniante e di fredda precisione che contraddistingue la raccolta.
Luca Cenacchi
[1] Cfr. Tao Tê Ching. Il libro della via e della virtù, Adelphi, 1975
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