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Intervista sul blog "Poeti Maledetti"

  • Immagine del redattore: noxinfecta
    noxinfecta
  • 30 gen 2017
  • Tempo di lettura: 10 min

Non posso non far iniziare la nostra conversazione dal mito di Orfeo. In che cosa differisce il "tuo" Orfeo dalla tradizione?


Partiamo in medias res! Bene: ho trattato questo mito, insieme a numerosi altri, nella raccolta “L’Arco e la Lira”, per una serie di ragioni che trovano giustificazione nell’economia di insieme dell’opera. Senza entrare troppo nel dettaglio, possiamo dire che ho tentato di reinterpretare il classico rendendolo attuale, e dunque ho rivisitato il mito cercando, certo, un messaggio universale, ma anche un messaggio particolare che rispecchi il nostro tempo. Il mio Orfeo differisce da quello della tradizione “classica” proprio in questo: si riferisce più all’Orfeo novecentesco dei “Dialoghi con Leucò” di Pavese: si volta intenzionalmente verso il volto di Euridice, restituendola alla morte cui appartiene. Accetta le dinamiche dell’esistenza, è irrequieto, cerca infine di annientarsi con la (fievole) speranza che il suo canto in qualche modo viva un po’ più di lui. Non crede nell’eternità, conosce il nulla e accetta la fine, quasi la invoca. L’Orfeo classico, invece, tenta di vincere la morte, allo stesso modo in cui riusciva a vincere (vincolare / legare / incantare) tutta la natura a sé con il proprio canto; cede per un istante alla propria umanità e viene punito, perdendo la possibilità che Euridice rinasca. Egli però continua a vivere nel ricordo dell’amata, piuttosto che nel presente, e infine viene fatto a pezzi dalla passione rinnegata verso la vita che procede, quasi come Penteo nelle Baccanti. Un uomo punito per la sua hybris, nel mito classico. Il “mio” Orfeo, come quello di Pavese, è assolutamente cosciente quando si gira verso Euridice, comprende che quella è la cosa migliore da fare, si dice: “l’amata tua è perduta, e quel che cerchi / non è di quel fantasma più l’essenza, / quel che demandi ormai è svanito e vinto”, sembra quasi volere, successivamente, la propria fine, “fiducioso che il dio ti vinca e anneghi, / dimenticanza eterna concedendo”. Accetta la finitezza e la transitorietà delle cose, pur con irrequieto ed umanissimo sentire. Qualcuno ha detto a riguardo: “si presenta un Orfeo che lascia la sua amata Euridice, figura ormai sinistra e spettrale, assieme alla sua vita per abbandonarsi, quasi, al suo stesso massacro.”


Parlando, diversamente, di forma, avendo come sfondo il tuo Orfeo, ma non solo, ho notato che la tua metrica così classicista delle volte non si riscontra nel lessico, né nelle strutture sintattiche canoniche; mi sto sbagliando o è stata una scelta consapevole o il risultato della stesura dei versi medesimi?


Da qui possiamo tornare a quanto accennavo sopra, con una breve premessa. Sono sempre stato uno strenuo sostenitore della musicalità e del ritmo in poesia – “Musica sovra ogni cosa”, come diceva Verlaine. Quando ho iniziato a scrivere versi avevo diciassette anni, e non conoscevo bene gli strumenti prosodici e metrici, pertanto andavo sostanzialmente “ad orecchio”. Col tempo, attraverso lo studio, l’imitazione, e altre utili esperienze, ho cercato di padroneggiare gli strumenti tradizionali che consentivano di imprimere musicalità e ritmo al dettato poetico, quella che appunto definisci “metrica così classicista”. Tendo ad essere una persona precisa, ed anche ora, che mi sono affacciato alla poesia contemporanea e ad un linguaggio che appartiene maggiormente al nostro tempo, quelli che sembrano versi franti e liberi hanno sempre alle spalle dei precisi andamenti, delle scelte ritmiche e prosodiche, anche dissimulate. Detto questo: “avendo come sfondo il mio Orfeo”, e pertanto, immagino, la raccolta da cui proviene, ovvero “L’Arco e la Lira”, ecco quali sono state le scelte linguistiche e sintattiche. All’epoca di tale opera (2012 - 2014) stavo completando un percorso che si era posto come obiettivo il raggiungimento di un linguaggio che fondesse lo stile neoclassico “imperiale” di Vincenzo Monti, in primis, con alcune suggestioni secentesche, soprattutto del Marino, svecchiandolo, rendendolo naturale e accessibile al lettore contemporaneo, attraverso, appunto, scelte sintattiche moderne, suggestioni, un senso diffuso di eleganza che non risultasse esclusivamente musealizzante. Proprio in quella raccolta sono presenti, in appendice, dieci “imitazioni”, che hanno preceduto il resto dell’opera, e sono stati perlopiù studi linguistici e retorici. Da questo punto di vista direi che è stata una scelta consapevole. Eppure, durante la stesura, e una volta acquisito questo “linguaggio”, lo scrivere ha avuto il suo corso e i suoi estri, quindi non è stato al 100% preordinato: non amo l’architettura progettuale assoluta, che ritengo mortifichi l’aspetto sanguigno e viscerale del momento creativo – mi piace il concetto di Vivaldi di “estro armonico”: una tecnica acquisita al servizio di un estro che non sia irrazionalità, ma nemmeno artigianato.


Dalle nostre conversazioni è venuto fuori che a un certo punto vorrai porre fine alla tua creatività poetica, mi sbaglio?


Vedi, non credo dipenda da me. Uno scrittore può immaginare di scrivere una, due, più opere, programmarle, preordinarsele. Ma in verità poi non decide di scrivere. È l’urgenza comunicativa, iniettata dalla vita e dall’esperienza, a far scrivere. Altrimenti si tratta di riesumare cadaveri e giocarci, operazione che non può interessare nemmeno chi scrive, a meno che non abbia un certo gusto dell’orrido, o un narcisismo patologico. Diciamo che ho scritto molto, probabilmente più del necessario, e, anche se la maggior parte di quello che ho scritto è stato una forma di “apprendistato”, non so quanto altro abbia da dire, il quantum va sfumandosi e rarefacendosi ad ogni parola. La ricerca dell’essenzialità assoluta della parola, in extremis, si risolve nel silenzio. Prima o poi, “a un certo punto”, ci arriverò necessariamente, per un motivo o per un altro. Il percorso è lungo, e io non intendo forzare la mano, né in un senso, né nell’altro.


In quante fasi divideresti il tuo percorso?


Una domanda che solletica la vanità e che rischia di produrre una risposta pachidermica! Dal 2000 al 2009 ho scritto una serie di raccolte che hanno spaziato dal lirismo alla narrazione, con una conoscenza troppo imperfetta ed incompleta degli strumenti metrici, prosodici, sintattici, retorici, ecc. Una prima fase molto istintiva e sanguigna, che vorrei raccogliere in un unico volume. Una seconda fase, successiva, va dal 2009 al 2016, e vede, appunto, un’attenzione particolare allo studio della tradizione, al tentativo di adattarla al nostro tempo senza snaturarla, anzi ravvivandola e reinterpretandola. Questa fase ha visto il proprio apice ne “L’Arco e la Lira” e ne “La Caduta dei Giganti”, per poi iniziare a cercare una strada nuova nella raccolta immediatamente successiva, “Il Concento Floreale”. Già lì è evidente che quel linguaggio e quelle forme chiuse non bastavano più. Ed è da meno di un anno che mi sono avvicinato a un linguaggio che rispecchi in senso stretto il nostro tempo, senza più alcuna sovrastruttura. Essenziale non solo nella parola, ma anche nelle scelte linguistiche e sintattiche. Mi piacerebbe racchiudere tutte le raccolte di questa “seconda fase” in un altro volume, e probabilmente, con calma, lo farò. Su ciò che appartiene a questa cd. “terza fase”, vedremo: probabilmente ne potrò parlare meglio dopo averla vissuta appieno; per adesso è assolutamente in fieri: posso dire che le sue caratteristiche peculiari potrebbero essere una tecnica presente ma non evidente, un linguaggio moderno ma non sciatto, un’eleganza presente ma non predominante, tematiche attuali ma non superficiali, e una ricerca della parola essenziale, pura, che si presta a più livelli di lettura. In ogni caso sono tutte fasi che attengono allo stile, al metro, al ritmo, al linguaggio, alla sintassi, ecc. Ho sempre cercato di restare coerente a me stesso nelle tematiche e nella cd. “poetica”, che, prima con maggiore incoscienza, e successivamente con maggiore consapevolezza, ha affrontato sempre il problema del nichilismo, del vuoto, del nulla e dell’assenza, e del suo superamento. Tematica attuale affrontata nei modi più diversi; con gli anni, ho scoperto quale fosse il mio, anche grazie alla poesia.


Qual è un autore secondo te sopravvalutato e uno sottovalutato, e per quale ragione?


Domanda interessante, che presuppone prima di tutto un’altra domanda: sopravvalutato e sottovalutato da chi? Se stiamo parlando di critica, e in particolare di critica storica, consacrata nei libri di letteratura e nei programmi scolastici, il problema è complesso, anche perché non è detto che nelle scuole si insegni chi abbia “valore” (altro lemma su cui ci sarebbe da discutere), ma in particolar modo chi – si ritiene – porti con sé un bagaglio di valori ritenuti socialmente pregevoli, e da trasmettere. Se stiamo parlando della collettività, temo sia un caso: quanto sarebbe conosciuto dal largo pubblico J. S. Bach senza la rivalutazione e la proposta effettuata da Mendelssohn della Matthäus Passion, per dirne uno, nel 1829? Detto questo potrei dirti: certamente il Manzoni, a mio avviso, è stato sopravvalutato in quanto poeta, per i suoi meriti civili, linguistici, per il taglio di profonda rappresentazione cattolica dei suoi versi, che tanta fortuna trovano nell’insegnamento della pietà cristiana; tutte cose sacrosante (a voler concedere), che non rendono però migliori i suoi versi, né la sua opera. Un autore sottovalutato, per converso, è Vincenzo Monti. Al di là della grandissima padronanza stilistica, linguistica e retorica, alcuni suoi versi hanno una lucidità moderna ed esistenziale che fa rabbrividire, velata di un’eleganza neoclassica imperiale e solenne: i suoi pensieri d’amore, la bellezza dell’universo, il sonetto sopra sé stesso, sono testi ingiustamente dimenticati. Probabilmente le sue scelte politiche ed ideologiche lo resero inviso a molti, a partire dal Foscolo; ma anche qui, questo non c’entra con la poesia. Altra opera ingiustamente dimenticata, per citarne un’altra, è la versione neoclassica del Paradiso Perduto di Lazzaro Papi, riscrittura vera e propria, con episodi di grande bellezza.


Non ho potuto non notare che abbiamo entrambi una grande passione per il mondo nipponico, passione che ti ha portato addirittura alla stesura di poesie che evocano lo stile giapponese. In cosa secondo te è diversa la poeticità del Sol levante, e in generale dell'Oriente, rispetto a quella Occidentale; inoltre in che cosa un poeta odierno può apprendere dalla tradizione nipponica?


La visione del mondo che nasce dal pensiero giapponese, in particolare, ed orientale, in generale, è uno spunto molto interessante per rivalutare il nostro intero sistema di certezze e di valori, in un’epoca di crisi come la nostra. È stato evidenziato dalla scuola di Kyoto, in particolare da Keiji e Karatani, che hanno riletto il pensiero occidentale dal platonismo all’esistenzialismo di Heidegger attraverso il sostrato del pensiero giapponese, scintoista, ma anche buddhista. Naturalmente, una differente visione dell’esistenza porta ad un diverso approccio anche alla poesia, all’arte, alla vita stessa. La poeticità orientale “pura” (ormai anche loro sono stati “contaminati”) è diversa dalla nostra perché mette l’individuo in secondo piano – crede nella decostruzione, nell’annientamento dell’io come presupposto della percezione autentica della realtà. Concetti come il mono no aware, il wabi sabi, lo yugen, il kire e, in generale, l’estetica giapponese, possono insegnare molto a noi occidentali: in primo luogo l’idea (per noi terribile) che ogni cosa viene da e si risolve nel nulla, che è assoluta potenzialità, e non lo spettro antagonistico vissuto dal nichilismo novecentesco europeo. E di conseguenza che ogni cosa è transitoria, che tale consapevolezza non può ingenerare angoscia nell’individuo, che l’io deve essere ridimensionato, e che l’unica bellezza possibile è imperfetta, impermanente ed incompleta.


Componi mai per esercizio ovvero scrivi talvolta delle composizioni che servono per migliorare la tue competenze metriche e stilistiche? Oppure scrivi soltanto per passione e quando "senti" le muse?


Credo siano due cose distinte e separate, ma che a volte possono mescolarsi. L’esercizio equivale ad uno “studio” (penso agli “studi” di Chopin), e quando viene effettuato con questa precisa prospettiva, difficilmente c’è anche un’ispirazione autentica e appassionata. Eppure a volte, in passato, ci sono stati momenti ibridi in cui ho provato ad utilizzare forme particolari con una certa ispirazione. Ad esempio, negli esercizi che ho proposto per l’iniziativa del Kerberos Gymnasium, che sono semplici e pure tracce da svolgere rispettando dei requisiti tecnici, quando ho redatto gli “esempi” non ho avuto alcuna particolare ispirazione, al massimo qualche idea che è servita da pretesto per mostrare lo svolgimento. Nelle “imitazioni” cui accennavo sopra, in appendice a “L’Arco e la Lira”, l’ispirazione c’è stata, ma in maniera assai contenuta – era prevalente lo studio dello stile, del linguaggio, delle figure retoriche. Dopo tanti anni, devo dire che raramente mi trovo a comporre per esercizio – ma l’ho fatto a lungo, mettendomi alla prova per acquisire ogni strumento che mi sembrasse utile. E credo sia stato molto costruttivo.


Riesce un poeta ad esprimere il suo mondo interiore? Oppure rimane a lui sconosciuto, e i suoi versi acquistano una realtà e vita propria?


Mh, domanda impegnativa. Pessoa ha scritto: “Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente.” Indubbiamente c’è un che di provocatorio in questi versi, ma anche alcune verità: la prima è che ogni poesia non può essere esente da qualche pur minimo sistema di sovrastrutture, o quanto meno, di struttura. Anche la scelta di fare a meno di sovrastrutture è a sua volta una precisa struttura, anche meccanismi come il flusso di coscienza. La narrazione attraverso gli strumenti prosodici di una propria “interiorità” vuole comunicare qualcosa al lettore, e per farlo, cerca di utilizzare precise scelte linguistiche, retoriche, ritmiche, ecc. Indubbiamente, per dirla invece con una frase di Zanzotto: “quando si scrive una poesia è frequente la serendipità: miri a conquistare le Indie e raggiungi l'America”. Spesso si scrive poesia con l’intento di esprimere un mondo (interiore o meno che sia), e i versi svelano qualcosa d’altro, portano altrove. Una buona poesia dovrebbe essere indipendente dal proprio autore, con una vita propria, ma in qualche modo dovrebbe anche rappresentare un mondo e un sistema di sensibilità in cui l’autore può (e sottolineo, può) riconoscersi, che può riconoscere come proprio. L’assoluto controllo di queste conseguenze, con un’introspezione pura, è a mio avviso parziale. E credo in ogni caso che la presenza dell’autore in una poesia sia possibile, ma non indispensabile, anche per quanto ho detto prima sulla necessità di ridimensionare l’io. Il nostro è un mondo impersonale e straniante, dove prolifica la mania di legittimare il proprio io come unico e irripetibile, proprio per questa sensazione diffusa di un attacco esterno continuo e spersonalizzante. Per descrivere con efficacia il nostro tempo – e i mondi interiori che ne derivano – bisogna tener conto anche di questo.


Che cosa vorresti che il tuo lettore si accorgesse subito leggendoti?


Che ho qualcosa da dire. E che posso dirlo senza annoiarlo, suscitando qualche riflessione. Che in quello che scrivo c’è una dimensione superficiale, immediata, ma anche la possibilità di andare a fondo, di mettersi in discussione, di chiedersi tra due alternative quale sia la preferibile. Dire questo qualcosa, magari anche con gusto, con eleganza, ove possibile. Mi piacerebbe che il lettore, leggendo, non compia uno sforzo, ma che sia portato a leggere ancora. E alla fine, che l’esperienza non gli scivoli addosso, ma lasci qualche cosa in chi legge. Credo che non si possa desiderare di più. Il problema principale della poesia, oggi, è l’assenza di un rapporto con i lettori: la poesia viene letta solo dai poeti e dai critici, che spesso scrivono a loro volta poesia. Spesso non viene letta nemmeno da loro. Quindi la principale cosa che può desiderare chi scrive versi, a mio avviso, è che il lettore si accorga che vale la pena di leggere quelle parole.


Nel poeta, a causa del brusco contatto con la realtà, prevale più un'anima gentile o cinica?


Il poeta, visto così, sembra quasi il protagonista di un documentario divulgativo. Scherzo, naturalmente, ma è già una risposta. Forse si oscilla tra un cinismo gentile e una gentilezza cinica, perché la nostra è un’epoca difficile, di crisi, ma, finché si scrive, vuol dire che si ha ancora qualcosa da dire, che c’è ancora una riparazione da tentare, un conforto da esperire, un qualcosa per cui sorridere (castigat ridendo mores!): credo che siano, in ogni caso, due aspetti di una medesima sensibilità, e che prevalga la gentilezza, quando si tende ad evadere dalla nostra realtà in una dimensione alternativa, fuori dal nostro tempo; il cinismo, quando si affronta di petto ciò che ci circonda, e appare necessario decostruire un sistema di valori devianti, nell’assenza di quelli cui si tenderebbe naturalmente. Ma tra le due estremità c’è un’ampia gamma di posizioni (e di “prevalenze”) ibride.


Lasciaci un link per seguire i tuoi elaborati poetici.


È quasi tutto in fase di revisione (inezie, limature, nulla di che), ma è possibile trovare i pdf gratuiti sul sito www.mariofamularo.tk, raggruppati in base alle “due fasi” di cui ho parlato sopra (la terza, come anticipato, è in fieri) – grazie per l’attenzione e la disponibilità.


 
 
 

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