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“Le distrazioni del viaggio” (Samuele Editore, 2018) e “L’assenza” (Ladolfi Editore, 2014), di Annal

Prima di parlare del nuovo libro di Annalisa Ciampalini, Le distrazioni del viaggio(Samuele Editore, 2018, pref. di Monica Guerra), vorrei soffermarmi sulla sua precedente pubblicazione di poesia, L’assenza (Ladolfi Editore, 2014, pref. di Giuliano Ladolfi), per ragioni che saranno chiare nel corso dell’esposizione.


In quei testi appaiono con evidenza, come sottolineato anche dal prefatore, i caratteri e le conseguenze di un’assenza bruciante sulla vita di ogni giorno, sulla percezione dell’esistenza e della realtà circostante, che si presenta muta e indifferente.


Questi caratteri vanno poi coniugati alla particolare formazione dell’autrice, insegnante di matematica, che inevitabilmente ne influenza la visione e il dettato.


Quando ho recensito le raccolte di Bruno Galluccio, mi sono soffermato ampiamente su questo punto: “La rivoluzione scientifica e tecnologica, e la progressiva rapidità delle sue conquiste, ha creato un inconscio affidamento nelle conquiste della scienza, e una proporzionale diffidenza verso le convinzioni metafisiche e fideistiche”; l’assenza di referenti metafisici, particolarmente accentuata dalla formazione scientifica, trasfigura facilmente il senso della perdita in un universo impersonale e insanabilmente distaccato e indifferente alla dimensione umana, accentuando la frattura esistenziale e costringendo a cercare una possibile soluzione, o rischiando di persuadere che non ve ne siano – e da qui il nichilismo, o quanto meno, il senso del vuoto.


Se nella raccolta precedente i riferimenti a uno specifico lessico tecnico erano più diretti ed espliciti (tra neutrini, muoni e pioni), nel lavoro più recente essi sfumano e si fanno estremamente rarefatti, diventando una serie di rimandi posizionati con cura (ad esempio, lo spazio che si incurva, la necessità di soffermarsi sulla densità del buio, la tendenza alla misura), conservando però i tratti distintivi della visione scientifica cui ho accennato.


Ne L’assenza questi elementi si uniscono a un’esperienza di perdita, coniugata a un senso di abbandono, che brucia in modo feroce: “Resta vera / la mano che vuoi e non ti tocca … Il profondo silenzio attorno, / l’immenso, inutile spazio … scansione di un tempo / che deve solo finire … tutto è rimasto vuoto”. Quanto detto appare con evidenza, ovvero: la trasfigurazione del sentimento della perdita in un universo silenzioso e inutile – vuoto.


Si assiste ad un procedimento di raffreddamento, alla rassegnata consapevolezza che la vita può rendere indistinti amore e simulazione, caratteristiche in ogni caso provvisorie che dovranno essere restituite insieme al proprio nome (e dunque alla propria unicità).


“Le varie tonalità collassano / in una sola”, quasi a suggerire lo sfuggire del senso, quando i dettagli si perdono in un solo colore assoluto e confuso: ed è proprio il bianco (insieme alla luce) a ricorrere spessissimo nei testi, simbolo di questa condizione (contiene infatti tutti i colori dello spettro elettromagnetico): “non proietta niente / bianco anche lo spazio fuori campo … e tutto si sbianca … io sarò nella camera bianca”.


Nonostante il disastro della perdita e la tragica assenza, la Ciampalini inizia a suggerire al lettore – e forse anche a se stessa – che “si può tentare di ridipingere il luogo”.

Ed è proprio quello che sembra fare ne Le distrazioni del viaggio, a cominciare dal titolo, antitetico a quello del libro precedente.


Se il viaggio può rappresentare il proprio andare, il percorso che ci colloca nella dinamica della nostra esistenza – in senso ampio – le distrazioni non possono che definire l’attenzione all’altro-da-sé, ovvero a tutto ciò che esula dai nostri pensieri, desideri e volontà.


Elementi che invece lo stesso termine assenza tende inevitabilmente a richiamare, visto che ciò che si è perduto è qualcosa che necessariamente finisce per sostanziare una mancanza, una sofferenza corrosiva – percepita dal soggetto in quanto concentrato su una sensazione di bisogno e desiderio.


Già l’esergo di Tranströmer conferma il cambio di prospettiva, insieme al titolo della prima sezione (Fuori da noi): nonostante “l’ossessione del ricordo”, è possibile imparare “la pace degli alberi”, soffermarsi sulla terra, sulle esperienze altrui, sentendo nel loro viaggio una connessione, che per un istante può dare senso a ciò che sembrava inesorabilmente precipitare “in trascurabili macerie”.


Tornerà certamente “il momento di vuoto”, e i pensieri più opprimenti trasfigurano, come in precedenza, nel paesaggio, che però stavolta “partecipa e muta, / misura la forza del nostro incontro / mancato”.


La sofferenza qui è più lontana; nonostante il ricordo sia doloroso, la partecipazione delle distrazioni diventa, da esperienza, compagna preziosa e fonte di una rinnovata energia.


Ciò che conforta e bisogna custodire è il “Posare la vista / su di una piccola area di grazia”, finché è possibile superare (o quanto meno sopportare) la frattura dell’assenza: “Ho finito i passi che mi portano a te”.


“Ci vuole un canto nuovo per l’inverno che verrà … opporsi al sonno della terra”; nonostante in molti punti il lessico e i temi de L’assenza siano richiamati, è il tono della Ciampalini a essere cambiato: l’irrequietezza sofferente diventa una serenità dolceamara, i toni più netti che tratteggiano una disperata sopravvivenza diventano qui partecipi delle cose del mondo.


Eppure ricorre la finzione, il vuoto, l’isolamento (“stanno tutti tra le mura … nel grigio che ci aspetta”), ma è evidente che qualcosa è cambiato, che l’analisi si è spostata dal proprio mondo interiore a ciò che è altro, alle cosiddette distrazioni, che lentamente hanno consentito di riprendere il proprio viaggio senza rischiare di caderne preda.

Mario Famularo

 

Alcuni versi tratti da L’assenza (Ladolfi Editore, 2014): Chiamare la sofferenza per nome Potrei scrivere che le sofferenze vere hanno radice comune, generano lo stesso groppo che inchioda la grazia dell’aurora ad una sedia dura e scura. Ma sarebbe un parlare per concetti, un inutile tributo ai nostri schemi: descrivere una pena astratta, che non c’è, che niente produce. Resta vera la mano che vuoi e non ti tocca, il tuo viso che in essa scivola piano piano. Il profondo silenzio attorno, l’immenso, inutile spazio. Organizzazione del tempo futuro Se sarò più morta di adesso accoglietemi nella vostra festa della quale non ho mai capito niente. So che sarete benevoli. Accoglietemi in una festa qualsiasi, passerò una serata a veder far baldoria, ad impiantarmi nelle schiene nude delle ragazze; appoggiata contro una parete ce la farò a teorizzare una simulazione di un amore di qualche minuto, magari di un’ora. Poi ripartirò, e sarò ancora io, cascante e rigida, ma con meno gradini davanti. Prevedo di passare così il mio tempo, fino all’ora in cui sarò chiamata a restituire il mio nome, a deporre, indistinti, amore e simulazione. Lezioni di fisica Si parla di misteriosi neutrini. Tepore nell’aria e unione di menti, tra i banchi spira sorpresa e in gioventù fremente si ferma. Si parla di inavvertibili neutrini di muoni sfuggenti, leggerissimi pioni e ci inondano in sciami tranquilli. Si frantuma l’aria e ci disorienta, sfuggono le regole del consueto, s’impone la mia volontà e sconfina dettando le sue eretiche leggi. Ed eccoti qui, persona o sequenza d’atomi; vivo e intatto, vittorioso sulla tua tragica assenza. Ancora mi è dato di vederti in questa luce piegata.

 

Alcuni versi tratti da Le distrazioni del viaggio (Samuele Editore, 2018): Hai imparato la pace degli alberi e l’intesa muta col cielo. Sai che la primavera e l’inverno hanno forme diverse e che ogni uomo ha un organo devoto alle stagioni. Mattina. Lui scende le scale pianissimo. Anche il paesaggio partecipa e muta, misura la forza del nostro incontro mancato. Tutto si è sbilanciato dalla mia parte, la vita delle rose e dei capelli, l’arrampicarsi delle strade. Com’è debole il tuo abbraccio e il vuoto attorno, il deserto nelle strade. Si celebra l’arrivo del vento nel cortile la luce migra senza impronte né clamore. L’aria si posa sulle nostre teste chine ci battezza tutte con lo stesso nome. È strano vedere come in questa fredda quiete ogni cosa si consumi lentamente, come tutto alla fine si somigli. Ci vuole un canto nuovo per l’inverno che verrà, ricami d’oro che lo fermino in leggenda, lo splendore del grano sempre da una parte a opporsi al sonno della terra. Il lamento del lupo alle finestre quando rincasare è solo un nocciolo di legno e i gesti si fanno bruni, e stanno tutti tra le mura.


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