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Surrealismo fisiologico ne "La Saggezza dei Corpi" di Martina Campi – di Luca Cenacchi

Questo mese ospitiamo una poetessa e performer originaria di Verona e attualmente residente a Bologna: Martina Campi con "La Saggezza dei Corpi", raccolta edita da l’Arcolaio nel 2015, Forlì.


La Campi ci dona un libro che indaga sull’esperienza all’interno di una struttura ospedaliera, suddivisa in sette giorni, producendo una esperienza poetica che rivela una profonda tensione, a tratti drammaticamente ironica, iconizzata da una stilizzazione personale e matura, dal sapore surreale.


Nonostante la suddivisione in giornate, i componimenti sembrano mescersi, finendo per superare spesso i limiti della originale suddivisione, e dare la sensazione di unitarietà a fine della lettura.


Il ritmo, anche grazie all’uso serrato, ma non arbitrario, di enjambement, contribuisce a creare quel flusso (quel fiume, per dirlo con le parole della Campi) che percorrerà tutto il libro.


Questo non dà a "La Saggezza dei Corpi" un ritmo forsennato; anzi, il variare della versificazione si apre alla necessità narrativa, che può essere, da una parte, contratta, talvolta quasi dialogica e, dall’altra, distesa, per far fronte al bisogno descrittivo.


La sintassi si piega alla necessità delle pause, in cui si deve spiegare il respiro del lettore, donando al flusso della Campi una consistenza e un “tempo” modulare, ma preciso, aiutato talvolta da segni come le parentesi, che lo rimarcano, finendo, però, per ampliare e dunque complicare il campo semantico di certi passaggi, fino a situazioni di ambiguità, anche favorite dall’interazione allitterante, anaforica, talvolta anche rimata, delle parole che compongono questi passaggi.


Oltretutto, talvolta, si cerca di suturare le parole con underscore per sottolineare ogni inclinazione possibile del discorso: “portano fogli, scambiano nomi / scambiano lamenti / tagliano vestiti, / a pezzettini e_le_menti”.


Un altro esempio nelle prime due strofe di Giorno #1:


Il primo respiro dopo la corsa si sgonfia di aria e di luce Giorno #1 È un fiume oggi la ferrovia dal quale straripano i binari e oltre gli argini folli i fogli, i sedili galleggiano e si allontanano, lasciati (andare, via) c’è una mano tra i palazzi e un muso tra i raggi del sole che sbatte e sbatte ancora da dove vieni? Dov’è trascorsa la notte? E percorre i contorni, li stringe, li logora, li rovescia

Già da questo incipit è difficile non notare il procedere surreale della narrazione, rinforzato dal già citato flusso, dove l’io si nasconde e serpeggia dietro le descrizioni, tradito solo da un procedere assertivo, finendo per sembrare latente. Il linguaggio - prevalentemente di media estrazione, anche se si osano accostamenti più preziosi (vertigini cerulee), fino a inserire contaminazioni extraletterarie - sostanzia immagini dagli accostamenti concreti, grazie a suggestive ipallage e allusioni, senza precludersi, tuttavia, la possibilità di arricchire l’atmosfera mediante slanci più ariosi e vaghi (il primo respiro dopo la corsa / si sgonfia di aria e di luce […]).


L’impianto surreale, l’ampio respiro del linguaggio e la tendenza alla sperimentazione, assieme al sapiente uso della retorica e del ritmo, favorisce la manifestazione di un discrimine fra esterno/interno (dove esterno, come è stato notato dalle note critiche all’interno del volume).


Questa suddivisione si condensa, secondo me, non solo in un affiancamento delle due realtà, ma si prefigura anche e soprattutto come tendenza verticale, ravvisata nell’approccio stilistico, il quale illumina la verticalità dell’architettura esistenziale che, dalla base abitudinaria e irrilevante, si sublima in quella “sopra-realtà”, impregnata di significati e dramma.


Infatti sono proprio gli accostamenti arditi a causare spesso spostamenti di senso e ambiguità, a favorire la manifestazione di quella “sopra-realtà” che caratterizza il flusso della raccolta. Il tutto è confezionato in una suddivisione diaristica, ma è un diarismo inconscio, in cui la narrazione si dilata per fare entrare, attraverso quelli che potremo chiamare incisi poetici o incisi riflessivi; ovvero una personale modalità di riflessione in cui, da una parte, si dilatano e fioriscono immagini, dall’altra si prefigura un dialogo con il lettore.

Questa scelta, insieme a quelle già citate precedentemente, contribuisce a sfaldare, intaccare progressivamente il referente reale che, seppur non sparisca mai del tutto, risulta alquanto confuso. Una delle prime dimensioni “mondane” a essere totalmente devastata è il tempo soffocato dal fiume narrativo, concretizzato dallo scrosciare degli enjambement e dunque del ritmo continuo in cui si erge una struttura allusiva degli eventi (si allude ad esempio a un arrivo in ospedale, al trascorrere dei giorni ecc.) o meglio, gli snodi fondamentali della “testimonianza” perché è questo che è, il libro, si evincono da allusioni.

Ciò contribuisce a restituire e delineare al lettore il senso di spaesamento e sradicamento dalla realtà che l’autrice deve avere provata sin dal primo momento in cui è entrata in quel mondo. Assieme al tempo se ne vanno poi le abitudini, la struttura rassicurante della routine in cui spesso ci si identifica e radica: “un giorno qui e ci siamo / già stranieri / alle ore nostre appese (ai corrimano) sfaldate calde perse / che non si fanno più, / le care abitudini […]”.


Anche se inizialmente è difficile e si cerca sempre di ricreare quel sostrato abitudinario che ci assicura e definisce, proprio del mondo esterno; tentativo che viene puntualmente ironizzato: “andiamo a farci una nuotata, a turno / nel nostro bagno in comune e in accordo / e andiamo a nutrirci insieme ch’è il mezzodì / al tavolino, ai piedi del muro (arid’osso): / quando restiamo tra noi ci scambiamo gli avanzi / e ci diciamo buon appetito, (ti sia gradito)”.


Si può dire dunque che vi è una sorta di aggressione, spesso velata, non solo alle strutture narrative e alle caratteristiche del “diarismo” tradizionale, dunque alla realtà attraverso il progressivo sfaldarsi del referente reale, ma anche una aggressione interna alla suddivisione in giorni il cui limite, superato e trasceso dal flusso inarrestabile, il quale cerca sempre di suturare e connettersi con ciò che avverrà dopo.

Cosa rimane, dunque, dopo questa aggressione? Cosa popola questa sopra-realtà? Questa dimensione è popolata da chi va e chi viene, da chi cerca di essere di aiuto, e da figure che si caratterizzano per il loro essere di passaggio, assieme alla loro impotenza che non sono nulla di diverso dai muri, dai corridoi dalle sedie.


I dottori, i visitatori, ecc… sono visti come puro arredamento, impotente e ornamentale, spettatori del dramma ospedaliero del quale sono troppo spesso anche inconsapevoli testimoni e per questo non hanno rilevanza figurale se non tramite i loro accessori, e infatti molto spesso noi intuiamo che vi sono questi fantasmi proprio dagli oggetti che si portano appresso: “e anche loro che arrivano, con l’amore / nelle borse, e le migliori intenzioni”.


Questa dimensione è popolata inizialmente dalle “voci”, perché : “quando parliamo / (o le sento sussurrare), / so che siamo ancora vive / che non ci siamo mosse di qui”. Le voci gridano, pregano, si disperano, parlano e facendo tutte queste cose, come si è visto, attestano il loro perdurare, il loro esserci, sullo sfondo della minaccia del “bianco” e del “buio”.


A una persona, una voce, privata ed estirpata dal suo contesto cosa rimane se non abbracciare l’ingenuità sana di una follia che, una volta familiarizzato col dramma trova persino il coraggio di ironizzarlo, quasi sbeffeggiarlo. Ironia che si rivela nella sua doppia veste di intima attestazione e partecipazione al dramma della “sopravvivenza guidata”, perché essa in ospedale, alla fine, è sempre in mani altrui.


È questo ciò che succede alla Campi e alle due amiche, compagne di viaggio (Gina e Maria). In mezzo a tutte le lacrime e le sofferenze ci si può ritagliare, anche solo per un momento un frangente di serenità, nonostante la tensione drammatica non ceda mai il passo. “La Gina cercava il sole / e controllava / come un capitano consumato / i movimento del vento”, oppure: “Il computer lo chiamavamo / bollettino dei morti / chi è morto oggi? Chiedeva Gina / io e Maria ridevamo e rideva anche lei / scampate al sospetto / della bruta follia / scampate di brutto alle glaciazioni / e forse non lo sapere, che Maria ha un dolore / sommesso, piegato, sotto il cuscino”.

Le voci sono, quasi sempre, quello che rimane di ogni paziente: perché l’ospedale sembra potersi prendere anche i sensi, distruggendo la percezione che le persone hanno di esso relegandole, inizialmente, a un “silenzio addormentato”, in un perpetuo torpore che dilaga dal corpo: “il torpore travalica il confine dei rumori / gli aghi nel braccio e le coperte di lana / il freddo disumano della stanza […]”; “oppure ci si trae in salvo con gli specchietti / ed è un sentirsi di nuovo le dita”, ma ogni apparenza di movimento conscio, o quasi, originato dalla volontà della poetessa, si rivela, in realtà, un’illusione della macchina misuratrice e monitorante ospedaliera, che delinea, oltre alle privazioni, sempre nuove prigionie “e invece: i movimenti sono della macchina / in sussulti, mentre dentro immobili, / sparsi, frantumanti nella memoria”.

Al culmine della sofferenza sopraggiunge il freddo, la solitudine provocata, forse, da chi è distante; allora il dilagare del bianco diventa quasi insopportabile e minaccioso, assieme alla tenebra crescente: “acquazzone d’amore materno al gelo / che aspetta l’apertura delle porte / seduta su sedia giocattolo / seduta, a far parole crociate / lontana nelle cavità nel freddo più / lontano delle notti d’inverno[…]” “amici miei, dove siete? (abbracciatemi) / qui è tutto bianco, e la notte non si rimargina / anzi si sbobina al buio che sta in basso e viene, su”.


La coscienza corporea che ognuno di noi normalmente possiede è anch’essa un abitudine e, all’interno dell’ospedale, la Campi ci mostra come, in realtà, essa sia un dono accertato attraverso le misurazioni con cui si attesta il grado di salute di un corpo; poiché alla fine è questo quello che importa ai medici, il corretto funzionamento del corpo in senso meccanico: “su gambe poco stabili / vanno via le teste / le linee della febbre / sotto le vesti nei vestiboli”.


Dopo la follia e la febbre, dunque, dopo che si è stati dilaniati dalla medicina, cominciano a ritornare frammenti di una vita precedente, di una tenerezza quasi dimenticata. Il caos si fa insopportabile perché insopportabile è il moto disgregatorio che ha contro l’io.


Quindi si cerca di ricomporre se stessi negoziando, con esso, le abitudini, nuove o passate: “briciole che passano / nei fiori e l’erbe / le panchine al sole / i passi per di là, accompagnati, mai stanchi / si fanno rotondi, si / fanno braccia accanto / che dicono ancora certe / ancora carezze/[…] una tregua che non basta / misurare il cuore misurare / il polmone misurare le valvole / con una tregua che non pasta” e poi, prima della fine “arrivano i baci del luglio incerto / delle macchine, dall’oceano / e arrivano le voci candela / il caos non fa più per noi / in certi momenti si pensa / solo al ritorno e quello che c’è / sono vacillamenti / sono muscoli che si allenano al bene / ci si slaccia dalla quiete / del libro in forma di nausea / per poi negoziare un’abitudine / all’ordinario disorientamento”.

Ma alla fine sembra che non si possa lasciare mai la claustrofobia disgregatrice dell’ospedale: “riferiti deficit neurologici transitori / oscillazioni della vigilanza / trascinamento bilaterale / diplopia, vertigine soggettiva / amnesia di fissazione / e tutto ritorna com’è / e tutto intorno s’aggira fino / ai prossimi giorni, ignoti”.

Martina Campi con il libro La Saggezza dei Corpi ci consegna un’esperienza non solo stilisticamente matura, ma di grande qualità, nel declinarsi delle sue varie particolarità tutte aperte. Questo libro infatti, come ogni esperienza che lascia un segno nell’esistenza della persona che l’ha scritto, necessita dunque di essere esplorato profondamente, affinché , di esso, si possa fruire ogni intimo moto e modificazione.


Un libro segnato dalla privazione, dalla violenza quasi paradossale che il contesto ospedaliero esercita sull’io, il quale si fa latente, nel momento in cui perde, sradicato da esso, il referente reale per pervenire inconsciamente a quella sopra-realtà in cui il caos, creato dall’imminenza della morte, dilaga e a cui si oppone, per un momento, una ironia folle e ingenua, di chi non ha alternative se non lasciare, nelle mani (impotenti) altrui, ciò che si ha di più prezioso: il proprio corpo, la salute e dunque sé stessi.


Perché alla fine la Saggezza dei Corpi, nella mia personale interpretazione, è proprio quella possibilità che noi, attraverso di essi, abbiamo di radicarci nel mondo.


 

Luca Cenacchi è nato a Forlì nel 1990. Nel 2011 la poesia Laocoonte – ovvero di se stesso è stata selezionata per essere pubblicata nell’antologia del Premio letterario Ottavio Nipoti - Ferrera Erbognone. Ha contribuito a fondare e sviluppare il forum letterario I Gladiatori della Penna. Nel 2015 I suoi testi inediti sono stati presentati nella serata Arcadie Invisibili all’interno del progetto La Bottega della Parola organizzata dallaAssociazione culturale Poliedrica di Forlì. Nel 2016 il blog letterario Kerberos ha scritto un articolo critico di alcune sue poesie inedite Valore-contenuto e valore-bellezza: il senso del sacro attraverso latrasfigurazione dell’immagine e la neutralità del messaggio. Nel mese di Aprile dello stesso anno tre sue poesie (La Perla, Anoressica e Francesca) sono state selezionate per essere inserite nella antologia La miasfida al male pubblicata a seguito della terza edizione del concorso letterario Come Farfalle Diventeremo Immensità, in memoria di Katia Zattoni e Guido Passini, indetto da Fara Editore. Aspirante critico letterario è ansioso di contribuire al dibattito sulla poesia contemporanea attraverso la rubrica critica Gli Specchi Critici realizzata in collaborazione con il blog Kerberosbookstore e Fara Poesia. Nel 2016 è giudice presso il concorso Faraexcelsoir 2016. Ha partecipato alla rassegna poetica di Pianetto “Poeti alla finestra” presentando una serie di poesie inedite. Per ulteriori informazioni sul progetto: glispecchicritici@gmail.com

 

Martina Campi è nata a Verona nel 1978. Vive a Bologna dove ha studiato e si è laureata in Scienze della Comunicazione. Vincitrice del Premio Renato Giorgi 2012 con Estrazioni del tempo (Edizioni Le Voci della Luna Poesia, 2012), è tra gli autori finalisti al Premio Lorenzo Montano 2014, con la raccolta inedita Manuale d’estinzione; figura tra i segnalati nel 2012 con la raccolta che compone questo libro: La saggezza dei corpi; al medesimo premio, e risulta menzione d’onore, l’anno successivo, con la raccolta Le metamorfosi della gioia, ora divenuta Cotone (Buonesiepi Libri 2014). Nel 2015 consegue il medesimo risultato con la silloge inedita Quasi radiante. Autrice e performer, fondatrice insieme al compositore e musicista Mario Sboarina, del progetto di musica e poesia Memorie dal SottoSuono, nel quale si fondono reading poetico, elettronica, jazz/ ambient, contaminazioni afro e accenni di musica popolare; del 2010 è l’uscita del cd Mani e qualcos’altro. Il progetto Memorie dal SottoSuono è oggi un vero e proprio collettivo di artisti di diversa formazione. Per dicembre 2015 è prevista l’uscita dell’omonimo album. Fa parte da tre anni del Comitato Bologna in Lettere (B.I.L.) È giurata per la sezione B del premio Giorgi 2015 e della sezione giovani 2013. Collabora con diverse realtà poetiche, tra cui Letteratura Necessaria e il festival multimediale di Letteratura Bologna in Lettere 2013,14,15. Nel 2014 entra a far parte della redazione della rivista Le Voci della Luna e collabora con la rivista online L’Antenna. Con il poeta Giampaolo De Pietro si occupa del progetto Il foglio d’aria. Fa parte del Censimento di Poeti di Pordenonlegge, oltre che del futuro Atlante dei poeti italiani contemporanei a cura dell’Università di Bologna(ancora work in progress). Partecipa a diversi festival e recital di poesia e/o musica in vaie parti d’Italia. Sito ufficiale.

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