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L'ultimo canto di Orfeo, di Mario Famularo - di Vittorio Cerruti


Questa poesia, facente parte della raccolta "L'Arco e la Lira", è, a parere dello scrivente, una delle più importanti non solo della raccolta, ma anche dell'intera produzione poetica.

Sostanzialmente questa poesia è riassuntiva della poetica di Famularo e permette di dare uno sguardo dettagliato a quelli che sono i temi e gli stilemi cari all'autore.

Cominciamo dunque:


Sacro l’insopportabile silenzio mai più l’onorerai nel tuo tormento, tutto intriso d’immagini fatali, di quel veleno bianco de’ ricordi; rapida la tua lira, e troppo inquieta, tratteggia quest’incanto disperato che l’arbusti già piega, aduna a te pur le feroci belve ammansuetite, tutte in balia del canto tuo, e mistero, del bello e delle note tue d’argento, magro pianto vestito di maestà.


Già in questi versi d'apertura troviamo elementi fondamentali, facili da rinvenire in molte altre poesie dell'autore: dapprima si può notare la cura ritmica e musicale, sempre ancillare a quanto la poesia man mano svela ed esprime; in particolare le consonanti dentali paiono "rodere i lor ossi vuotati di medulla". Il silenzio è definito tanto sacro quanto insopportabile e questa scelta è opportuno che sia sottolineata: il silenzio, l'assenza di suoni, viene presentato nella stessa doppia dimensione in cui l'autore tende a collocare il tema del Nulla, l'assenza per eccellenza.

Infatti la sacralità del silenzio esige la stessa riverenza che l'autore porge al quel vuoto che tutto divora ("Ruit hora" è non a caso una locuzione che l'autore ha in passato utilizzato), ma non si vuole negare l'oppressione insopportabile che in certi animi, se non in tutti, può sorgere dall'eccessiva contemplazione di ciò che non è. La poesia prosegue mostrando un'altra assenza:


Ed Euridice? Troppo doloroso t’è solo il pronunciar quel freddo nome, lo spettro suo che supplice sussurra ‘l nome tuo, tutto intriso di quel vuoto ch’avea agghiacciato intera la sua vita, già sostituisce dolci le memorie, sconfitte e trasparenti del passato un caro inganno, ch’invitto pur volevi, sacrandolo d’in sopra ‘l freddo tempo.

Un pathos intenso, che non scade nel patetismo, sottolineato dal contrasto tra il "suo" e il "tuo", la barriera che par dividere nettamente i vivi dai morti.

Anche il freddo è un elemento importante: freddo è il nome, freddo è il tempo, agghiacciata è la vita, gelo provocato dal vuoto lasciato da Euridice. Lasso Orfeo, t’illudevi, e discendendo le gole onde quell’anime perdute son dissolte, le vedi prese e accolte tutte nel dolce oblio senza eccezioni, l’ombra appena lasciando della gioia di quell’ormai corrotto crine aurato, eco magra del guardo un dì vivace, che tanto ingenuo all’Ade hai chiesto indietro.


E come prima il silenzio era "sacro" e "insopportabile", così ora abbiamo un oblio dolce e una gioia di cui rimane appena l'ombra e un crine, quello di Euridice, ormai corrotto dalla morte.

Si noti il parallelismo tra l'ombra delle gioia e la magra eco dello sguardo vivace in vita.


Troppo tardi t’accorgi del tuo errore, l’amata tua è perduta, e quel che cerchi non è di quel fantasma più l’essenza, quel che demandi ormai è svanito e vinto; vuoi forse condannare a tanta pena, pietoso quell’inganno prolungando di ghermire quel gelo invitto e fero, la dolce amata, sol pel tuo capriccio? Certo non puoi, e lento volgi indietro tristissimo ‘l tuo guardo lacrimoso, quando appena, percorsi fino all’uscio del limitar d’Averno i bui sentieri, l’occhi incavati e spenti d’Euridice ti supplican preghiere d’oltretomba, e ‘l ricordo d’un macabro perdono, che sembra dirti: “Grazie, amor: mai più.” Mai più l’abbraccerai quel suo fiorito tepore confortevole del petto, la passione del caldo lagrimare, mai più ‘l conforto avrai dei baci suoi.


La parte centrale della lirica, nonché il suo cuore pulsante. Cosa cercava Orfeo presso i morti? Non l'essenza del fantasma/Euridice, come bene spiega l'autore, ma un'idea che non c'è più, un sogno "svanito e vinto".

Nuovamente il freddo penetra questi versi, non senza condurre con sé la disperazione consapevole del voltarsi di Orfeo, gesto la cui portata è chiara anche all'ombra di Euridice, che pare ringraziarlo. "Mai più": per tre volte questa formula si ripete, sancendo definitivamente la perdita.

Tetro l’insopportabile silenzio l’assali, con la pregna frenesia delle note argentine e disperate di quella lira, le cui corde tese, folli e incapaci additano l’empireo.


Ancora il silenzio, ancora insopportabile, tanto che si parla di assalirlo.

Come viene condotto l'assalto? Con le armi del poeta, con le "note argentine e disperate della lira", arma però "le cui corde tese, folli e incapaci additano l'empireo". La rovina di Orfeo viene quasi preannunciata.

Così tutto il crëato incanti e muovi, fiducioso che il Dio ti vinca e anneghi, dimenticanza eterna concedendo. Rapida ti travolge, ed improvvisa, la furia delle Menadi, impazzite dell’ebbrezza insensata che l’Olimpo sa ben piegar mutandola in destino: ecco che alfin violenta tanta quiete frantuma il tuo dolore disgraziato, lacerando del corpo tuo le carni, per poi gettar le spoglie, e la tua lira, via nell’acqua dell’Èvros furibondo.


Si noti il fatto che l'Ade è meno fosco della scena della morte di Orfeo, con quell'Evros più fatale del Lete, si noti anche la sensazione melanconica della gestualità di Orfeo che viene trattata in modo indiretto (si torni all'estratto precedente), dando al lettore un senso di smarrimento innanzi ad una scena cruda.


Perduto il guardo va, verso il prescritto Lete inferno, dall’acque infauste ai vivi, sullo strumento, caro a que’ tuoi giorni, dove ora posa il capo mozzo e inerte, quel canto destinato a soffocare nell’estremo silenzio, il sol ricordo lasciando ai vivi, fragile e mortale, divino di quel suono oggi remoto, le corde tenue tomba della voce eco lontana, retaggio pei viventi che dolce quest’ambrosia non è eterna. Molle resta quel dono, triste avello dell’uomo che fu noto come Orfeo: quella lira, ch’il mondo stringe e muove, fino agli spalti azzurri dei misteri divi, che indifferenti stanno altrove, sa pur lanciar minacce agl’immortali: forse è umano quel braccio che le scaglia, ma più fatale è il dardo e pertinace, canto che forse i secoli avran vinto, che il nulla forse annega nel suo lento annichilire, ma certo forza estrema che dalle spoglie l’uomo consumato fin sull’eterno spinge e quasi avvince.


Spesso l'autore dà luogo a lunghe chiuse che accompagnano fino alla fine il lettore e questa poesia non fa eccezione: se concisa è stata la descrizione della morte di Orfeo, più ampie sono le riflessioni che ne conseguono.

In particolare, e anche questo è un tema centrale nella poetica di Famularo, l'uomo viene presentato sì sconfitto, ma non debole: come un leone ferito, è ancora in grado di ferire con i suoi morsi, così l'uomo è ancora in grado di agire, attraverso quella lira che già l'autore ci presentò più come un'arma che come un semplice strumento.


Arma che Famularo ha dimostrato egregiamente di saper usare.

Vittorio Cerruti

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