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"Solo la poesia può recuperare l'uomo" - Riflessione sulla poetica di Giuseppe Ungaret

Dal Novecento italiano è uscita una poesia di ombre, rannicchiata tra il muschio vagamente sfacciato che popola, da solo, l'anfratto delle singole rocce. In queste ombre si ravvisano le tracce di Giuseppe Ungaretti; un uomo - prima di essere poeta - che sembra aver esteso la sua umanità a macchia d'olio sopra un globo di letteratura.


Ma si tratta solo di tracce: per poter anche solo scorgere il corpo che lasciò queste impronte occorre affacciarsi dal proprio angolo d'ombra per vivere una realtà di luce.


La poesia di Ungaretti infatti si dona alla terra come un raggio solare, un fascio di umanità che crea ombre solo per chi pretende di ingabbiarne la portata sotto la propria roccia. Il mistero invece non ha confini e si esprime in una poesia veramente umana, un raggio nuovo, senza le forti influenze del dannunzianesimo, dell'accademia carducciana o della maniera pascoliana; tutte tanto lontane da un uomo che vive la nativa ottica del deserto. Si tratta di un raggio, dopo altri del passato, dipartito dalla sfera solare per un misterioso dettato interiore.


Una poesia dunque più che mai verticale, ma nel contempo in grado di esaltare il legame tra i piani della stessa verticalità, che è tutta un rapporto tra questi, dal mistero trascendente a quello immanente del porto sepolto ("Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde"), per poi tornare sulla terra e donarsi al mondo.


Non si tratta allora di una ricaduta completamente personale del mistero, non di una pesante ombra, ma di un sorriso missionario in quello che Ungaretti chiamava "un secolo di missione religiosa".


I giorni e le notti

suonano

in questi miei nervi

di arpa


vivo di questa gioia

malata di universo

e soffro

di non saperla

accendere

nelle mie

parole


Poesia (Sagrado il 28 novembre 1916) da Poesie disperse


Per il missionario la poesia è un mezzo privilegiato perché fonte ispiratrice di un profondo impegno con la vita, proprio grazie al suo coraggioso e amorevole tentativo di esprimersi a pieno, pronta quasi a soffrire col suo poeta, lasciando anche solo "quel nulla / d'inesauribile segreto". Così si giustifica l'insistenza con cui Ungaretti, attraverso la valorizzazione anche analitica della parola, riprende il tema apparentemente autoreferenziale del proprio mestiere, più ancora che di poeta quello di uomo - pertanto impegnato a coltivare la propria umanità.


Le gioie della poesia ungarettiana convivono allora con le sofferenze ("E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto!... "), e nel rapporto con queste aumenta in Ungaretti il suo essere "tanto / attaccato alla vita" - disperatamente amata, come la sua patria, in un rapporto con l'esistere che è quasi una relazione primitiva di attaccamento alla terra, alle ricercate fondamenta edeniche. Esprime infatti il desiderio di "udire nelle sue povere parole tornata nel mondo la voce di quella grazia", quasi a risanare quella frattura col divino che Ungaretti esperì ancora aperta nelle atrocità permesse e perpetrate dall'uomo in guerra. Si afferma dunque come patriota della vita, difensore di un'umanità attiva, che descrive con gli imperativi di "amare molto, anche errare, molto soffrire e non odiare mai".


L'uomo e il poeta si intrecciano fino ad identificarsi totalmente. Ed è, in effetti, proprio l'espressione poetica, quella che lo mette davanti a grandi difficoltà "esigendo d'essere posta in grado di corrispondere integralmente alla sua vita d'uomo", ad assumere un valore di salvezza per chi ne riceve il dono, tanto per ispirazione quanto per la scoperta che fa il lettore dell'altro da sé e - intimamente - di sé nell'altro.


Ogni colore si espande e si adagia

negli altri colori


Per essere più solo se lo guardi


Tappeto da L'Allegria (Ultime)


La dimensione umana della poesia ungarettiana è allo stesso tempo singolare e collettiva; è simile ad un tappeto variopinto che valorizza universalmente la composizione (come l'uniforme dei soldati compagni di Ungaretti al fronte durante la Grande Guerra, "fratelli"), quanto la particolare sfumatura di colore. In questa doppia focalizzazione si può ancora vedere la forza penetrante del metaforico raggio poetico, in grado di far luce sulle profondità comuni e dunque umane dell'essere singolo, senza che questi perda la sua particolarità, anzi, permettendogli di esaltarla in una realtà di comune silenzio e d'immenso ascolto.

Per questo è essenziale - scarnificato e indispensabile scheletro del vivere pieno - la straordinaria verticalità, la brevità pregnante che sgorga tanto dalla contingenza bellica quanto da una richiesta esistenziale di innocenza che mostri "danzando il grido d'un'anima".


Chiuso fra cose mortali


(Anche il cielo stellato finirà)


Perché bramo Dio?


Dannazione (Mariano il 29 giugno 1916) da L'Allegria (Il Porto Sepolto)



Questa discesa nel profondo rivela come il mistero sia presente come fondamento dentro di noi, in una parte segreta e inesprimibile, sepolta da quanto seguì la degenerazione umana nell'Eden. Per questa realtà primaria eppure inafferrabile non stupisce che Ungaretti parli di un mistero immisurabile finendo per affermare la presenza di un'altrettanto misteriosa misura, la parola. Tuttavia, pur nella definizione della "misura", Ungaretti non parla di "misura del mistero"; gli preme invece sottolineare come la parola, nel suo essere "misura", sia opposta al mistero, eppure anche la sua "manifestazione più alta".


Non c'è contraddizione in questa affermazione di "poetica della parola". Infatti "l'uomo di pena" riconosce i propri limiti e valorizza lo sforzo, quindi premia la parola perché in essa identifica il proprio tentativo di dare una misura, di essere una misura; in essa vede il proprio sofferto percorso di ricostruzione, immerso dentro uno straziante e magnifico sentimento barocco del perdersi che Ungaretti premette al Sentimento del Tempo.


Uomo che speri senza pace, Stanca ombra nella luce polverosa, L'ultimo caldo se ne andrà a momenti E vagherai indistinto...


Ombra (1927) da Sentimento del Tempo (Sogni e accordi)


La parola è dunque, intesa come rapporto, l'essenza stessa della verticalità nella ricerca di una piena conoscenza dei piani, anche se questi verranno sempre mancati, spesso per poco, a causa dell'impotenza del mezzo, incapace di "dare il segreto che è in noi"; la speranza di cui si carica la poesia ungarettiana (e quindi la "vita d'un uomo") sta nella sua possibilità di avvicinarlo.


Da qui la necessità anche di parole-verso o che comunque, all'interno del verso, possano risultare quasi isolate, perché risuonino nel silenzio desertico della memoria di Ungaretti, all'interno di quello che lui stesso definisce il "segreto dell'anima", per "ricolmarsi di silenzio".


In questo modo risulta esaltato il valore principe della parola: quello di designare. Non spodesta quindi la realtà, sopraffacendola in qualità o quantità; Ungaretti parte sempre da un appassionato sguardo al mondo. Col suo senso semplicemente adamitico, la parola si accompagna al reale, rivelando quanto sia naturale la componente del mistero all'interno della connessione che in essa trova esplicazione, tra l'esigenza profonda - umana - del nome e i suggerimenti che la realtà stessa sembra offrire all'uomo.

Questa componente si palesa nell'inadeguatezza del mezzo, che comunque rivela un "valore sacro". La parola si manifesta davvero come misura, perché desiderosa di nominare, e opposta al mistero, perché impotente e nonostante ciò sua intima amica. Infatti, quando risuona nel "segreto dell'anima", rivive l'esperienza dell'originaria purezza e si carica di un silenzio ricco di consapevolezze, prima fra tutte quella che "il mistero c'è, è in noi. Basta non dimenticarcene".


Quale canto s'è levato stanotte

che intesse

di cristallina eco del cuore

le stelle


Quale festa sorgiva

di cuore a nozze


Sono stato

uno stagno di buio


Ora mordo

come un bambino la mammella

lo spazio


Ora sono ubriaco

d'universo


La notte bella (Devetachi il 24 agosto 1916) da L'Allegria (Il Porto Sepolto)


Se è perciò vero che la poesia ungarettiana nasce da un rapporto tra i piani, frutto di studio e di una fatica per la quale Ungaretti non manca di sottolineare l'importanza di un umano sostegno reciproco ("Lontano lontano / come un cieco / m'hanno portato per mano"), primario tra i rapporti è quello dell'inspiegabile illuminazione, base ispiratrice. Riconosciuto il miracolo della rivelazione ("M'illumino / d'immenso"), è chiaro come il movimento verticale per piani necessiti di esprimersi liberamente secondo l'istinto illuminato; da questo si capisce il motivo per cui Ungaretti privilegia il mezzo poetico per la sua missione religiosa, ossia di salvataggio del mistero sepolto nell'uomo, perché "solo nella libertà è poesia" e dunque "la poesia sola può recuperare l'uomo".


Questa è la condizione per mettere effettivamente in moto l'animo missionario di un uomo che svolge il proprio compito, volto a divulgare la meraviglia. Perciò il poeta riconosce il proprio fine nel suscitare meraviglia; ma può ammetterlo solo nella prospettiva di un compito umano che, in quanto tale, afferma il mistero. Infatti la meraviglia porta con sé accenti "caldi di promessa umana", invitando ad un nuovo sguardo appassionato in chi è suscitata, e dunque all'indagine e alla divulgazione, al dono di sé. In questo senso si coglie e si compie il mistero, avvicinando l'eternità.


Tra un fiore colto e l'altro donato

l'inesprimibile nulla


Eterno da L'Allegria (Ultime)


Forse già da questa primissima poesia dell'Allegria, premessa fondamentale alla Vita d'un uomo, si può parlare dei primi accenti di ermetismo.


L'aggettivo "inesprimibile" è in diretto collegamento con il titolo ("Eterno") e con il "nulla" seguente. Si tratta di tre parole che avvicinano il mistero, il segreto che, secondo Ungaretti, la poesia deve sempre portare. Questo avvicinamento avviene però in modi diversi, attraverso tre parole che esemplificano il ruolo dei piani nella poesia ungarettiana: il punto di vista del "porto sepolto" della nostra umanità è la parola del limite, "inesprimibile"; "eterno" è l'espressione della pienezza autocosciente possibile solo al mistero stesso; infine il "nulla" è la parola-tentazione della materialità, in mezzo tra gli altri due piani. La scelta di concludere la poesia con l'avvicinamento più terreno al mistero è anche una scelta di universalità; l'Ungaretti missionario infatti vuole approssimarsi ad un atteggiamento ciecamente razionale per parlare ad ogni uomo, prima ancora che questi indaghi nel proprio io.


Allo stesso tempo però, il poeta mostra, con le sue scelte lessicali, come la chiusura ermetica ad una decifrazione razionale del significato riguardi paradossalmente quanto di più concreto è nel testo, il "fiore". Gli altri nomi si dimostrano aperture immediatamente coglibili dal lettore in quanto uomo - perché implicazioni fondamentali dell'io.


Viene da domandarsi se si tratti davvero di due distinti fiori o piuttosto di una maturata consapevolezza sullo stesso che porta alla sua designazione come "altro"; altro da sé, ma anche "altro" perché intimamente è del nesso primario e ultimo con l'"altro" che si ha coscienza nella propria personalità esplorata.


In ogni caso, il "fiore" rimane il valore segreto; valore reale, della realtà materiale a cui Ungaretti è fedele, dunque della vita; una che viene afferrata nella ricerca di senso e donata appunto - in generale - alla stessa ricerca, al mistero stesso, come un fiore, esplicando l'intera esistenza veramente umana. Ed è proprio attraverso l'umano che la poesia riesce - nel suo miracolo - a dare "nozione di Dio", terrorizzata ("il mio povero cuore / sbigottito / di non sapere") ma sempre aperta con speranza al mistero.


D'altri diluvi una colomba ascolto


Una colomba (1925) da Sentimento del tempo (La fine di Crono)


Dylan Ruta

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