top of page

Leos Carax - Holy Motors: il senso dell'arte e dell'artista nel terzo millennio - di Andrea

“Un film dovrebbe avere un inizio, un centro e una fine, ma non necessariamente in quest’ordine”, sosteneva il regista Jean-Luc Godard. Leos Carax non ha fatto soltanto propria questa definizione, l’ha estremizzata: Holy Motors infatti non ha né inizio, né centro, né fine. È solo un pezzo del tutto, un segmento di una retta, la vita di un uomo.


La prima cosa che il lettore sprovveduto potrebbe dire di quest’opera è che non ha trama. Che è un film sul nulla, che non significa nulla. Che c’è bisogno di molto più di un semplice collage illogico di situazioni, che il suo occhio bisogno di un filo conduttore, di una mano che lo accompagni, di una storia. Ma sbaglierebbe il colpo di parecchi metri.


Sì, abbiamo detto “lettore”, non a caso, perché Holy Motors non è solo un film, è soprattutto un’opera d’arte, un romanzo, un poema. Come tale mescola un’infinità di elementi, di cui la storia è solo un singolo elemento, non il più importante di essi. Ecco perché il lettore sprovveduto, abituato a individuare e preferire solo alcuni di questi elementi, tralasciando la complessità del tutto, sbaglierebbe a fare tali considerazioni.

Un romanzo, si è detto. Probabilmente Carax aveva ben presente l’Ulisse di Joyce, perché Holy Motors ha molto in comune con esso: entrambi sono la storia di una singola giornata, che è vissuta dai protagonisti come un susseguirsi di incontri ed eventi apparentemente casuali nel ristretto ambito della dimensione urbana (Dublino da un lato, Parigi dall’altro). Qui finiscono le somiglianze strutturali da cui entrambe le opere prendono le mosse: i protagonisti dell’Ulisse sono tre, quello di Holy Motors uno solo; le ragioni di questo vagabondare nell’Ulisse semplicemente non esistono, in Holy Motors sono ben precise: un uomo, Oscar (il meraviglioso Denis Lavant), si scopre essere un attore, incaricato da una misteriosa compagnia di svolgere quotidianamente un numero di “appuntamenti”, performance attoriali dalle nature più disparate, decretando così una struttura ad accumulo di scene separate, come i canti di un poema. Così Oscar, accompagnato dall’autista Céline in limousine bianca, veste panni sempre nuovi, e passando per mendicante, mafioso, mostro, amante padre, banchiere, tira a fine giornata. Anche in Holy Motors è all’opera il metodo mitico, ai fini dell’universalità dell’agire stesso: come Harlod Bloom nell’Ulisse, Oscar vive quotidianamente un’Odissea. Ma se questa per Joyce rappresenta il naufragio (e senza Dante non avrebbe potuto essere tale) della società contemporanea, dove è essa la parte attiva, a costituire un mosaico frammentario di coscienze per un protagonista perennemente passivo, per Carax l’Odissea di Oscar è la somma espressione dell’attivo, di un uomo che personalmente decide di muoversi e assumere le maschere con cui si presenta ad un mondo che è passivo, stavolta. E proprio in questo risiede il centro di buona parte delle riflessioni a cui il regista ci sottopone: le performance attoriali di Oscar sono senza pubblico, completamente gratuite (non in senso monetario) e completamente silenziose. Non c’è nessuno a guardarlo, nessuno che si interessi di lui, nessuno che sappia veramente che Oscar è un attore. E all’interno di questo mondo cieco, passivo e disinteressato all’arte, si inseriscono le tre tematiche fondamentali dell’opera: la nostalgia, l’artista e la morte.


I. La nostalgia


- Mi mancano le telecamere. Un tempo pesavano più di noi, poi sono diventate più piccole delle nostre teste, e adesso non si vedono più. Così anch'io trovo difficile credere in tutto questo.

- Questa nostalgia non è un tantino sentimentale?

- Sentimentale?

- I criminali non hanno certo bisogno di vedere le telecamere di sorveglianza per credere in loro


Così recita parte del dialogo centrale (in tutti i sensi, vista la sua posizione mediana nel film) tra Oscar e un uomo che si rivela parte della misteriosa compagnia che ha assunto l’attore per le sue performance. Le parole dell’uomo (sibilline, dal momento che l’appuntamento immediatamente precedente e quello immediatamente successivo prevedono proprio la parte del criminale) sono un monumento alla nostalgia di Carax stesso per il vecchio modo di fare cinema: le telecamere, il montaggio con forbici e colla, il pubblico, lo scroscio di applausi, gli occhi che si commuovono, le labbra che si indignano. La tecnologia digitale (e non a caso uno degli appuntamenti di Oscar lo vede proprio come attore in uno studio digitale in motion capture) ha distrutto il vecchio fascino del fare cinema, che ora è soltanto una gara a chi è più bravo con i computer (sottile critica al filone spettacolarizzato e pesantemente artefatto di un Michael Bay o di un James Cameron?); il generalizzato disinteresse del mondo per l’arte ha fatto il resto.


Eppure Carax ha spesso ribadito di non essere “contro il mondo virtuale e la realtà digitale; è anzi affascinante, ma non mi piace il modo con cui ce lo stanno imponendo”. La critica del regista va dunque tutta all’eccesso, pur sapendo perfettamente che non si può bloccare il progresso del mondo. Dello stesso tenore è la riflessione sul disinteressarsi della società nei confronti dell’arte e il suo disamore verso la figura un tempo acclamata dell’artista. I palcoscenici, gli applausi, le quinte: riguardano tanto l’uno quanto l’altro argomento, tanto il declino del vecchio modo di fare arte quanto quello dell’artista come figura dotata di un carattere proprio nel mondo. E questo ci porta alla seconda tematica.


II. L’artista


- Cosa ti fa andare avanti, Oscar?

- Continuo come ho cominciato: per la bellezza del gesto.

- La bellezza... si dice che sia nell'occhio. La bellezza è nell'occhio di chi guarda.

- E se non c'è più nessuno a guardare?


Parole terribili per l’orecchio di quello che Pound definirebbe artista serio, parole capaci di fondere il cervello al solo ragionarci, di una portata così universale e profondamente artistica da rimanere paralizzati. In queste parole, che meriterebbero una trattazione a parte, sta tutto il complesso di dubbi e nuove certezze dell’arte nel terzo millennio, tra cui spicca la profonda consapevolezza dell’inutilità dell’arte stessa. L’arte si realizza per la bellezza del gesto, e per nient’altro: l'arte non chiede mai a nessuno di far nulla, di pensare nulla, di essere nulla. Esiste come l'albero esiste, si può ammirare, si può sedere alla sua ombra, si possono spiccarne dei frutti, si può tagliarne la legna da ardere, si può fare assolutamente tutto ciò che si desidera. Ma siamo ben lontani dall’affermazione di assoluta libertà dell’arte formulata da Pound: di questa affermazione è rimasta soltanto la parte che recita “l'arte non chiede mai a nessuno di far nulla, di pensare nulla, di essere nulla”, il binomio arte-nulla. Sempre secondo Pound la Bellezza dell’arte ha un suo fondamento indipendentemente da tutto il resto, e trascende la contingenza della realtà per farsi concetto e coscienza comune (il desiderio spesso va oltre la capacità di una compiaciuta rappresentazione), mentre Carax afferma sofisticamente che la bellezza è relativa ed esiste solo se chi ne usufruisce lo sostiene, cessando di esistere non appena si smette di considerarla. E se dunque un tempo aveva senso creare arte per la bellezza stessa del gesto, visto che c’era un pubblico disposto (non capace) ad usufruirne, perché c’era qualcuno a guardare, ormai che più nessuno ha desiderio di avvicinarsi all’arte tanto da disconoscerla, il senso è sparito: e questo da solo sarebbe capace di annichilire qualsiasi artista. Nulla, nell’arte, avrebbe più senso, né l’arte stessa né la figura dell’artista che produce arte. Chi è anzi l’artista? Qualcuno che porta avanti stoicamente la propria intenzione di rendere omaggio all’arte ponendo quotidianamente il proprio dono su un altare senza fedeli? Qualcuno che vive di insensatezze, di azioni che non hanno alcun valore se non per chi le compie, un uomo condannato ad abbracciare una routine che nella stanca ripetitività trova la propria morte? Un dannato da girone dantesco, in ultima analisi, un Sisifo camusiano, un eroe dell’insensatezza, un Ulisse che si imbarca in un’impresa durata una vita unicamente per la propria curiosità personale. Ecco forse allora il trait d’union con l’insensatezza del girovagare in Joyce: da punti di partenza comuni si dipanano strade completamente differenti, eppure terminanti in un’unica terribile fine. La tragicità dell’esistenza, il dramma di un’arte che si scontra col muro della passività, che capisce di non servire più a nulla e a nessuno e che eppure continua a perpetrarsi caparbiamente: il prezzo da pagare è la sanità dell’artista, di cui l’arte si nutre come una natura schopenhaueriana.


Nella riflessione di Carax, l’artista è tale se egoisticamente e insensatamente egli stesso si considera artista, senza tener conto del pubblico. Viene naturale a questo punto un confronto con la riflessione di Peter Weir nel Truman Show e la storia di Truman Burbank, attore protagonista, a sua insaputa, di uno show televisivo mondialeche riprende la sua vita 24/24h: l’artista è quello che il pubblico considera tale, anche a insaputa dell’artista stesso. Col Truman Show ci troviamo all’esatto opposto di Holy Motors, pur partendo dalla stessa considerazione artistica (la bellezza dell’arte esiste soltanto in base al soggetto): qui è tutto il mondo a guardare Truman, ma sia lui che Oscar sono soli. Solo contro il mondo, solo con se stesso fuori dal mondo. Ed è paradossale che Oscar debba rendersene conto in un contesto reale, in una città moderna come Parigi, mentre Truman possa farlo soltanto in una realtà artificiale, in una città costruita ad hoc per lui soltanto. Ritorna ancora il tema dell’artificiale, a cui si aggiunge una perenne confusione tra realtà e finzione propria dell’esistenza dell’artista (sottolineato in extremis anche dalla figura di Céline, l’autista, che, scendendo dall’auto nell’ultima scena, si pone in viso una maschera: uno splendido parallelo con Oscar, se stesso nella limousine e maschera al di fuori). Uno degli ultimi appuntamenti di Oscar è eloquente a riguardo: si trova per caso insieme ad un’altra collega (Kylie Minogue) e quello che portano in scena - un intermezzo cantato sul tetto di un palazzo parigino, in attesa che arrivi l’amante di lei, hostess nel suo ultimo giorno di vita - non si riesce a comprendere se sia reale o finto. Ironicamente, la canzone di Kylie Minogue recita: “Chi eravamo? Quando noi eravamo, chi eravamo?”


Una possibile soluzione a questo inganno esistenziale è presentata da uno dei primi appuntamenti di Oscar, la scena con Monsieur Merde (personaggio già presentato da Carax in uno dei tre cortometraggi di Tokyo!): Merde è un uomo deforme e grottesco, al limite della mostruosità, con comportamenti a dir poco disturbanti; durante la sua follia cittadina, si ritrova nel cimitero di Parigi, dove si tiene un set fotografico con protagonisti un eccentrico fotografo americano e la sua insofferente modella (Eva Mendes): Merde irrompe e rapisce la modella, portandola nel suo rifugio tra le fogne di Parigi, sotto terra. La scena è da leggere, io penso, allegoricamente, come un tentativo fallito di superamento del pantano artistico in cui Oscar si ritrova invischiato: Merde è la rappresentazione della follia, il fotografo dell’artista degenerato e la modella è l’oggetto dell’arte; la follia dunque viene presentata come l’unica in grado di strappare l’arte dal suo luogo di morte (il cimitero, non a caso, imbalsamata dal vuoto artista), ma senza successo. La catabasi di Merde nel suo regno sotterraneo è la sconfitta del tentativo di revitalizzare l’arte (coronato, come se non bastasse, al termine della scena, dal velamento della modella da parte di Merde): l’arte viene portata via dal suo luogo di morte, celebrata da un artista degenerato, per finire in un altro luogo di morte, de-celebrata dalla follia, dall’insensatezza. Ancora una volta la mancanza di senso nell’arte.


L’unica soluzione possibile a questo impasse, laddove sembra non esserci più senso, è il sovvertimento totale del senso stesso e della realtà che lo reca: in altre parole, il surrealismo. A più riprese il film appare chiaramente inserito nella migliore tradizione surrealista, con una tecnica cinematografica che procede per scene apparentemente insensate e fatte di contraddizioni e sovvertimenti della realtà come ne Il fantasma della Libertà di Luis Buñuel, caposaldo del cinema surrealista. Ma è nell’ultima scena di Oscar (prima di quella finale del film) che questa soluzione si esplica al meglio: una scena stavolta davvero completamente senza senso, in cui Oscar recita la parte di un padre la cui famiglia è costituita da scimmie (forse l’eco della tradizione di critica alla borghesia tipica del surrealismo è ancora all’opera qui). Se però il surrealismo di Buñuel era un modo per approcciarsi e intendere la realtà, quello di Carax è un chiaro riconoscimento della sconfitta davanti ad essa: non ci si approccia nemmeno, ormai ne è uscito sconfitto; Oscar si dissolve nel non senso e nel dissenso, sovvertendo completamente la realtà. L’artista getta la spugna.


III. La morte


Non ci si sente sempre meglio prima della fine?

Niente ci rende così vivi come vedere gli altri morire, è la solenne sensazione della vita stessa: il sentimento che tutto continuerà ancora.


Quasi ogni scena di Holy Motors si conclude con la morte, persino l’unica non riguardante strettamente Oscar (l’hostess Kylie Minogue). In realtà i primi due appuntamenti (la vecchia mendicante e l’attore digitale) sfuggono apparentemente a questa costante, ma a considerare meglio le scene, anch’esse sottostanno alla legge: la mendicante è ormai più che vecchia, decrepita, e nemmeno le guardie del corpo affidatele possono proteggerla dalla morte che incomberà a breve (“sono così vecchia… ho paura che non morirò mai”); l’attore invece muore metaforicamente nell’atto del trasformarsi in figura computerizzata, cessa di esistere come essere umano e come attore, diventando una irrealtà virtuale. Ma parentesi speculative a parte, c’è da interrogarsi sul perché di questa costante. La spiegazione forse è contenuta nella scena del ricco anziano in punto di morte (le cui parole sono riportate sopra in corsivo): la prima frase rivela un sentimento egoistico da parte di Oscar, che interpreta sempre parti che si concludono con la morte unicamente per sentirsi meglio, per cercare di rendere più reale tutto quello che sta vivendo (“così anch’io trovo difficile credere a tutto questo”), per cercare di superare il vortice di realtà e finzione in cui si trova a vivere. La seconda frase invece rivela un’altra ragione, altruista e in qualche modo civile, che un tempo era propria dell’artista: se è vero che niente ci rende così vivi come vedere gli altri morire, dunque il pubblico raggiunge una sorta di catarsi nel momento in cui vede Oscar morire nelle sue parti. L’attore permette allo spettatore di sentirsi vivo, reale: ma il pubblico non c’è. Ecco che dunque questa ragione perde di senso, e si riduce all’unica ragione egoistica dell’artista che agisce “per la bellezza del gesto”. Si ritorna nella spirale.


Ma ancora non abbiamo parlato del titolo, del principio. In piena tradizione godardiana, lo faremo trattando del finale: la macchina artistica (l’automobile) fa ritorno, insieme alle altre che quotidianamente portano con sé i colleghi di Oscar, al suo luogo naturale, il luogo dove sono le Holy Motors, le telecamere, le sacre macchine del cinema; ma lo fa senza l’attore, che è rimasto fuori per il suo ultimo appuntamento: ancora una volta si perde il senso dell’arte, il senso di ritornare al luogo di origine dove l’arte viene prodotta, ma senza il motore propulsivo dell’arte stessa, l’artista. Il leitmotiv martellante dell’opera viene ribadito fino alla fine, fino alla morte delle luci da un surrealistico dialogo tra le limousine, che appare più che altro una nenia funebre per l’arte, con tanto di amen a sigillo:


“Stiamo diventando inadeguati Gli uomini non vogliono più macchine appariscenti. Non vogliono più motori, niente più azione. Noi non serviamo più.

Amen. Amen. Amen.”


Tante parole per un qualcosa che va oltre la propria natura originale di film e diventa opera universale della miglior letteratura. Tanto ancora ci sarebbe da dire, col rischio però di rovinare la magia del mistero visivo e poetico realizzata dall’abilissimo Leos Carax, rischio che già qui si è corso in lungo e in largo: non andiamo perciò oltre. D’altronde Carax stesso affermò: “Gli uomini parlano di arte, gli artisti fanno arte, ma gli artisti dovrebbero parlare?”.


Andrea Peverelli

 Ricerca per Tag 
Non ci sono ancora tag.
bottom of page