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Il bello della filosofia - di Gianluigi Scaringella

Premessa


Perché qualcosa esista oggettivamente viene da pensare che necessariamente debba essere ricercato da tutti nella stessa maniera, con gli stessi criteri; ma il fenomeno antropologico del bello porta a dubitare che nella storia ciò sia accaduto. La riflessione si fa più profonda, e probabilmente necessaria, quando ci si interroga se almeno venga percepita da tutti alla stessa maniera.


Il fenomeno linguistico-antropologico del bello


Il bello come lo intendiamo noi oggi non è sempre esistito. Anzi, a dire il vero, neanche la parola “bello” esiste da sempre, ma fa parte di quelle parole che nacquero in un particolare periodo della nostra storia: lo scolasticismo medievale. In Inghilterra, ad esempio, il concetto di bello arriva solo con la francofonia normanna. Prima d’allora per gli inglesi una donna era pretty, cioè carina, ed un uomo handsome, in un certo modo grintoso. Soltanto poi è stato loro possibile definire qualcosa beautiful, cioè pieno di una categoria estranea alle definizioni comuni. Nello spagnolo, che è una lingua ancora fortemente influenzata dal latino, una ragazza è linda; un ragazzo hermoso (lat. formosus). Nello stesso latino una ragazza è pulchra, o pulcherrima, ma è una definizione che non ha niente a che fare col concetto di bellezza, bensì con la naturalezza o la grazia. Non a caso per alcuni il concetto di bellezza divina non è altro che una distorsione di un concetto di S. Agostino, che infatti parla di “pulchritudo Dei”, di grazia divina, non di bellezza. In verità il Dio bello lo hanno inventato i francesi nel XIII secolo, quando dai viaggi al tempo delle crociate trassero dai Greci nuove ambizioni per un’architettura dagli intenti inizialmente più neoclassici che gotici. Simbolo di queste intenzioni è “le beau Dieu”, il Dio bello, una scultura adornante il portale destro della cattedrale di Notre-Dàme d’Armiens, in Francia. In quegli stessi anni però va sviluppandosi in Italia una tendenza opposta a quella francese che trova in Cimabue un primo fautore e poi pieno compimento in Giotto. Perché la nascita di un movimento così opposto all’influenza d’oltralpe? Innanzitutto una prima causa è rintracciabile nel fatto che il Tirreno aveva una tradizione espressionistica dal tempo degli Etruschi, praticamente da sempre; la seconda è dovuta alle continue lotte alle eresie che caratterizzarono il secolo; una su tutte, quelle contro i Catari e contro la loro visione di un mondo terreno (potere temporale e spirituale inclusi) radicalmente negativo. Immonda era ritenuta perfino la procreazione, donde la perfezione stava nell’annullamento. Semplicemente le arti recepirono il messaggio e quindi si scoprì il lato positivo anche della morte e della bruttezza. Queste sono le due tendenze che, pur se così opposte, sono protagoniste del dibattito estetico fino ai nostri giorni, tant’è che risulta sempre individuabile una tendenza all’ideale piuttosto che al realismo (o viceversa) nel corso della storia; e il loro alternarsi è sempre influenzato dalla cultura o dai bisogni della società in cui agiscono. Oltre che il fenomeno linguistico è interessante osservare anche il mutare della percezione estetica dei metalli aurei nell’antichità. Per gli Assiri e per le popolazioni pre-doriche come i Micenei, il metallo veniva apprezzato per la sua peculiarità dovuta al peso (alcune tazze di quei periodi arrivano a pesare circa un chilo). Qualche secolo dopo però la classicità greca percepirà il valore del metallo non più in funzione del peso, bensì in relazione alle sue caratteristiche tecniche, valutate positivamente solo se tali da rendere massima l’utilità dell’oggetto. Le corone nuziali o funebri di quel periodo oltre che lucenti sono leggerissime, quindi di massima praticità, perché l’oro era tale in quanto non si alterava e poteva essere lavorato a tal punto da divenire leggerissimo. E per i greci la bellezza non sarà mai il mero kalòs, che da solo non vale nulla, ma il kalòs kagathòs: bello e buono uniti ed indissolubili affinché possa essere raggiunto il massimo della perfezione. Nel mondo germanico era bello ciò che riluceva, ma nell’ antichità romana, al contrario, da lux (luce) derivò luxuria, la lussuria (severamente punita anche dalla legge!). Quindi, ciò che era ritenuto valore positivo dalle popolazioni germaniche veniva esecrato dai romani, che avevano invece un valore positivo sostanzialmente differente: l’eleganza. L’eleganza romana nasce dal fatto che nella Roma repubblicana non si veniva votati, (il voto come proclamazione per espulsione vocale era tradizione delle popolazioni barbariche) ma eletti. I censori, attingendo alle liste degli iscritti alle famiglie senatoriali (le famiglie del patriziato) eleggevano (ex-legere) dall’elenco i nomi dei futuri senatori, i quali non si distinguevano per nessun tipo di lusso, ma semplicemente indossando una tunica bianca con una riga rossa, simbolo della loro appartenenza agli eletti. Il fenomeno del bello quindi appare assai vario e difficilmente fissabile con alcuni criteri piuttosto che altri. Però, nel momento in cui si raggiunge, in cosa consiste la bellezza?

Il bello dei filosofi


Spesso alla domanda “Cosa è bello?” si osa rispondere, forse troppo ingenuamente, con “ciò che piace!”, ma cos’è il piacere dunque? E in che modo potrebbe influire sul nostro giudizio di gusto, ammesso che lo faccia? Già, perché la posizione scettica della questione, la quale ritiene la bellezza irrimediabilmente un effetto della soggettività e quindi del piacere individuale, vede preclusa ogni possibilità di disputare del gusto: se ho freddo ho freddo e basta, e nessun tipo di ragionamento potrebbe servire a far cambiare sensazione. Tuttavia, v’è un’obiezione movibile a questo tipo di scetticismo, ed è quella che tiene conto del fatto che se davvero ognuno possedesse una bellezza interamente soggettiva, e non oggettivabile in nessun modo, non avremmo nemmeno così largo consenso per quelle che pressoché tutti ritengono grandi opere d’arte.

David Hume dà via al suo trattato “Della regola del gusto” tenendo conto di entrambe le posizioni, la scettica e l’antiscettica. Per Hume non sarebbe possibile avere un così largo consenso al riguardo di opere classiche se tutti non avessimo “un’uguaglianza naturale dei gusti”, ovvero un medesimo gusto spirituale innato. Ma se possediamo tutti un’uguaglianza naturale dei gusti, come giustificare la grande varietà dei pareri? Hume risponde alla domanda col concetto di un giudizio spirituale sì uguale a tutti per natura, ma che evidentemente subisce dei turbamenti e delle corruzioni: ”In ogni creatura vi è uno stato sano e uno difettoso, e si può supporre che soltanto il primo sia in grado di darci una vera regola del gusto.” Questo gusto naturale però va delineandosi meglio solo per quelle opere che superano il test del tempo; il tempo infatti è fondamentale per il filosofo scozzese in quanto ritiene la “regola del gusto” scopribile sul terreno dell’esperienza, cioè partendo dalle “osservazioni generali relative a ciò che si è trovato piacevole in tutti i paesi e in tutte le epoche.”; come se una valutazione del consenso generale, temporale e geografico insieme, offra tutto quell’insieme di giudizi da prendere in considerazione per conoscere correttamente la tendenza universale del giudizio di gusto. Per questo motivo quindi il consenso si fa più confuso ed il dibattito più acceso quando materia della disputa sono opere contemporanee, cioè quelle che il test del tempo devono ancora compierlo. Ma chi possiede quel sano gusto spirituale che può dare la regola del gusto? “La sentenza concorde dei critici, ovunque si trovino, è la vera regola del gusto e della bellezza”. Per Hume quindi, poiché possiedono “un forte buon senso, unito a un sentimento squisito, accresciuto dalla pratica, perfezionato dall’abitudine ai confronti e liberato da tutti i pregiudizi”, sono gli esperti a, per così dire, regolamentare il gusto.

Tra il XVII ed il XVIII secolo le estetiche e le precettistiche classiciste o razionaliste pretesero di fissare vere regole della bellezza con norme di vario genere, fissando le proporzioni tra gli elementi di un’opera o regolandone la composizione. Tuttavia, si notò che un’opera, per quanto potesse seguire pedissequamente qualsiasi tipo di precetto, correva comunque il rischio di non piacere al fruitore. Si parlò allora di qualcosa che sfuggisse a qualsiasi determinazione concettuale, nonostante fosse fondamentale affinché l’oggetto contemplato piacesse. E’ quello che Leibniz chiamerà “non so che”. Secondo Leibniz si ricorre al “non so che” ogni qual volta siamo propensi a giudicare qualcosa in un modo o nell’altro ma non siamo capaci di “rendere ragione” del nostro giudizio. E il principio della ragion sufficiente è un punto cardine di tutta la filosofia leibniziana, il quale postula che “nulla avviene senza ragione e senza causa” anche se gli uomini non sono capaci di comprendere pienamente ciò che accade. Solo Dio, perché onnisciente, conosce da sempre tutte le ragioni e tutte le cause. Per Leibniz, quando un giudicante ricorre al “non so che” è costretto a farlo solo per la sua limitatezza d’intelletto non essendo in grado di conoscere tutte le ragioni e le cause, non potendo quindi ricondurre il piacere dei sensi (il non so che) ad un piacere intellettuale (la bellezza come ordine razionale). Non dimentichiamo che per Leibniz il mondo in cui viviamo è il “migliore dei mondi possibili”, donde la bellezza è vista come percezione d’un’armonia, di un ordine, riconducibile a regole e concetti: “Il piacere di chi capisce, infatti, non è altro che la percezione della bellezza, dell’ordine, della perfezione. E ogni dolore contiene qualcosa di disordinato, ma solo in relazione a chi percepisce, dato che tutte le cose, in senso assoluto, sono ordine. […] Non è infatti possibile che ogni mente comprenda tutte le cose in modo distinto, e a coloro che osservano alcune parti più di altre, l’armonia non può apparire nella sua totalità”. Leibniz non riconosce quindi una piena autonomia alla sensibilità umana: tutta l’esperienza empirica deve essere riconducibile ad un ordine concettuale. Tutte le nostre conoscenze, percezioni, nozioni vengono classificate in base al loro grado di maggiore o minore chiarezza e distinzione e, a seconda del caso, denominate “idee oscure”, “idee chiare ma confuse” e “idee chiare e distinte”. Le prime sono quelle idee non sufficienti neppure a far riconoscere la cosa rappresentata. Le idee chiare ma confuse invece sono quelle che permettono di riconoscere la cosa rappresentata, ma di cui non si riesce a discernere chiaramente ogni particolarità che permetta di distinguerla dalle altre (come quando, ad esempio, riesco chiaramente a capire che ho in mano una cravatta nera ma senza riuscire a distinguerne pienamente la tonalità in modo da essere certo di non confondere la mia cravatta con altre cravatte nere). Quando si riesce a riconoscere la cosa rappresentata e ad enumerarne tutte le note sufficienti a distinguere quella cosa dalle altre simili, allora si ha un’idea chiara e distinta. Se tutte le nostre idee fossero chiare e distinte allora riusciremmo a fare esperienza della perfetta armonia che governa il mondo, ma questa possibilità Leibniz la riserva esclusivamente ad una mente infinita come quella di Dio. Noi uomini dovremo sempre ricorrere al “non so che” perché il più delle volte le nostre facoltà terminano allo stadio intermedio delle idee chiare e confuse. E’ tra le idee chiare e confuse e quelle chiare e distinte che è sita la soglia tra sensibilità ed intelletto, e poiché tra sensibilità e intelletto per Leibniz c’è continuità, questa soglia può essere valicata.

Per un altro filosofo, Immanuel Kant, questa soglia non è valicabile in nessun modo perché sensibilità ed intelletto non differiscono quantitativamente, bensì qualitativamente. La domanda di Kant è se possa esistere un giudizio di gusto che non abbia nulla a che fare con la conoscenza. Il rischio, lo sappiamo, sarebbe quello di irretirsi nuovamente nella questione della soggettività contrapposta all’oggettività, della posizione scettica a quella antiscettica. Ma ciò che è soggettivo non potrebbe essere anche intersoggettivo, cioè valere per ciascun soggetto invece che per uno solo? E’ questa la riflessione iniziale che Kant svilupperà poi nella Critica delle facoltà di giudizio. Come abbiamo visto, la posizione antiscettica ritiene che ogni giudizio sia esclusivamente soggettivo, trattando il giudizio di gusto alla stregua delle sensazioni come potrebbero esserlo il caldo e il freddo, o quelle del gusto inerenti ai cibi; ma in questo modo, rileva Kant, “il giudizio non ha alcun diritto al necessario accordo degli altri”. Alla posizione antiscettica invece Kant obietta il fatto che, se davvero le qualità della bellezza risiedessero esclusivamente nell’oggetto, non avrebbe senso nessuna disputa che riguardasse le soggettività; in questo caso il giudizio verrebbe equiparato ad una verità oggettiva e quindi potrebbe essere provato mediante studi fatti sull’oggetto in questione. Per il filosofo di Konisberg dunque è vero che non si può disputare del giudizio di gusto ma è anche vero che se ne può discutere. Da ciò emerge un’antinomia, due esigenze: da un lato, il giudizio è privato, bisogna provarlo di persona; dall’altro si esige un consenso universale. A questo punto il filosofo si chiede come individuare un principio di determinazione che permetta al gusto d’essere insieme privato ed universalizzabile, cioè soggettivo ed oggettivabile. Quattro sono i requisiti individuati da Kant:

1. Gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un modo rappresentativo mediante un compiacimento o un dispiacimento, senza alcun interesse. L’oggetto di un tale compiacimento si chiama bello.

2. Bello è ciò che piace universalmente senza concetto.

3. Bellezza è forma della conformità a scopi di un oggetto, in quanto essa vi è percepita senza rappresentazione di uno scopo.

4. Bello è ciò che viene riconosciuto senza concetto come oggetto di un compiacimento necessario.

1.Kant afferma che il giudizio di gusto è estetico ridando così all’estetica stessa, il cui etimo è aìsthesis che significa sensazione, la sua accezione originaria. Tuttavia sono innumerevoli quei giudizi che dipendono dalla sensibilità pur essendo oggettivi. Pensiamo, ad esempio, a ciò che percepiamo quotidianamente con i nostri cinque sensi. Kant si chiede se sia pensabile un giudizio irrimediabilmente estetico e in nessun modo riferibile ad un oggetto. Un siffatto giudizio sarebbe completamente soggettivo perché non indicherebbe mai una proprietà dell’oggetto. La risposta di Kant è affermativa, e l’unico giudizio irrimediabilmente estetico e soggettivo è quello che ha come oggetto il sentimento di piacere o dispiacere. In effetti non potremmo mai pensare di attribuire ad un oggetto un nostro sentimento come suo predicato oggettivo. Ma Kant aggiunge che questo compiacimento o dispiacimento deve essere disinteressato. Perché? Il filosofo qui opera una ulteriore distinzione fra piaceri, avvertendo che molti piaceri hanno per interesse l’esistenza dell’oggetto, e, come abbiamo visto, il compiacimento o dispiacimento non deve avere nulla a che fare con l’oggetto. La distinzione fatta da Kant è tra forme di piacere e la definisce “piacevole”, “utile” o “buona”. La prima è quella che vede indispensabile l’esistenza dell’oggetto perché se ne tragga piacere (es: il piacere d’un dolce, d’una bibita ecc…). La seconda è quella che, anche se dispiace ai sensi, concettualmente è ritenuta utile (es: un medicinale) o un’azione morale “buona”. Se esistesse una forma di piacere diversa da queste dovrebbe necessariamente trattarsi di quella del bello.

2. Se il compiacimento è privo d’interesse allora può facilmente venir pensato come universalizzabile, valido cioè per tutti i giudicanti possibili. Attenzione però: non per tutti gli oggetti giudicati. Si giudica sempre e soltanto una singola rappresentazione. Posso dire: “questa penna è bella”, e pretendere che lo sia per tutti, ma non posso dire “tutte le penne sono belle”, ché altrimenti “bello” diverrebbe un predicato logico oggettivo.

3. Con questo attributo Kant vuole dirci che il criterio tramite cui giudichiamo un oggetto non può essere quello di valutarlo mediante l’utilità che da esso potremmo ricavare, bensì si tratterà d’un percepire il raggiungimento di uno scopo mai fissato in precedenza.

4. Se pronuncio un giudizio di gusto, allora deve essere possibile che tutti concordino con me: un accordo tra i giudicanti deve poterci essere. Conclusioni


Quindi dei giudizi di gusto si può e si deve discutere, sebbene sia impossibile disputare. Discutere ha senso solo alla presenza di due condizioni: la prima è che l’oggetto della discussione non possa essere verificato mediante prove (in tal caso si tratterebbe di proprietà oggettive dimostrabili empiricamente); la seconda è che si discuta di qualcosa su cui poter trovare un accordo, perché altrimenti la discussione sarebbe un ritornare alla posizione scettica, quindi inutile. Sebbene la discussione non potrà mai sostituire l’esperienza strettamente personale del compiacimento, può tuttavia, per così dire, favorirla, mettendo forse in campo aspetti che il nostro interlocutore, o i nostri interlocutori, non avevano colto.


La bellezza appare così situata ineffabilmente tra la soggettività e l’oggettività; più che qualcosa di certo sembra una tendenza da sempre avuta, sebbene con sfumature diverse nel corso dei secoli.

Ma forse aveva ragione Stendhal quando la definiva nient’altro “che una promessa di felicità”.


Gianluigi Scaringella

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